Il caso dell’indovinello veronese

Cit. A. Roncaglia, Trascendenza e immanenza, in Storia della letteratura italiana (dir. E. Cecchi – N. Sapegno), I. Le origini e il Duecento, Torino 1970, pp. 165-179.

 

In un punto d’intersezione ideale delle due prospettive psicologico-linguistica dianzi delineate – quella pratico-didascalica che modella il volgare sul latino, e fantastico-giocosa che modula il latino sul volgare – vorremmo collocare un testo famoso: un testo che in ogni trattazione relativa ai primi documenti del volgare occupa un posto notevole e singolare: vogliamo dire l’indovinello veronese.

È noto di che si tratti. La Biblioteca Capitolare di Verona conserva (cod. LXXXIX) un orazionale mozarabico, esemplato in Spagna, forse a Tarragona, alle soglie dell’VIII secolo e pervenuto a Verona prima della fine del secolo medesimo, dopo essere passato attraverso la Sardegna (come attesta, sul primo foglio, la firma di Sergio visdomino della Chiesa cagliaritana) e Pisa (come attesta, a carta 3, una nota autografa di Maurizio «canevarius» di Liutprando, datata «in XX anno Liutprandi regis», cioè 731-732). Sul recto del terzo foglio, in alto, una mano che i caratteri tipici della scrittura denunciano come veronese della fine dell’VIII o dei primi del IX secolo, ha vergato su due righi una dozzina di parole, seguite in un terzo rigo da una formula liturgica di ringraziamento. L’insieme della nota, che Luigi Schiaparelli segnalò per primo, nel 1924, all’attenzione degli studiosi, ha, in trascrizione diplomatica, il seguente aspetto:

 

+ Separebabouesalbaprataliaarabaetalboversoriotenebaetnegrosemen

seminaba

+ gratiastibiagimusomnipotenssempiternedeus.

 

Verona, Biblioteca Capitolare. Ms. LXXXIX (VIII-IX sec.), Orazionale mozarabico, f. 3r. Il cosiddetto Indovinello veronese.

 

Che significa quella dozzina di parole? La prima impressione, emessa nello stesso anno 1924 da Nino Tamassia e Michele Scherillo, fu di avere innanzi quattro versicoli, leggibili, con una lieve inversione iniziale:

 

Boves se pareba

alba pratalia araba

et albo versorio teneba

et negro semen seminaba.

 

Ad avviso dei due filologi, si sarebbe trattato di una «cantilena georgica», meglio del «frammento d’una più lunga cantilena»: «il principio della più antica canzone italiana del bifolco», addirittura una specie di «inno italico del lavoro dei campi».

La localizzazione veneto-ladina del testo fu subito confermata, con osservazioni di geografia linguistica, da Giulio Bertoni; ma l’illusione romantica che si trattasse di un canto rustico non durò a lungo. A riconoscere in quei versicoli un componimento di senso compiuto, e più precisamente un indovinello relativo all’atto dello scrivere, fu, di lì a due anni, Vincenzo De Bartholomaeis, messo sull’avviso dall’accostamento, presentatosi spontaneo alla memoria di una sua allieva, fra il testo stesso e un diffuso indovinello popolare. In esso, i buoi rappresentano le dita dello scrivente (veramente il De Bartholomaeis pensò agli occhi, ma la successiva rettifica è messa fuor di dubbio dai riscontri), il prato bianco è il foglio di pergamena o di carta, il bianco aratro è la penna d’oca, il seme nero è l’inchiostro che forma le lettere. La diffusione viva e le varie forme assunte da tale indovinello in diverse regioni d’Italia e d’Europa, insieme con i suoi precedenti medievali ed antichi, erano stati in realtà oggetto di diligente indagine, da parte del folclorista romagnolo Carlo Piancastelli, fin dal 1903, un ventennio prima che la nota del codice veronese fosse pubblicata dallo Schiaparelli. E prima ancora era apparso, nelle Myricae del Pascoli, un breve componimento in cui il poeta rielaborava a modo suo, sotto il titolo Il piccolo aratore, lo spunto offertogli dal medesimo indovinello, quale viveva tra il popolo romagnolo:

 

Scrive… (la nonna ammira): ara bel bello,

guida l’aratro con la mano lenta;

semina col suo piccolo marrello:

il campo è bianco, nera la sementa…

 

