Dante Alighieri

Dante è il massimo poeta della civiltà comunale. Nella sua opera convergono la cultura dell’intero Medioevo e i fenomeni di una nuova epoca, inquieta e in rapida trasformazione. Ogni aspetto (sociale, filosofico, religioso, politico, artistico e persino scientifico) della vita a lui contemporanea è affrontato da Dante con passione e originalità, all’interno di una ricerca sempre pronta all’autocritica e al nuovo. In questo senso la figura di Dante appare radicata nella sua epoca più di qualsiasi altra della nostra letteratura. Allo stesso tempo, non poche ragioni rendono l’opera dantesca straordinariamente attuale ancor oggi. Basti pensare che in essa è fondata la nostra lingua: «dopo Dante non ci può essere più questione di quale sia la lingua comune d’Italia» (C. Dionisotti). Fu il primo a utilizzare il volgare in ambito letterario sfruttandone al massimo tutta la sua potenzialità espressiva. Egli, insomma, è per la cultura letteraria italiana ciò che Johann Sebastian Bach sarebbe stato per la musica occidentale. Con la Vita nova scrive il primo “romanzo” della nostra letteratura; con le rime d’amore o filosofiche o politiche innalza al più alto livello la tradizione lirica; con il Convivio offre il primo grande modello di prosa e di narrazione. Difende soprattutto con il De vulgari eloquentia la nuova lingua e ne determina la tradizione letteraria, stabilendo solidissimi canoni storico-letterari.

Jacopo di Cione, Ritratto di Dante Alighieri. Affresco, 1366, dalla sala maggiore dell’Arte. Firenze, Palazzo dell’Arte dei Giudici e Notai.

Ma Dante non è solamente il padre della nostra lingua e della letteratura italiana, è anche un riferimento decisivo della nostra identità nazionale, segnata da lui definitivamente su base linguistica, politica e culturale. È soprattutto l’autore della Commedia, un poema di concezione grandiosa, che rappresenta l’espressione più alta dell’intera civiltà medievale e insieme segna l’inizio di una nuova epoca, la cui conoscenza – oggi affidata prevalentemente alla scuola – ha costituito un elemento di identità capace di coinvolgere tutte le classi sociali e di attraversare i secoli, come modello di vita e discrimine di giudizio (morale, politico, ecc.) più ancora che come espressione artistica.

A questa ulteriore ragione forte e durevole dell’attualità di Dante se ne aggiunge poi un’altra, legata all’aspetto che può parere il meno solido della sua opera: la concezione politica. Tale attualità non riguarda gli aspetti propositivi della sua visione politica, fondata su un universalismo più anacronistico che utopico, ma nella vigorosa determinazione critica con cui egli colpisce la società a lui contemporanea e che lo induce a rivolgersi – in tutte le forme – contro quei valori, riassumibili nella logica del guadagno, che i secoli futuri avrebbero visto espandersi, fino ai nostri giorni. La radicalità del giudizio di Dante nei confronti di un mondo precipitato nella voragine infernale suona attuale quanto la sua costante fiducia nella possibilità di riscatto, l’assenza di ogni cedimento ai valori dominanti e il rifiuto di arrendersi al loro provvisorio trionfo.

Del resto, un autore è considerato “canonico” quando crea una tendenza ed è da molti successori imitato, ma Dante fu assai poco imitabile: il suo plurilinguismo e lo sperimentalismo linguistico che ne caratterizzano l’opera spinsero i poeti, dal Cinquecento in poi, a preferire la levigatezza e la regolarità della poesia di Petrarca. Tuttavia, gli scrittori dal Trecento al Novecento si sono appropriati, magari in modo frammentario, della sua opera a vari livelli: autori quali Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale, Levi, Pasolini, Eliot, Borges e Pound presentano tutti vistose reminiscenze dantesche.

Di particolare interesse, a proposito dell’“effetto Dante” sono i giudizi che due tra i maggiori poeti europei del XX espressero su di lui. Thomas Stearns Eliot poneva in risalto la precisione espressiva di Dante, collegata con la tecnica allegorica di rappresentazione. La poesia dantesca consentiva, secondo il poeta inglese, un allargamento delle facoltà percettive e associative umane.

Eugenio Montale, dal canto suo, sottolineava l’irripetibilità del modello dantesco, pure di continuo presente davanti agli occhi dei poeti successivi. Il poeta italiano che più di ogni altro guardò all’esempio dantesco nel Novecento, dichiarava la distanza incolmabile tra il mondo di Dante, necessario al nascere della sua poesia, e il mondo contemporaneo. Per entrambi gli autori, comunque, il modello dell’allegoria dantesca costituiva un riferimento importantissimo, che essi si sforzarono di attualizzare, adeguandolo alla loro personale poetica e alla nuova condizione storica.

 

«Dante pensava in terza rima […]. È nessun verso sembra richiedere una traduzione assolutamente letterale quanto quello di Dante, perché nessun poeta ci convince più completamente che la parola che ha usato è quella che voleva, e che nessun’altra funziona»[1].

«La poesia di Dante rappresenta l’unica scuola universale di stile poetico valida per qualsiasi lingua […]. Il metodo “allegorico” di Dante offre grandi vantaggi per scrivere poesia: semplifica lo stile, rendendo le immagini chiare e precise. A ciò si aggiunga che in un buon uso dell’allegoria, come quello che ne fa Dante, non è necessario comprendere subito il significato per gustare la poesia, ma è il gusto della poesia che ci fa desiderare di comprendere il significato. […] La Divina Commedia è una gamma completa di altezze e di abissi delle emozioni umane, […] il Purgatorio e il Paradiso si devono leggere come estensioni delle possibilità umane, di norma assai limitate. Ciascun grado del sentimento umano, dal più basso al più alto, ha inoltre un’intima relazione con quello che gli sta immediatamente sopra e sotto, e tutti si adattano secondo la logica della sensibilità»[2].