Quel che aveva colpito la fantasia del Pascoli era certo il sapore sottile della metafora, ambigua fra l’apparenza ingenua della rappresentazione concreta con il suo verismo illustrativo del lavoro nei campi, e il sostanziale artificio dell’equazione intellettualistica, con il suo riferimento al lavoro di scrittorio; una metafora per di più stilisticamente impreziosita dallo studiato contrasto di bianco e nero: mista, insomma, d’esibito popolarismo e di ricercato alessandrinismo. È il mondo scolastico della scrittura contemplato con occhi di contadino, o non piuttosto il mondo bucolico rievocato da chi ha l’abitudine allo scrivere? Popolare l’indovinello era certo nella sua fortuna diffusione; ma lo era altrettanto nella sua originali, lo squisito recupero pascoliano ben potrebbe valere come indizio! Ma indipendentemente da esso, proprio a proposito del testo veronese, il quesito non mancò di proporsi ai filologi, e ricevette dal Rajna e dal Monteverdi risposta nettamente negativa. Di là dalle sopravvivenze dell’indovinello nella tradizione popolare, non poteva sfuggire ai due eruditi medievalisti la sua stretta connessione tematica, la sua parentela non solo tipologica ma certo anche genetica con vari enigmi scolastici dell’VIII secolo, a loro volta variazioni specifiche di una metafora che, nella forma più generica – l’uso di arare o exarare nel senso di «scrivere», sia pure con riferimento allo stilo e alle tavolette cerate anziché alla penna e alla carta – era già nota ai classici. I riscontri venivano dagli Aenigmata anglica, da composizioni degli anglosassoni Aldelmo, Tatwino, Eusebio, persino da versi del longobardo Paolo Diacono «scrittore che», come sottolineava il Monteverdi, «è press’a poco degli stessi tempi e degli stessi luoghi in cui fu scritto l’indovinello veronese».

London, British Library. Cotton MS Tiberius B V, (IX sec. ca.), f. 3r. Miniatura da un calendario raffigurante dei contadini intenti ad arare un campo.

 

Pergo per albentes directo tramite campos,

candentique viae vestigia cerula linquo,

lucida nigratis fuscans anfractibus arva…[1]

 

Così Aldelmo, e analogamente Paolo Diacono:

 

Candidolum bifido proscissum vomere campum

visu et restrictas adii lustrante per occas[2].

 

 

Per di più, quelli che ai primi studiosi dell’indovinello veronese erano apparsi quattro versicoli – a rime alterne secondo il Tamassia, a rime baciate con la nuova trasposizione proposta dal De Bartholomaeis

 

Boves se pareba

et albo versorio teneba,

alba pratalia araba

et negro semen seminaba.

 

addirittura a rima unica con il livellamento delle desinenze proposto dal Rajna

 

Boves se pareba,

alba pratalia areba

et albo versorio teneba

et negro semen semineba

 

– non tardarono a palesarsi al Monteverdi come due esametri ritmici caudati, di fattura non dissimile da quelli usati in carmi latini di epoca longobarda e anche proprio in una serie di composizioni enigmistiche, da leggersi pertanto senz’alcun intervento sul testo (tutt’al più sopprimendo i due inutili et, o anche solo il primo di essi):

 

Se pareba boves, alba pratalia araba,

(et) albo versorio teneba, (et) negro semen seminaba.

 

Scuola di Benedetto Antelami. Allegoria di Luglio. Bassorilievo, marmo, 1230-1235, dalla Porta dei Mesi. Ferrara, Cattedrale di san Giorgio.

 

Sono evidenti le implicazioni di questo punto di vista per quel che riguarda la valutazione dell’indovinello sotto il profilo linguistico. Più si accentua il carattere non popolare ma colto dell’invenzione, ritraendola ai modi scolastici e all’ambiente chiericale (né, per l’VIII secolo, sarebbe ragionevole pensare a un altro ambiente in cui la scrittura potesse costituire un argomento d’interesse, quando l’analfabetismo era ancora dominante tra i laici anche di non umilissima condizione), più riesce disagevole immaginare che gli evidenti volgarismi del testo – almeno la é di negro da ĭ tonica, e la –o per –um in albo, versorio, negro, e l’assenza dell’originaria –t desinenziale nei quattro verbi pareba, araba, teneba, seminaba – siano sfuggiti alla penna dell’estensore inavvertitamente, senza ch’egli avesse coscienza – e dunque intenzione – di scrivere una lingua diversa dal tradizionale latino scolastico.

Così, logicamente, quello che allo Scherillo era apparso «rozzo latino», annunciante solo «di lontano, assai di lontano, di tra la foschia antelucana, l’aurora del nuovo volgare», quello che anche il Bertoni aveva giudicato «latino rustico», mentre il De Bartholomaeis si era spinto sino a definirlo «semivolgare», finisce con l’apparire al Rajna e al Monteverdi schiettamente «volgare».

In effetti, alla minuta analisi linguistica dei due filologi la «volgarità» dell’indovinello risulta ben più compatta di quanto possa a prima vista sembrare. Oltre ai tratti più evidenti, di cui si è riportato sopra l’elenco, è volgare l’uso di se proclitico per sibi; volgare, e tipica della regione veneto-friulana, la desinenza metaplastica nella terza persona singolare dell’imperfetto pareba, da parare di prima coniugazione. Lo stesso uso di parare nel senso di «spingere innanzi buoi o pecore» rappresenta un idiotismo rustico, vivo ancor oggi in tutta l’Alta Italia; e volgarismi sono dal punto di vista lessicale-semantico versorio, come ancora si trova in veronese, per aratrum o vomerem, e pratalia, diffusissimo nella toponomastica, per pratum o anzi agrum. L’apparente plurale neutro alba pratalia sarà da intendere come femminile singolare, secondo l’uso volgare confermato dai riscontri toponomastici; né vi è ragione di sorprendersi, come di un latinismo incongruo, per la presenza di albo, a quell’epoca e in quella regione (ai cui margini pur oggi sopravvive nelle Alpi Retiche) non ancora soppiantato dal concorrente germanico blank. Nulla poi obbliga a considerare non volgare la desinenza di boves, giacché la persistenza fonetica di –s finale e quella morfologica dei plurali in –es si constatano tuttora nel Friuli, come in tutta la Ladinia e in tutta la Romània occidentale, e, giusta vari indizi, dovevano un tempo e potevano ancora nell’VIII secolo estendersi su più vaste aree dell’Italia settentrionale, comprendenti anche il territorio di Verona. Ancora nella morfologia, il contrasto tra la desinenza metaplastica di pareba e quella etimologico di araba e seminaba non costituisce difficoltà, quando si osservi che, mentre i verbi arare e seminare si conservano strettamente aderenti al significato latino, l’innovazione popolare, destinata a prevalere nel dialetto locale, accompagna l’idiotismo semantico. Né costituisce difficoltà, nella sintassi, l’assenza dell’articolo, il quale pur già esisteva nella lingua volgare del tempo: l’articolo mancherà infatti anche nei giuramenti di Strasburgo e nei placiti cassinesi, i quali non sono perciò meno volgari; senza dire che il carattere di sentenziosa indeterminatezza proprio di un indovinello legittima tale assenza meglio di quanto non riesca a giustificarla la solennità giuridica dei giuramenti e dei placiti.

L’aratro. Bassorilievo, marmo, XIII sec. dalla facciata della basilica di san Pietro (Spoleto).

 

Che cosa rimane dunque, che possa ritenersi non volgare nel testo dell’indovinello, quale ci è tramandato dal codice veronese? Appena qualche latinismo grafico, e cioè (messi da parte i due et, giacché il compendio & che li rappresenta può sciogliersi altrettanto bene con e): la –t– intervocalica di pratalia, che la pronuncia settentrionale aveva già sonorizzato in pradalia; la –b– intervocalica degli imperfetti, certo già spirantizzata, e «che tuttavia poté suonare in modo da dar luogo, non fosse altro, a incertezze» (Rajna), infine la –n finale di semen, che tuttavia può giustificarsi con ragioni metriche, supponendo che con il mantenimento della grafia latina l’autore abbia inteso «conferire una fittizia lunghezza all’ultima sillaba» per meglio riprodurre la clausola dell’esametro (Monteverdi). Questi latinismi, facilmente spiegabili con le abitudini grafiche dello scriba, non appaiono quantitativamente né qualitativamente tali da scuotere le conclusioni sulla complessiva e intenzionale «volgarità» del testo, il quale viene così ad acquistare una singolarissima importanza. Se quelle conclusioni sono giuste, esso rappresenta infatti, per ripetere le parole del Viscardi, «il più antico documento dell’uso di un volgare italiano nella scrittura; anzi, senz’altro, il più antico documento dell’uso scritto dei volgari romanzi».

Che una così solenne e impegnativa conclusione non sia stata da tutti accolta senza incertezze e resistenze, è ben comprensibile. Senza incertezze non è rimasta, del resto, la stessa interpretazione letterale del componimento: ed è ovvio che ogni diversa soluzione interpretativa possa comportare una variazione nel peso rispettivo di volgarismi e latinismi. Non tutti, ad esempio, sono disposti ad ammettere che pareba venga effettivamente da parare, e non piuttosto da parere – inteso nel senso di «sembrare, somigliare» (Contini, Mastrelli), ovvero di «apparire, mostrarsi» (Migliorini) –: e, se così fosse, verrebbero meno sia il volgarismo semantico, sia quello rappresentato dal metaplasmo di coniugazione. Non tutti, d’altra parte, hanno accettato l’interpretazione del se iniziale come pronome: c’è chi crede di poter ravvisare in esso la congiunzione introduttrice d’una protasi ipotetica (Mastrelli), mentre altri hanno proposto la lettura separebea, dal verbo separare (Pastreis, Chiari), nel qual caso il metaplasmo rimarrebbe, oppure, e non ci sarebbe più metaplasmo, da (as)sepàrere nel senso di «appaiare» (Presa). Inoltre, s’è osservato che i quattro imperfetti «potrebbero rappresentare sia la terza persona singolare, quanto la terza plurale» (Mastrelli, Migliorini), e – pur di leggere unito separeba – anche la prima del singolare (Presa). Ma, tranne forse l’incertezza fra terza persona singolare e terza plurale – e si sa che il modellamento di questa su quella è ancor oggi un tipico dialettismo veneto –, nessuna delle altre proposte sembra poter resistere a critica. Anzitutto, l’uso di parare riferito all’azione di «guidare i buoi» è così radicato nel parlar contadino della regione cui l’indovinello appartiene, da rendere – a nostro avviso – praticamente impensabile un’effettiva concorrenza da parte d’espressioni omofone con altro significato. In seconda linea, l’assunzione di se come congiunzione ipotetica darebbe al testo una struttura certo non impossibile in sé, ma oggettivamente improbabilissima, isolandolo all’esterno dal tipo che ci offrono concordi tutte le sopravvivenze popolari del medesimo indovinello, e rompendo all’interno l’ovvio parallelismo sintattico tra le quattro proposizioni. Infine – e questa considerazione ci par decisiva – chi assuma boves come soggetto anziché come oggetto del primo verbo infrange di nuovo e più gravemente l’unità strutturale del testo, ché a guidare l’aratro e a seminare non possono essere i buoi, mentre il soggetto delle quattro proposizioni deve essere unico, come unica non può non essere la soluzione dell’indovinello, con la quale il soggetto stesso dovrà logicamente identificarsi.