«Che cosa significa l’opera di Dante per un poeta d’oggi? Esiste un suo insegnamento, un’eredità che noi possiamo raccogliere? Se consideriamo la Commedia come una summa e un’enciclopedia del sapere, la tentazione di ripetere e di emulare il prodigio sarà sempre irresistibile, ma le condizioni del successo non esistono più […]: Dante non può essere ripetuto. Fu giudicato quasi incomprensibile e semibarbaro pochi decenni dopo la sua morte, quando l’invenzione retorica e religiosa della poesia come dettato d’amore fu dimenticata. Esempio massimo di oggettivismo e razionalismo poetico, egli resta estraneo ai nostri tempi, a una civiltà soggettivistica e fondamentalmente irrazionale, perché pone i suoi significati nei fatti e non nelle idee. Ed è proprio la ragione dei fatti che oggi ci sfugge. Poeta concentrico, Dante non può fornire modelli a un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione»[3].

 

Giotto di Bondone, Dante Alighieri. Affresco, 1334-1337, dettaglio del Giudizio Universale, dalla Cappella del Podestà. Firenze, Palazzo del Bargello.

 

Alle origini del mito poetico

Giovanni Boccaccio (1313-1375) fu uno tra i primi e più importanti estimatori di Dante Alighieri, al punto di ricevere l’incarico dal Comune di Firenze di tenere, nel 1373, alcune letture pubbliche della Commedia. Questa sua passione aveva già avuto modo di concretizzarsi, intorno al 1355, nella stesura di un Trattatello in laude di Dante, una biografia in cui i dati documentari si intrecciano, nell’entusiasmo celebrativo, con notizie poco fondate storicamente. In quest’opera Boccaccio traccia un rapido ritratto fisico e morale dell’Alighieri, che, secondo il modello classico della biografia degli «uomini illustri», segue la narrazione dettagliata della vita del poeta. In generale, di Dante si mettono in risalto soprattutto la moderazione, l’ironia e la riservatezza, riconoscendo per suo unico eccesso il desiderio di gloria poetica. Ma ecco come lo descrive Boccaccio nella seconda redazione del Trattatello:

 

Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo, e il naso aquilino, le mascelle grandi, e il labro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso. […] Li suoi vestimenti sempre onestissimi furono, e l’abito conveniente alla maturità, e il suo andare grave e mansueto, e ne’ domestici costumi e ne’ pubblici mirabilmente fu composto e civile. Nel cibo e nel poto[4] fu modestissimo. Né fu alcuno più vigilante di lui e negli studii e in qualunque altra sollecitudine il pugnesse[5]. Rade volte, se non domandato, parlava, quantunque eloquentissimo fosse. Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovinezza, e, per vaghezza di quegli, quasi di tutti i cantori e sonatori famosi suoi contemporanei fu dimestico[6]. Quanto ferventemente esso fosse da amor passionato[7], assai è dimostrato di sopra. Solitario fu molto e di pochi dimestico. E negli studii, quel tempo che lor poteva concedere, fu assiduo molto. […] Fu similmente d’intelletto perspicacissimo e di sublime ingegno e, secondo che[8] le sue opere dimostrano, furono le sue invenzioni mirabili e pellegrine[9] assai[10].

 

Luca Signorelli, Ritratto di Dante sommo poeta. Affresco (particolare), XV sec. Orvieto, Duomo.

 

La vita: politica, amore e poesia divina.

Tra tutti i grandi autori della nostra storia letteraria, sulla vita di Dante non possediamo notizie dettagliate, e spesso si deve ricorrere alle suggestioni, ai ricordi, alle informazioni che egli lasciò cadere all’interno delle sue opere: è pur vero, infatti, che i capolavori danteschi sono continuamente occupati da indizi autobiografici, ma questi costituiscono solo in parte un aiuto nella ricostruzione attendibile della vita, data la grande libertà con la quale Dante stesso si servì dei dati reali al fine di costruire una sorta di “mitologia” personale. Del tutto assenti, o rarissimi, sono d’altronde i riferimenti da parte dell’autore ad aspetti della vita da noi ritenuti essenziali: il matrimonio e i figli, gli spostamenti, le letture e le frequentazioni. Ogni dato è pertanto il frutto di lunghe ricerche e discussioni, e costituisce, in non pochi casi, solamente un’ipotesi.

I problemi cominciano già dal nome, che nella sua forma originaria suonava quasi certamente Durante, del quale Dante era la forma ipocoristica (insomma, un diminutivo!), che si è definitivamente sostituita al nome vero e proprio. A «Dante», usato nei documenti, seguiva il “cognome” «Alagherii» (tale è la grafia più esatta del nome, in base agli antichi documenti; quella moderna “Alighieri” prevalse soltanto con Boccaccio).

La data di nascita è un ulteriore problema (mentre sicuro è il luogo: Firenze). Solamente da riferimenti indiretti, confermati da testimonianze d’archivio, è possibile risalire a un periodo compreso fra il 14 maggio e il 21 giugno 1265: è lo stesso poeta a informare in Pd. XXII 112-120 di essere nato sotto il segno dei Gemelli (che nel XII secolo cadeva in quel periodo).