 

Cleveland, Museum of Arts. Cod. Frowinus dispersus 2, Moralia in Job di Gregorio Magno (1143-1178 ca.), f. 1v. Giobbe e tre amici; Gregorio detta il libro ad uno scrivano.

È vero che a definire tale soluzione, e insomma il significato complessivo della metafora articolata in quelle quattro proposizioni, v’è stata pure qualche incertezza. C’è chi, senza puntare all’unità dell’agente, s’è contentato di ravvisare nell’insieme «l’atto dello scrivere» (De Bartholomaeis), e c’è chi ha preteso che nell’indovinello parli in prima persona «la penna» (Presa, seguito da Viscardi); qualcuno s’è fermato a «la mano dello scrivente» (Contini); ma i più s’accordano ormai a identificare soluzione e soggetto nella persona de «l’uomo che scrive». Questa – che coincide con la spontanea interpretazione dell’indovinello popolare quale si offriva alla fantasia pascoliana (si pensi al titolo: Il piccolo aratore) – pare anche a noi la soluzione più naturale e persuasiva; tanto meglio se precisata nella sua accezione professionale: «lo scriba, il librarius» (Pighi). La precisazione ci sembra importante, in quanto converge con i dati esterni a meglio chiarire quale significato specifico debba attribuirsi alla presenza dell’indovinello come nota aggiunta a un codice e in quale senso specifico debbano definirsi ambiente e personalità dell’estensore: specificazioni, a loro volta, di grande momento per valutare i caratteri linguistici del testo. Se infatti a rimettere in discussione le nette conclusioni del Rajna e del Monteverdi sul carattere già «volgare» dell’indovinello, a riaccreditare la vecchia opinione che si tratti in sostanza di latino deformato dall’uso ignorante, a suggerire almeno definizioni più sfumate, come quella di «semi-volgare», incoraggiamenti non indifferenti sono venuti dai dubbi interpretativi che dicevamo, bisogna pur riconoscere che contestare ad uno ad uno quei dubbi non costituisce ancora una risposta sufficiente a tutte le perplessità. Una tale risposta, invero, non può venire dall’addizione e pesatura meccanica di tratti linguistici, già «volgari» da un lato, ancora «latini» dall’altro. Bisogna indagare, di là dai tratti oggettivi, quale fosse la soggettiva coscienza di chi sulle pagine del codice veronese ha vergato le parole dell’indovinello. Intendeva egli scrivere nel tradizionale latino di scuola, e i volgarismi che gli sfuggono sono da imputare a difetto di cultura e di applicazione? O aveva consapevolmente scelto di scrivere nella lingua parlata di tutti i giorni, nel suo «volgare materno», e i residui latinismi sono da riportare alla novità dell’intento, alla mancanza di tradizione grafica del volgare, all’inevitabile prepotenza d’una lunga consuetudine a scrivere e trascrivere testi latini?

Su tale piano, per documentare la coscienza linguistica dell’estensore e provare il carattere consapevolmente e intenzionalmente volgare dell’indovinello, alla lingua di questo s’è contrapposto il corretto latino ecclesiastico della frase Gratias tibi agimus, omnipotens sempiterne Deus, che vi s’accoda, e che – nonostante qualche dubbio suscitato dalla diversa inclinazione piuttosto che dai caratteri essenziali del ductus – par proprio della stessa mano. Facile dedurne, come ha fatto il Monteverdi, che «lo scrivente era pienamente consapevole della differenza e dunque dell’opposizione delle due lingue».

Si può tuttavia ricordare che un’antitesi non troppo dissimile s’è già incontrata tra zone «libere» e zone «formularie» delle carte latine, e osservare che il corretto latino ecclesiastico giustapposto nella nota del codice veronese alla lingua piena di volgarismi dell’indovinello è appunto, anch’esso, latino di formula (si tratta propriamente della formula canonica della gratiarum actio ad complendum, quale appare nei sacramenti gallicani, celtici e mozarabici, prima che nel romano). E si può ricordare che un’antitesi in qualche modo analoga – certo meno marcata sotto il rispetto grafico e fonetico, ma ad un tempo più esplicitamente consapevole nella sua funzionalità instauratrice d’un rapporto di traduzione – è pur quella che si riscontra fra lemmi e interpretamenta in un glossario come quello di Reichenau. Perché per l’indovinello e la formula che lo segue dovremmo parlare proprio di «due lingue» – «volgare e latino» – quando per le carte e per le glosse abbiamo parlato di due livelli stilistici: l’uno tradizionalmente cristallizzato secondo le regole scolastiche, l’altro consentaneo, entro certi limiti e per fini pratici, alla scioltezza dell’uso corrente; ma entrambi interni ad una medesima e sola «lingua»? in che cosa la situazione psicologico-linguistica può considerarsi mutata abbastanza da consentire o suggerire una diversa definizione?