Figlio di Alagherio degli Alagherii e della sua prima moglie, Bella degli Abati, Dante apparteneva a una famiglia guelfa di piccola nobiltà, di lustro recente: al trisavolo Cacciaguida era stato conferito dall’imperatore Corrado III il titolo nobiliare di “cavaliere” poco più di un secolo prima della nascita del poeta. Il padre di Dante, Alagherio, aveva incrementato il modesto patrimonio familiare (basato sul possesso di alcune terre) con attività mercantili e finanziarie, non escluso il prestito; è peraltro probabile che i risultati di questi affari non fossero sempre fiorenti e che la famiglia attraversasse talvolta momenti di precarie condizioni economiche. D’altra parte, il padre non venne esiliato all’indomani della sconfitta guelfa a Montaperti (1260), che portò i ghibellini al potere nel Comune. Bella, la madre di Dante, morì prematuramente e nel 1275 Alagherio contrasse seconde nozze.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Chigiano L. VIII 296 (XIV sec.), Cronica Nuova di Giovanni Villani, f. 85r. Raffigurazione della battaglia di Montaperti (1260).

 

Nel 1277, a soli dodici anni, Dante fu assegnato in nozze a Gemma Donati, con la stipula di un contratto notarile disposto dalle famiglie secondo l’uso del tempo; il matrimonio sarebbe stato effettivamente perfezionato solo alcuni anni più tardi, forse nel 1285, e da esso sarebbero nati tre o forse quattro figli: Pietro, Jacopo, Antonia e Giovanni (?). Pietro e Jacopo sarebbero stati tra i primissimi e i più importanti commentatori della Commedia.

Gli anni della giovinezza sono segnati da una formazione culturale ampia e varia, tanto filosofica e teologica quanto letteraria, sia nello studio dei classici che nella frequentazione degli ambienti più aggiornati. Il poeta, come si ricava in If. XV, 82-87, ci informa di aver studiato le arti del trivium e apprese la retorica alla sequela di Brunetto Latini[11]; intorno al 1287 si recò a Bologna per affari di famiglia e per studio, perfezionando le sue competenze oratorie e letterarie. Da ragazzo si appassionò anche alla musica e alla pittura.

L’evento centrale della giovinezza di Dante fu l’incontro con colei che più avrebbe inciso sulla sua poesia: la donna mirabile, la «gentilissima», di nome Beatrice. Secondo quanto il poeta stesso racconta nella Vita nova, il primo incontro tra i due sarebbe avvenuto nella primavera del 1274, quando Dante aveva quasi compiuto nove anni e Beatrice ne aveva appena otto e quattro mesi. Nel secondo incontro, avvenuto nel 1283, cioè dopo nove anni, Beatrice concesse il saluto al poeta, ormai diciottenne, quando l’uomo poteva dirsi pienamente autonomo e pronto ad amare. Il sentimento terreno di Dante per lei durò circa sette anni, fino al 1290, anno in cui la donna morì. Sotto il nome di Beatrice, secondo alcuni studiosi (altri, invece, la ritengono una mera invenzione letteraria), si celerebbe Bice Portinari, figlia del banchiere Folco, sposata con il cavaliere Simone de’ Bardi e scomparsa all’età di quasi ventiquattro anni. Su un sentimento così precoce e costellato di date e numeri simbolici (il 7, il 9) sono stati avanzati legittimi dubbi, dovuti soprattutto al fatto che entrambi fossero sposati. Accertare la veridicità della relazione non è però determinante: quello che conta è che il senso di un possibile amore giovanile sia stato profondamente rielaborato dal poeta e messo al centro della sua esperienza umana e letteraria.

La prima fase della biografia dantesca è profondamente segnata dall’amicizia con Guido Cavalcanti (c. 1255-1300). Il loro sodalizio risale all’epoca in cui Dante compose e inviò ai più famosi trovatori del tempo il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core, stando almeno a quanto egli stesso narra in Vn. III 14-15 (la Vita nova è appunto dedicata a Guido). «A quel sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie, fra i quali il poeta cui io chiamo primo de li miei amici», cioè appunto Cavalcanti, che nell’occasione compose il sonetto responsorio Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo scambio, aggiungeva Dante, «fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me»: insomma, la loro amicizia nacque dunque da un incontro letterario avvenuto intorno al 1283, presumibile data di composizione del sonetto dantesco.

 

Cristofano dell’Altissimo, Ritratto di Guido Cavalcanti. Olio su tavola, 1552-1568. Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

La comunione poetica fra i due si realizzò nell’ambito dello «Stil novo», ma il legame si rafforzò grazie alla comune militanza politica nella fazione dei guelfi bianchi. Tuttavia, ragioni filosofico-letterarie (l’inconciliabilità delle rispettive visioni dell’amore) e poi politiche avrebbero determinato la fine dell’amicizia tra i due.

Dante, insomma, diede inizio alla propria attività letteraria sin da giovane, cimentandosi in vari filoni, tra cui spicca quello stilnovistico. Tra il 1292 e il 1295 circa compose la Vita nova, opera dedicata a Cavalcanti nella quale meditava sulla propria esperienza poetica precedente, rileggendo i propri testi alla luce dell’amore per Beatrice.

Il 1290 fu un anno cruciale nella biografia dantesca: in base al racconto della Vita nova, infatti, allora morì Beatrice. Il fatto luttuoso spinse il poeta a cercare consolazione nei libri, e sappiamo che, negli anni immediatamente successivi, egli non solo lesse opere filosofiche come il De consolatione philosophiae di Severino Boezio e il De amicitia di Cicerone, ma frequentò anche le più importanti scuole filosofico-religione di Firenze: lo Studium francescano di Santa Croce e quello dei domenicani di Santa Maria Novella, tra i più prestigiosi d’Italia. Furono anni di studio intenso, che lasciarono il loro segno anche nel fisico di Dante (come confessa nel Convivio, affaticò tanto gli occhi da avere alcuni problemi alla vista).