Cambridge, Trinity College Library. MS R. 17.1, Psalterio di Eadwine (XII sec.). Eadwine allo scrittoio.

 

Osserveremo intanto che l’accostamento fra la situazione dell’indovinello, quella delle carte e quella delle glosse è meno superficiale di quanto potrebbe a prima vista parare. Nelle carte, zone «libere» e zone «formularie» sono legate da un rapporto non casuale d’interdipendenza: costituiscono insieme una unità funzionale. Ebbene, nemmeno la formula di grazie può considerarsi, come per lo più s’è fatto, un’aggiunta gratuita, del tutto indipendente dall’indovinello: questo e quella sono legati, nel codice veronese, da un rapporto meno casuale e più stretto di quanto comunemente si creda. Insieme uniti, essi costituiscono, in realtà, una di quelle note che scribi e bibliothecarii solevano apporre – secondo una diffusa consuetudine delle officine librarie – ai codici da loro compilati o comunque affidati alle loro cure. Il classico manuale di W. Wattenbach, Das Schriftwesen in Mittelalter[3], offre di tali note una ricca esemplificazione: e basta scorrerla per constatare come fosse usuale giustapporre, in questa sede, formule rituali d’eulogia, di ringraziamento e di preghiera (Laudetur omnipotens Deus, Deo gratia, Orate pro me, Amen, e simili) ad espressioni di compiacimento e valorizzazione della fatica compiuta dagli scribi e d’ammonimento ai lettori perché la rispettino. In queste espressioni – che di fronte alla fissità delle formule religiose possono essere considerate come «parti libere», pur presentando a loro volta motivi ricorrenti – il librarius allenta la tensione dell’opera sua, per stabilire con i compagni di lavoro e con i lettori un colloquio diretto, in cui la sua voce si distingue da quella del testo e s’abbandona alla confidenza, magari allo scherzo, usando una lingua meno sorvegliata, più proclive al volgarismo. A dare un’idea dell’aspetto e dei motivi più frequenti di simili note, eccone per esempio una, estratta da un codice della Lex Romana Visigothorum, il Berlinese 270 del secolo IX:

 

O beatissime lector, lava manus tuas et sic librum adprehende: leniter folia turna, longe a littera digito pone, quia qui nescit scribere putat hoc esse nullum laborem. O quam gravis est scriptura! Oculos gravat, renes frangit simul et omnia membra contristat. Tria digita scribunt; totum corpus laborat. Quia sicut nauta desiderat venire ad proprium portum, ita et scriptor ad ultimum versum. Orate pro Martirio, indignum sacerdotem vel scriptorem sed habentem Deum protectorem. Amen[4].

 

C’è di più. In un codice affine al Berlinese ora addotto, il Parigino 4415, la clausola dello scriba – trascritta in onciale da un antigrafo esemplato, probabilmente nel 783, nello scriptorium di Sant’Aniano ad Orléans – suona così:

 

Vos autem lectores, qui istum libellum legeritis, manus vestras bene diligite, et digitos vestros longe ponite ad scripturam; quia qui nescit scribere nullum labore estima, quia quinque berni arabant, tres operabant sulcisque faciebant. O quam grave pondus scriptura! Dorsum incurvat, oculos caliginem facit, ventrem et costas frangit. Et tu frater, qui legis istum librum, ora pro Radulfo clerico, famulo Dei, qui hoc scripsit in atrio Sancti Aniani. Si Deum habeatis adiutore vel protectore in omnibus operibus vestris[5].

 

Paris, Bibl. Mazarine, ms. 313, f. 1 (primo quarto del XV sec.). Miniatura raffigurante una biblioteca.

 

Ecco dunque almeno un caso in cui entro una nota di scriba s’insinua – e si noti il passaggio dal presente di consuetudine all’imperfetto fittivo – il tema d’una descrizione metaforica della scrittura, che appartiene evidentemente alla stessa famiglia dell’indovinello veronese, con il quale ha in comune l’immagine tratta dal lavoro dei campi e del quale rappresenta una variante anch’essa tuttora viva nella tradizione popolare. Viene così ad essere rotta quell’impressione di isolamento che l’indovinello veronese non mancava di produrre sugli studiosi; ma nello stesso tempo viene, diremmo, a rafforzarsi l’impressione della sua originalità linguistico-espressiva. Se la sua presenza nel codice veronese non sorprende più, inserendosi nella tradizione delle note scrittorie, maggiore sorpresa desta invece – in paragone non solo con i singoli enigmi sinora addotti a riscontro della letteratura mediolatina, ma proprio con le altre note scrittorie del tipo sopra esemplificato – la sua veste tanto più «volgare». Si direbbe che nell’indovinello, «parte libera» della sua nota, lo scriba veronese abbia fatto uso d’una «libertà» linguistica sensibilmente maggiore, soprattutto più sistematica, di quella consueta, accumulando nel suo testo una serie di volgarismi certo non meno e forse ancor più qualificanti di quelli che sistematicamente s’accumulavano nelle «parti libere» delle carte merovingico-longobarde. Può una tale libertà essere considerata inconsapevole e preterintenzionale in un ambiente di cultura come quello della scuola capitolare veronese?