Poco prima di intraprendere questi studi, Dante, come ogni giovane fiorentino, assunse alcuni impegni di carattere militare: esperto di equitazione, partecipò alla battaglia di Campaldino (11 giugno 1289) come «feditore a cavallo», combattendo contro gli Aretini; il 16 agosto dello stesso anno prese parte all’assedio del castello pisano di Caprona.

Giunto ormai alla soglia dei trent’anni, Dante iniziò anche la carriera politica, breve ma intensissima. Il 6 luglio 1295 il Comune approvò un emendamento agli Ordinamenti di Giustizia che il priore Giano della Bella, nel 1293, aveva emanato contro i magnati, vitando loro l’accesso alle cariche pubbliche: ora, invece, anche i «Grandi» avrebbero potuto intraprendere la carriera politica, purché iscritti a una delle ventuno corporazioni cittadine. Quanto a Dante, egli si era iscritto all’Arte dei medici e degli speziali, potendo così entrare a far parte del Consiglio dei Trenta del Capitano del Popolo (novembre 1295-aprile 1296) e poi del Consiglio dei Cento (maggio-settembre 1296). Nel marzo 1294 gli era stato concesso l’onore di ospitare e accompagnare il figlio di re Carlo II d’Angiò, Carlo Martello, in visita a Firenze.

Wien, Österreichische Nationalbibliothek. Cod. Vindob. ser. nov. 2644 (fine XIV sec.), f. 42r. La bottega dello speziale.

Nello stesso giro di anni, la scena politica fiorentina fu sconvolta dalla ripresa dello scontro tra Bianchi e Neri, due diversi schieramenti della fazione guelfa, che fin dal 1266 (battaglia di Benevento) teneva saldamente il potere. I Bianchi facevano capo alla famiglia dei Cerchi ed esprimevano gli interessi del «popolo grasso» (finanzieri e ricchi mercanti), mentre i Neri erano guidati dalla famiglia dei Donati, sostenitori di una linea filo-nobiliare e disposti ad appoggiarsi al Papato pur di raggiungere questo scopo. Dante aderì alla parte Bianca, che difendeva l’autonomia di Firenze dalle ingerenze papali e imperiali.

Il dissidio politico tra le due fazioni divenne insostenibile, proprio quando fra il 15 giugno e il 15 agosto 1300 il giovane Alighieri fu eletto fra i sei Priori, massima magistratura cittadina: pur dando prova di grande moderazione e imparzialità, il poeta si trovò in conflitto con il papa Bonifacio VIII e si trovò costretto a sottoscrivere il bando dei cittadini più faziosi, fra cui il famigerato Corso Donati e il vecchio amico Guido Cavalcanti.

Durante la sua attività politica, Dante maturò la consapevolezza della crisi in cui versavano le istituzioni comunali, incapaci di assicurare la giustizia e la coesione interna alla comunità a causa degli interessi particolari delle famiglie, e inefficienti nel garantire l’autonomia della città dalle ingerenze esterne. La minaccia più vicina era proprio rappresentata da Bonifacio VIII, che tese, come vicario dell’imperatore assente, ad allargare la propria influenza sui Comuni dell’Italia centrale; le discordie interne non fecero altro che favorire le manovre pontificie.

La lotta di parte, dunque, ben presto avrebbe travolto anche lui. Infatti, scaduta la carica di priore, Dante restò comunque al centro dei rivolgimenti politici intestini, intervenendo in numerose occasioni sempre in aperta ostilità alle ambizioni del Papato. Nell’autunno del 1301, mentre Dante si trovava in delegazione presso la Curia per sondare le reali intenzioni di Bonifacio, Carlo di Valois, fratello del re di Francia, entrò con la forza in Firenze, depose il governo in carica, consentì il rientro dei Neri fuoriusciti. Il nuovo governo, capeggiato dl podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio, attuò una sanguinosa repressione degli esponenti bianchi e aprì un procedimento contro Dante, condannandolo a due anni di esilio e al pagamento di una multa di cinquemila fiorini per il reato di baratteria (cioè di corruzione e di guadagno illecito durante l’esercizio delle cariche pubbliche): la tipica accusa per sbarazzarsi di un avversario politico! Non essendosi presentato a difendersi, il 18 e il 27 gennaio 1302, l’Alighieri fu condannato a morte in contumacia e alla confisca di tutti i beni. Il poeta, che aveva lasciato Firenze in qualità di ambasciatore, non vi avrebbe fatto mai più ritorno[12].

Gli spostamenti del poeta negli anni dell’esilio non ci sono noti con certezza. Egli stesso dichiara nel Convivio (I 3): «Per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato». È noto, comunque, che nel 1303 Dante partecipò a un’alleanza “tattica” dei Bianchi con i vecchi capi ghibellini, nel tentativo di rientrare in patria per via diplomatica. La successiva scelta delle armi da parte dei compagni indusse l’Alighieri a prendere le distanze dalle loro iniziative, proprio alla vigilia della grave sconfitta che gli esiliati subirono nella battaglia della Lastra (20 luglio 1304), vicino alla città. Costretto a cercare ospitalità lontano da Firenze, Dante con i suoi figli si spostò da una corte all’altra dell’Italia centro-settentrionale: fu una prima volta a Verona, presso Bartolomeo della Scala, poi a Treviso e di nuovo in Lunigiana (presso i Malaspina), a Lucca e infine nel Casentino.

Nel 1308, intanto, veniva eletto imperatore Arrigo VII di Lussemburgo e grandi erano le speranza di Dante quando il sovrano scese in Italia nel 1310, come dimostrano alcune epistole civili in latino, in particolare l’Epistola V ai signori e alle città d’Italia. Gli esiti dell’impresa imperiale, volta a ristabilire il potere legittimo sulla penisola, si rivelarono ben presto deludenti, e la morte dell’imperatore nel 1313 mise fine a ogni illusione. Nel periodo che va dal 1303 al 1308, nel frattempo, Dante aveva composto due trattati, il Convivio e il De vulgari eloquentia, che riflettono le posizioni politiche e intellettuali che l’autore aveva maturato. Entrambe le opere rimasero incompiute, presumibilmente a causa del progetto della Commedia. Nello stesso giro d’anni Dante si era dedicato all’Inferno (compiuto forse già nel 1308) e al Purgatorio (forse già terminato verso il 1312).

L’essersi schierato apertamente e appassionatamente a favore della causa imperiale, alla quale sarebbe rimasto per sempre fedele con coerenza, aggravò per l’Alighieri le condizioni dell’esilio, data la diffusa ostilità dei signori locali (non solo guelfi) al progetto di riunificazione regia. Perciò, tra il 1313 e il 1319 Dante soggiornò a Verona, alla corte di Cangrande della Scala; a quel periodo, probabilmente, risale il terzo trattato, la Monarchia. Nel 1315 il Comune fiorentino concesse a tutti gli esiliati bianchi un’amnistia, a patto che pagassero una multa e si pentissero pubblicamente: Dante rifiutò l’offerta con sdegno, rivolgendo a un ignoto intercessore l’Epistola XII; perciò, a lui e ai figli fu riconfermata la condanna a morte.

Tra il 1318 e il 1321 il poeta si trasferì a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove fu accolto altrettanto benevolmente che presso gli Scaligeri di Verona, ottenendo incarichi diplomatici e formandosi un circolo di ammiratori e di allievi. Aveva da poco compiuto il Paradiso, quando la morte lo colse, di ritorno da un’ambasceria a Venezia, fra il 13 e il 14 settembre 1321. Fu sepolto in un tempietto adiacente alla Basilica di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) con grande onore; e in tal luogo si trovano tuttora i suoi resti, inutilmente richiesti in seguito dai Fiorentini.

 

London, British Library. Yates Thompson MS 36 (1444-1450 c.), Dante Alighieri, Divina Commedia, f. 159. Pd. XVII Dante bandito da Firenze.

 

La Firenze di Dante

Dante parla spesso di Firenze nelle sue opere, in particolare nella Commedia. L’immagine che ce ne fornisce è inevitabilmente influenzata dalle vicende del tempo: una comunità cittadina divisa da scontri violenti, in cui sembrano assenti i valori etici e civili, che l’avevano resa grande e prospera nel secolo precedente.

Ma com’era davvero la Firenze di Dante?

In effetti, era molto diversa dalla città ricca di palazzi e monumenti dell’età rinascimentale. Molti di questi simboli Dante non ebbe mai modo di vederli: Palazzo Vecchio, Santa Maria Novella, Santa Croce, il campanile di Giotto e la cattedrale di Santa Maria del Fiore alla fine del XIII secolo erano stati appena iniziati.

Dante visse in una realtà in rapida trasformazione: spesso rimpiangeva la Firenze del passato, sobria e onesta, che forse, però, non era mai davvero esistita. La città, infatti, aveva già cominciato la sua metamorfosi dalla fine del XII secolo, ben prima che Dante nascesse. In quell’epoca fu costruita la seconda cinta muraria per inglobare i borghi oltre il corso dell’Arno; la popolazione aumentò per il trasferimento dei contadini entro le mura cittadine; nacquero le Corporazioni (notai, tessitori, tintori, fabbri, conciatori, muratori, medici, ecc.). Molti mercanti e banchieri, arrivati da fuori città, non potevano di certo vantare un’origine aristocratica di lunga data, ma, forti delle loro ricchezze, diedero la scalata all’economia e al potere, relegando a un ruolo di secondo piano famiglie – come quella degli  «Alagherii» – che avevano radici fiorentine molto più antiche, ma una condizione patrimoniale più modesta.

Questo processo si andò rafforzando nel XIII secolo, quando i membri delle famiglie mercantili iniziarono a imparentarsi con la nobiltà magnatizia, di origine feudale. Lusso e ricchezza aumentarono, la circolazione del denaro divenne sempre maggiore; una terza cinta muraria sancì l’ulteriore ampliamento della città.

Dante si mostra critico verso queste trasformazioni in vari passi della Commedia. Il poeta vedeva con fastidio l’avanzata dei nuovi ricchi, la «gente nova» recentemente inurbata e affermatasi grazie ai «sùbiti guadagni», gli arricchimenti facili e improvvisi su cui egli non mancava di gettare un’ombra. Il problema per lui era soprattutto di ordine morale: la società comunale era in preda alla febbre del guadagno, travolta dall’«avarizia» (l’avidità, allegorizzata nella «lupa» di If. I) insieme all’invidia e alla superbia. Il legame tra avarizia e «gente nova» è esplicitato in If. XV, dove sono condannati «orgoglio e dismisura», ovvero l’arroganza e la mancanza di misura, in contrapposizione alla cortesia e alla sobrietà del passato.

Un esempio negativo del nuovo tipo di cittadino è presentato, in If. XXX, nella figura di Gianni Schicchi, condannato per aver falsificato il testamento di un ricco mercante fiorentino per ereditarne le ricchezze: il suo peccato è grave, ma per Dante lo è ancora di più, perché il dannato, proveniente dal contado, è accusato di aver portato in città la corruzione, alterando i costumi onesti della Firenze antica. Questo tema ricorre anche nei canti centrali del Paradiso (in particolare, il XV e il XVI), in cui Dante, incontrando il suo trisavolo Cacciaguida, ribadisce che «sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade» (Pd. XVI, 67-68). Nell’atteggiamento di Dante si riflettono, dunque, la crisi della piccola nobiltà e l’avversione per i nuovi ceti, che facevano della ricchezza liquida lo strumento della propria ascesa economica e politica.