S’inserisce qui l’accostamento con la situazione psicologico-linguistica delle glosse di Reichenau: anch’esso, abbiam detto, meno superficiale di quanto possa a prima vista parere. Tra Verona, dal 774 centro politico del dominio franco in Italia, e l’importante centro culturale che san Firmino aveva fondato nel 724, per concessione di Carlo Martello, sul lago di Costanza, esistevano diretti rapporti. Non per caso in quell’abbazia s’era ritirato nei suoi ultimi anni di vita il vescovo Eginone (m. 802), predecessore e maestro di Ratoldo (m. 840); maestro probabilmente anche del famoso arcidiacono Pacifico, alla cui attività d’animatore dello scriptorium veronese s’è già avuto occasione d’accennare in un precedente capitolo. È ben vero che le glosse dette di Reichenau non sono originarie del monastero augiense, dove pervennero dalla Francia settentrionale, pare attraverso Corbié; ma esse rappresentano comunque una corrente confluita ed accolta per tempo in quel centro di cultura, che ne custodì poi a lungo il manoscritto. Come dunque sottrarsi al sospetto che ad emergere nella Verona d’Eginone e di Ratoldo sia proprio la stessa corrente, e che il compatto volgarismo dell’indovinello sia da considerare un preciso sviluppo di quella stessa coscienza linguistica che nelle glosse opponeva la viva funzionalità degl’interpretamenta, dove le condizioni volgari son già più che trasparenti sotto l’esterna latinizzazione della grafia e delle desinenze, alla sclerosi del latino tradizionale, del quale tante voci e tante forme appaiono ormai bisognose di spiegazione?

Berlin, Staatliches Bibliothek. Ms. Phil. 1676, Codice di Eginone (fine VIII sec.). Agostino detta ai diaconi.

 

Il sospetto riesce avvalorato da quanto il Pighi è venuto osservando su un ritmo cittadinesco veronese, composto proprio in quegli stessi anni che vedevano la mano d’un ignoto scriba vergare le parole dell’indovinello sull’orazionale mozarabico della Biblioteca Capitolare. I Versus de Verona sono chiaramente ispirati al ritmo composto una sessantina d’anni prima, ai tempi di re Liutprando, in elogio di Milano; ma lo imitano adottando – con intenzionalità e sistematicità che risultano palesi dal confronto – un latino assai più volgareggiante. «Dalla lingua dei due ritmi», osserva il Pighi, «non si può ricavare la conclusione che la cultura di Milano fosse superiore a quella di Verona; ma solo questo: che a Milano nel 739 un mediocre poeta, d’assai modesta dottrina, sapeva scrivere in un rozzo “latino grammaticale”, e che a Verona nel 796 un migliore poeta, di larga dottrina, voleva scrivere e scriveva in “latino romanzo”: sono due lingue, o strati di lingua, differenti, e non una lingua colta e un’incolta. Si potrebbe dire che il poeta milanese scrisse “in lingua” e il veronese “in dialetto”…». Come i Versus de Verona, come un altro testo veronese dell’epoca, la Vita ritmica di san Zeno, così – secondo il Pighi – anche l’indovinello sarebbe scritto in «latino romanzo»: definizione volutamente ambigua, con la quale vuole designare una «corrente letteraria di latinità volgareggiante…, dove si può vedere uno dei molti tentativi, il cui grado i consapevolezza più o meno sviluppato è molto difficile fissare entro limiti precisi, compiuti attraverso tutto il Medioevo… per colmare il distacco tra lingua scritta e lingua parlata» (Folena).

In conclusione, seppur resti indubbiamente difficile precisarne il grado (il cautissimo Schiaffini parla interrogativamente di «coscienza almeno aurorale»), sembra ormai impossibile disconoscere nell’estensore dell’indovinello una fondamentale consapevolezza distintiva di due tipi linguistici, con l’intenzione d’adottare il più corrente. Che i suoi volgarismi siano casuali e dovuti a mera ignoranza non appar più credibile, una volta constatato che la distinzione ha precedenti non remoti dalla sua cultura specifica (glosse di Reichenau), che l’intenzione ha anch’essa precedenti nella specifica sede (note di scribi), che infine l’una e l’altra – coscienza distintiva e intenzionalità di correntezza – trovano conferme almeno tendenziali in testi della medesima epoca e del medesimo ambiente veronese (Versus de Verona, Vita ritmica di san Zeno: testi d’autori colti, ma destinati a un pubblico largo). E diciamo «conferme tendenziali», perché rispetto a questi paralleli, come d’altronde rispetto a quei precedenti, il volgarismo dell’indovinello appare a noi (in questo avanzeremmo un poco oltre le posizioni del Pighi e del Folena) senz’altro più spinto e più organico, sia per quanto possiamo osservare circa l’oggettiva densità dei tratti qualificabili come volgari, sia per quanto possiamo indurne circa la soggettiva consapevolezza dell’estensore.