 

London, British Library. Add MS 6891 (metà XIV sec.), Dante Alighieri, Monarchia, f. 1r. Omnium hominem quos ad amorem.

 

Dante e gli antenati

Ma che importanza avevano per Dante gli antenati? Nella Firenze del suo tempo tutti coloro che socialmente contavano potevano vantare di discendere da grandi personalità. Eppure, la città era piena di gente che non poteva permettersi tanto, anzi era immigrata dalla campagna, e nella maggior parte dei casi la memoria familiare non andava oltre i propri nonni. I magnati, invece, ai propri antenati tenevano moltissimo: discendere da una lunga genìa di persone importanti, il cui nome ancora era ricordato in città, perché avevano governato il Comune nel secolo precedente o avevano fatto la guerra con il loro scudo, sul quale avevano esibito lo stemma del proprio casato, era motivo di orgoglio. Ecco questo nella Firenze di Dante voleva dire qualcosa. Quando infatti nella Commedia, in If. X, il poeta racconta l’incontro con lo «sdegnoso» Farinata, il grande capo della fazione ghibellina, questi domanda al pellegrino: «Chi fuor li maggior tui?» (v. 42), cioè “Chi furono i tuoi antenati?”. È bellissimo perché Dante, che in altri luoghi del poema è così pronto e accurato nel riportare il discorso diretto del proprio personaggio (come se ci dicesse: “Io gli ho parlato proprio così”), in questa occasione non racconta che cosa abbia detto sul conto dei propri avi allo spirito magnanimo; tuttavia, assicura: «Non gliel celai, ma tutto gliel’apersi; / ond’ei levò le ciglia un poco in suso» (vv. 44-45). E, infatti, Farinata commenta con orgoglio: «Fieramente furo avversi / a me e ai miei primi e a mia parte, / sì che per due fïate li dispersi» (vv. 46-48).

Più avanti, in Pd. XV-XVII Dante decide di presentarci il più illustre dei suoi antenati, Cacciaguida, il trisnonno che era stato cavaliere. Ora, avere cavalieri in famiglia era segno di lustro e di nobiltà. Sappiamo che il padre di Dante, Alagherio il Giovane, non fu cavaliere, bensì uomo d’affari e forse usuraio; che il nonno paterno avesse esercitato la medesima attività; del bisnonno, invece, non si sa quasi nulla. È probabile che a Dante bambino, in casa, i parenti abbiano narrato le gesta di Cacciaguida, «cinto» cavaliere dall’imperatore Corrado III di Svevia, al seguito del quale avrebbe partecipato alla seconda Crociata (1147-48) e sarebbe morto combattente in Terrasanta. Ci sarà qualcosa di vero? Non è dato saperlo, ma di sicuro questo è quello che raccontavano in casa Alighieri. E Dante decide di parlarne proprio nel Paradiso per far vedere a tutti che anche lui poteva dire di avere gli antenati!

Ora, quando Dante compose questi canti, come si è detto, era un esule, lontano dalla sua Firenze ormai da anni. Viveva alla corte dei principi che erano disposti ad accoglierlo (i marchesi Malaspina, i signori Della Scala, ecc.); insomma, il poeta si ritrovò a passare gli ultimi anni della propria esistenza in un mondo completamente diverso da quello della propria patria, in una civiltà creata da una profonda tradizione cavalleresca, da nobili orgogliosi del proprio lignaggio: per star bene in mezzo a loro Dante aveva bisogno di dire “Anch’io posso vantare di avere gli antenati; anch’io sono uno di voi!”.

È curioso che, finché aveva vissuto a Firenze, l’Alighieri avesse detto cose molto diverse: la città, dalla metà del XIII secolo, era stata retta da un governo di Popolo, cioè a comandare erano stati mercanti, uomini d’affari, banchieri e artigiani – tutti uomini che diffidavano dei milites. Certo, i nobili cavalieri erano tutte persone rispettabili, eppure spesso avevano dimostrato di essere troppo orgogliosi, perfino prepotenti e violenti. La gente che lavorava e che amministrava il Comune preferiva tenere a debita distanza i facinorosi – e la prova di ciò si ravvisa negli Ordinamenti di giustizia del 1293 e del 1295.

Quanto a Dante, anche lui era dunque un esponente del Popolo, un plebeo, benché la sua famiglia si era nel tempo arricchita. Insomma, finché egli restò a Firenze, quello che diceva a proposito della nobiltà era ben diverso: scrisse perfino una canzone su questo tema, Le dolci rime d’amor ch’i’ solia, commentata in Cv. IV I 3-8. Avendo in quel periodo studiato l’Etica Nicomachea di Aristotele, Dante si era convinto di aver scoperto in che cosa consistesse la “vera nobiltà” ed era deciso a divulgarlo ai propri lettori, esaminando e confutando l’opinione di quanti sostenevano che la nobiltà si fondasse su un’antica ricchezza e che si trasmettesse di padre in figlio. Secondo lui, asserire che la nobiltà, che è sinonimo di perfezione, equivalesse alla ricchezza, che è cosa vile e perciò imperfetta per sua natura (in quanto chi la possiede non s’acqueta mai nel suo desiderio di accrescerla), era un’enorme fola! Dimostrata la falsità di opinioni simili, Dante sostenne che la “vera nobiltà” fosse naturale predisposizione alla virtù, alla gentilezza, al valore – tutte qualità individuali. La “nobiltà di sangue”, invece, non era altro che un’invenzione dei magnati per legittimare la loro posizione sociale.