Proprio su tale processo del volgarismo nel fatto e nella coscienza converrà ormai porre l’accento. L’indovinello, infatti, assomma ai nostri occhi la coscienza distintiva nelle glosse, dove la distanza tra due tipi linguistici è chiaramente avvertita come trascendenza del più sostenuto ed arcaico, e il più marcato volgarismo di quelle parti libere delle carte dove, seppur la consapevolezza distintiva non sia così esplicita come nelle glosse, più sistematica è tuttavia la rinuncia alla latinizzazione delle desinenze e delle grafie, ossia l’adesione a condizioni immanenti. Di più, l’indovinello s’avvantaggia sia sulle glosse sia sulle liste nominali in cui si risolvono per lo più le parti libere delle carte, per il fatto ch’esso non ci offre serie di voci asintatticamente giustapposte, ma costituisce un testo sintatticamente articolato ed autosufficiente. Di più ancora, mentre glosse e carte s’allontanano dal modello classico per scopi di pratica strumentalità, il tipo linguistico affermatosi nell’uso strumentale viene assunto dall’indovinello per un atto assolutamente libero e gratuito della fantasia espressiva, che in quel tipo si riconosce e s’identifica con spontanea immediatezza. Spontaneità e gratuità privilegiano infine l’indovinello anche rispetto ai paralleli recati dal Pighi: la tradizione letteraria, che agisce ancora come un freno sul pur consapevole volgarismo di testi come i Versus de Verona e la Vita ritmica di san Zeno, non può logicamente avere altrettanto peso in un componimento tanto più breve e tanto meno impegnativo.

Sono, tutti questi, passi innanzi assai notevoli nella graduale presa di coscienza del volgare; tanto da poter anche apparire sufficienti a qualificare francamente come «volgare» la lingua del nostro testo, certo non più definibile, nonché da ignoranza, nemmeno da quello spirito di compromesso fra latino scritto e lingua parlata che risponde altrove ad esigenze pratiche, qui assenti. D’altra parte, se qui il volgarismo non rappresenta più un limite culturale, non si può ancora dire che il tipo linguistico in cui esso s’incarna consegua, sul piano della dignità culturale, esplicito ed ufficiale riconoscimento di parità con il latino, e insomma statuto di lingua autonoma. I due tipi sono di fatto consapevolmente distinti; ma di diritto non si collocano ancora sul medesimo piano, ché l’indovinello resta pur sempre una nota occasionale e privata: il divertimento e potremmo dire il capriccio personale d’uno scrivano, dal cui spirito sono assenti, come esigenze pratiche, così anche ambizioni di sostenutezza documentale o letteraria. Se in esso non ha luogo volontà di compromesso, nemmeno vi si può individuare una volontà di legalizzazione del volgare su piano giuridico o poetico. Per questo, più che sulla definizione di «primo testo volgare» – etichetta esterna, di carattere in fondo nominalistico, e sulla quale è perciò prevedibile che si possa continuare a discutere – insisteremmo sulla novità e singolarità della prospettiva psicologico-linguistica interna al testo: prospettiva in cui, come dicevamo all’inizio, l’atteggiamento fantastico-giocoso s’incontra con quello pratico-didascalico e da esso adotta in funzione espressiva, e perciò con più libera coerenza, un sistema di forme che la tradizione scrittoria aveva sino allora saltuariamente ammesso, entro confini ristretti, solo in funzione strumentale.

***************

 

Note:

[1] R. Ehwald (ed.), Adhelmi opera, in MGH, Auctores antiquissimi, XV, Berlin 1919, p. 124: «Procedo per diritto cammino attraverso i campi biancheggianti, e lascio sulla candida via vestigia azzurrine, i nitidi campi macchiando con oscuri solchi».

[2] E.L. Dümmler (ed.), Pauli et Petri Diaconorum carmina, in MGH, Poetae Latini aevi Carolini, I, Berlin 1881, p. 55: «Un campo candido appare alla vista solcato da bifido vomere, e per i fitti solchi avanzai perlustrando».

[3] W. Wattenbach, Das Schriftwesen in Mittelalter, Graz 1958, pp. 278 ss.; vd. anche S. Funke, Buchkunde, Leipzig 1963.

[4] «O felicissimo lettore, lava le tue mani e così prendi in mano il libro: volta le pagine con garbo, tieni le dita lontane dalla scrittura, perché chi non sa scrivere crede che non sia questa alcuna fatica. Quanto faticosa è invece la scrittura! Affatica gli occhi, e insieme spezza la schiena e fa dolere tutte le membra. Tre dita scrivono; tutto il corpo si travaglia. Perché come il navigante brama giungere al proprio porto, così lo scrittore all’ultima riga. Pregate per Martirio, indegno sacerdote e scrittore, ma che si richiama alla protezione di Dio. Così sia».

[5] Cfr. Lex Romana Visigothorum, ed. G. Haenel, Lipsiae 1849, p. lxvii: «Quanto a voi, lettori, curate bene la pulizia delle vostre mani, e tenete le vostre dita lontane dalla scrittura; giacché chi non sa scrivere non lo stima fatica alcuna, ché cinque servi aravano, tre lavoravano a fare i solchi! O che grave fatica la scrittura! Curva la schiena, rovina la vista, spezza il petto e il ventre. E tu, fratello che leggi questo libro, prega per il chierico Rodolfo, servo di Dio, che lo scrisse nello scrittoio di Sant’Aniano. Così Dio vi aiuti e vi protegga in tutte le vostre opere».

********************

Bibliografia parziale:

Sul testo dell’indovinello veronese: L. Schiaparelli, Sulla data e provenienza del cod. LXXXIX della Biblioteca Capitolare di Verona (l’Orazionale Mozarabico), «ASI» 7, 1 (1924), pp. 106-117 (con facsimile alla tav. 3, e trascrizione alla nota 3 di p. 113). N. Tamassia – M. Scherillo, Un’antichissima cantilena georgica in latino volgare, «Rend. Ist. Lomb.» 2, 47 (1924), pp. 734-736. G. Bertoni, Alcune postille alla nota di M. Scherillo, «Giornale storico della letteratura italiana» 85 (1925), pp. 389-390; Id., Geografia linguistica, «Aevum» 2 (1928), p. 145. V. De Bartholomaeis, Ciò che veramente sia l’antichissima cantilena “Boves se pareba”, «Giornale storico della letteratura italiana» 90 (1927), pp. 197-204; Id., Postilla, ibidem. 91 (1928), pp. 67-76. P. Rajna, Un indovinello volgare scritto alla fine del secolo VIII o al principio del IX, «Speculum» 3 (1928), pp. 291-313. A. Monteverdi, (recens.) V. De Bartholomaeis, Ciò che veramente sia l’antichissima cantilena “Boves se pareba”, «Studi medievali» 1 (1928), pp. 202-203; Id., (recens.) P. Rajna, Un indovinello volgare scritto alla fine del secolo VIII o al principio del IX, in «Studi medievali» 2 (1929), pp. 231-232; Id., Sul metro dell’indovinello veronese, «Studi medievali» 10 (1937), pp. 204-212; Id., A proposito dell’indovinello veronese, in Saggi neolatini, Roma 1945, pp. 39-58.

Sulla questione interpretativa: C.A. Mastrelli, L’indovinello veronese, «Archivio glottologico italiano» 38 (1953), pp. 190-209. G. Presa, Sull’indovinello di Verona, «Aevum» 31 (1957), pp. 241-252. A. Viscardi, Le Origini, Milano 19573, pp. 550-551. G.B. Pighi, Semina italicae linguae, «Lingua nostra» 21 (1960), pp. 107-112. A. Chiari, Dubbi sull’indovinello veronese, ibid. 22 (1961), pp. 63-64.

Un pensiero su “Il caso dell’indovinello veronese

  1. […] La frammentazione politica non distrusse però la cultura latina, intesa qui come lingua quotidiana; aggiunse invece elementi nuovi, per trasformare sempre più, nonostante la volontà frenante della scuola e dei grammatici, il sistema linguistico. Anche i Longobardi, quasi unificatori politici furono veicolo di novità, fin quando nel 774 Carlo Magno li sconfisse, per poi rifondare l’Impero, volendo ricomporre l’unità politica, religiosa, culturale (e, perciò, linguistica). Ma una lingua non si impone; il popolo, disperso nelle campagne dei feudatari o accolto nelle corti, continuò a sentire sempre più incomprensibile il latino, che proprio per la riforma carolingia, diventava «altra lingua» rispetto a quella parlata dalle masse ed era ormai soltanto la lingua ufficiale della Chiesa e del Palazzo imperiale. Il concilio di Tours (813) prese coscienza della diversità della lingua del popolo, quando raccomandò ai vescovi la predicazione dicendo che «easdem omilias quisque aperte transferre studeat in rusticam linguam aut thiotiscam, quo facilius cuncti possint intellegere quae dicuntur» [Ciascuno si studi di tradurre le stesse omelie in lingua rustica o in tedesco, affinché tutti possano meglio capire ciò che vien detto]; e già nell’842, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, successori di Carlo Magno, giuravano davanti ai loro soldati vicendevole aiuto; e per essere capiti da tutti, pronunciavano la formula in volgare, romana e teudisca lingua: «Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament…» [Per l’amore di Dio e per il popolo cristiano e per la nostra vicendevole salvezza…], dice Ludovico; e Carlo, in lingua tedesca, ripete: «In Godes minna ind in thes christianes folches ind unser bedhero gehaltnissi…». Con i Giuramenti di Strasburgo si ha il primo documento romanzo: non latino aureo, non latino volgare, ma semplicemente volgare: la lingua che il volgo parlava, che era nata dal latino, diventava anche una lingua scritta. Attestazione della molteplicità di lingue in Occidente, ci viene dal Libro delle strade e delle province, opera araba di geografia scritta tra l’844 e l’848: «Questi mercanti [occidentali] parlano l’arabo, il persiano, la lingua dei Romani, la lingua di Francia, quella di Spagna e lo slavo»: due lingue romanze sono considerate «lingue di mercato» (Roncaglia). Anteriore ai Giuramenti di Strasburgo, trascritto verso la fine dell’VIII secolo o agli inizi del IX, in minuscola corsiva italiana centrosettentrionale, troviamo l’Indovinello veronese: […]

    "Mi piace"

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.