Poi, come si è visto, a Dante capitarono tante cose – fra l’altro, il caso di essere cacciato dalla propria città, di finire in esilio. Così, passando da una corte all’altra e vivendo in quella nuova realtà, si rese presto conto che vantare un antenato cavaliere avrebbe potuto far comodo anche a lui!

 

La visione del mondo

Dante Alighieri è stato il fondatore non solo della nostra letteratura, ma anche della tradizione culturale dell’Europa moderna. Egli è, allo stesso tempo, un ricapitolatore e un grande innovatore: infatti, rivela la propria appartenenza alla civiltà medievale nella tendenza a interpretare la realtà sulla base di principi universali e gerarchici che la collocano in strutture organiche e coerenti. D’altra parte, però, mostra anche una sensibilità nuova, che si potrebbe definire “moderna”, nella costante problematizzazione del pensiero e nella sua tensione verso posizioni sempre nuove. In altre parole, Dante ha saputo attingere alla cultura antica e coeva a lui, rielaborandone i temi più importanti, innovandoli e aprendoli a una dimensione più ampia.

A lui era del tutto estranea la specializzazione del sapere: egli poteva infatti occuparsi nello stesso tempo di politica e di spiritualità, di linguistica e di scienze naturali, di filosofia e di storia, di arte e di poesia, non come dilettante, ma esprimendo per ognuno degli ambiti idee adeguate al livello del dibattito del suo tempo (e in non pochi casi dimostrandosi perfino superiore a esso). In Dante si configurava, al suo livello più avanzato, la tendenza all’integrazione dei saperi e all’unità dell’uomo che caratterizzava la civiltà medievale.

Alla base del pensiero di Dante stava la visione religiosa della realtà: era questa a dare unità a tutti i fenomeni. Da tale concezione, alimentata in particolare dalla formazione aristotelico-scolastica, dipendeva una visione della Storia come rivelazione progressiva e lineare delle verità cristiane. Il momento discriminante e centrale dell’Incarnazione di Cristo e della sua predicazione divideva la storia dell’umanità, separando la fase pagana da quella cristiana; tuttavia, tale momento non era percepito come origine di un conflitto tra due civiltà: infatti, anche il mondo antico era inserito all’interno della prospettiva aperta da Cristo, ed era concepito come sua preparazione o come suo annuncio.

In Dante, come nei suoi contemporanei, mancava ogni valutazione della specifica diversità del passato. In altri termini, anche il passato era guardato dal punto di vista del presente: tutta la civiltà precristiana era reinterpretata alla luce del Cristianesimo. Tale tendenza, perciò, consentiva l’assunzione di un auctor antico, pur vissuto prima della compilazione dei Vangeli e a essi del tutto estraneo, a modello non solo formale, ma persino morale. Uno dei motivi centrali dell’opera dantesca consiste dunque nella fusione di modelli classici e di rinnovamento cristiano (sincretismo)[13].

Dante pose le basi per un nuovo modo di narrare il rapporto fra biografia e creazione letteraria. Nella sua opera, la verità umana e storica dell’individuo si collegava a una prospettiva collettiva e universale. L’epicentro di questa storia era Firenze; dentro la città però si riflettevano non solo la vicenda di Dante, ma anche la storia dell’Italia e il destino dell’uomo e della Terra, definita nella Commedia come l’«aiuola che ci fa tanto feroci» (Pd. XXII, 151). Lungo questo asse si definiva perciò il ruolo dell’intellettuale, che il poeta adattava alle stagioni della sua vita, senza però venire mai meno all’amore per la verità e per il bene comune (che è il primo dovere dell’uomo colto). Per questo Dante, anche dopo l’esilio, mantenne forte l’impegno letterario e civile e lo rilanciò in un’ottica non più circoscritta alla sola Firenze, ma allargata all’Italia e al mondo intero. Persino le battaglie più specifiche, come quella in favore del volgare rispetto al latino, furono da lui affrontate non in chiave tecnica e linguistica, ma in nome di ideali etici e politici.

Raffaello Sanzio, Dante (dettaglio), da La disputa del Sacramento. Affresco, 1509. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Signatura.

 

La concezione della poesia e dell’amore

Sin dagli esordi, l’esperienza di Dante si inscrive nel segno dell’amore, che a sua volta si collega alla poesia. Le prime prove dell’autore, infatti, rivelano un rapporto particolarmente stretto con la tradizione provenzale e siciliana. Per un poeta del suo tempo, del resto, il confronto con questi nobili modelli era inevitabilmente, ma Dante lo visse in modo del tutto originale, ravvivandolo per mezzo di un fitto dialogo con i suoi contemporanei. Dopo aver guardato infatti all’esperienza di Guittone d’Arezzo, Dante se ne distaccò per aderire alla tendenza poetica che lui stesso (in Pg. XXIV) definì «Stil novo», condividendo, in particolare, con Guido Guinizzelli e con l’amico Guido Cavalcanti temi come il servizio d’amore, la nobiltà d’animo e il valore dell’amicizia.

Si potrebbe indicare come data della svolta stilnovistica il 1283 circa, anno in cui Dante, come si è già ricordato, compose il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core e lo inviò a vari poeti fiorentini da lui definiti «fedeli d’Amore», tra cui lo stesso Guido Cavalcanti. Il 1283 fu poi anche l’anno in cui Beatrice concesse il saluto al poeta, segnando di fatto l’inizio dell’innamoramento per lei. Come si nota da questo intreccio di circostanze, l’amore, l’amicizia e la scrittura poetica erano sin dall’inizio legati da un nodo molto stretto, che per Dante implicò la condivisione con altri poeti e interlocutori.

Lo «Stil novo», fra l’altro, coltivava un ideale assoluto di amicizia, intesa come un legame profondo che s’instaura in nome della stessa visione dell’amore e di un comune codice culturale. Ma l’amicizia che si può individuare nelle liriche del giovane Dante non era soltanto un’idea astratta, ma si fondava su una reale condivisione di esperienze e di situazioni che solo i protagonisti potevano comprendere pienamente per il fatto di averle vissute o comunque sentirle allo stesso modo. Ciò produsse un’inevitabile selezione del pubblico a cui quelle poesie erano rivolte: la produzione giovanile di Dante aveva per destinatari i cuori «gentili», nobili nell’animo, e le donne che potevano comprendere la passione amorosa (che avevano, cioè, «intelletto d’Amore»).

 

Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. Cod. It. IX 276, fol. 53 (1380-1400). Dante Alighieri, Divina Commedia. Pd. II Beatrice conduce Dante in Paradiso.

 

Beatrice, «donna della mente»

In queste liriche sono esplorate la natura del sentimento amoroso e la funzione nobilitante dell’incontro con la donna, senza escludere accenti più cupi e violenti – cavalcantiani – in cui sono mostrati gli effetti dolorosi della passione. Gli esiti della riflessione dantesca su questi temi sono, però, del tutto originali, per certi versi rivoluzionari, e troveranno piena evidente nel «libello» giovanile della Vita nova, pensato, messo insieme e realizzato all’insegna dell’amore.

Beatrice, la «donna della mente», riassorbe, annullandole, tutte le donne cantate da Dante in precedenza; l’amore per lei non solo produce un ingentilimento del cuore, ma genere un nuovo modo di far poesia, che si realizza esclusivamente nella lode dell’amata. Si assiste così al superamento del canone cortese, in cui la donna deve ricompensare il poeta per il suo servizio d’amore, in favore di un’esperienza che non chiede nulla in cambio, se non di potersi esprimere nel canto poetico.

Altro passaggio cruciale nella visione dantesca dell’amore è rappresentato dalla morte improvvisa e precoce di Beatrice (nel 1290), che comporta la tragica fine di un sentimento terreno, ma getta anche le basi per la sua spiritualizzazione. La donna non è più solo paragonabile per bellezza a un angelo (come in Guinizzelli), ma diventa ella stessa angelo, tramite esclusivo tra l’uomo e il divino.

L’amore per Beatrice continua dunque ad agire in Dante anche dopo la scomparsa di lei, fino ad assumere un significato metafisico. La prima conseguenza di questo processo è la crisi dell’amicizia con Cavalcanti. Entrambi vedono nel sentimento amoroso qualcosa che va oltre la dimensione emotiva e lo indagano sul piano filosofico, ma gli esiti a cui provengono non possono essere più divergenti: per Guido l’amore annienta le facoltà intellettive dell’uomo; per Dante, all’opposto, l’amore potenzia quelle facoltà, è dotato di un fine salvifico e consente di pervenire ai gradi più alti della conoscenza. Nonostante questo processo di spiritualizzazione, Beatrice conserva in tutte le opere in cui è presente il suo carattere di persona storica, di donna amata prima sulla Terra e poi in Cielo.

Nel poema l’amore viene esplorato in tutte le sue manifestazioni, da quelle più terrene e tragiche (Paolo e Francesca, If. V) a quelle più alte e salvifiche, perché solo in un desiderio libero dalla schiavitù del peccato si può cogliere il riflesso dell’«amor che move il sole l’altre stelle», cioè di quel principio superiore che unisce il Creatore al Creato. Amore e conseguenza si compenetrano fra loro, secondo la lezione di sant’Agostino, che aveva sostenuto che si può conoscere solo ciò che si ama e che si ama solo quello che si conosce nel profondo.

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. Français 112 (1470), Tristan de Léonis, f. 239r. Tristano e Isotta giocano a scacchi e bevono il filtro d’amore su una navicella.

 

Nel celebre sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (Rime LII), che fa parte della prima fase della produzione lirica dantesca e figura nella raccolta delle Rime, il poeta si rivolge all’amico Cavalcanti, esprimendogli il desiderio di essere posto da un buon mago, insieme a lui e a un terzo comune amico (il poeta Lapo Gianni) e con le rispettive amate, su un vascello guidato dall’amore e dal desiderio dei passeggeri. È un sogno di evasione costruito secondo il gusto del plazer provenzale, intessuto di riferimenti culturali ai cicli arturiani dei romanzi francesi; vi si esprime, tra l’altro, la nostalgia del poeta per un ideale armonioso di civiltà messo in crisi dalla logica mercantesca dei Comuni. D’altronde, è qui testimoniata l’appartenenza di Dante all’ambiente stilnovistico, al quale appartiene l’esaltazione dell’amicizia come valore integrato al tema erotico (si noti il riconoscimento “corale” del tema della donna e dell’amore!).

Metrica sonetto con rime secondo lo schema ABBA, ABBA, CDE EDC.

 

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io

fossimo presi per incantamento

e messi in un vasel, ch’ad ogni vento

4   per mare andasse al voler vostro e mio;

 

sì che fortuna od altro tempo rio

non ci potesse dare impedimento,

anzi, vivendo sempre in un talento,

8   di stare insieme crescesse ‘l disio[14].

 

E monna Vanna e monna Lagia poi

con quella ch’è sul numer de le trenta

11 con noi ponesse il buono incantatore:

 

e quivi ragionar sempre d’amore,

e ciascuna di lor fosse contenta,

14 sì come i’ credo che saremmo noi[15].

 

Il sonetto restituisce molto bene il clima di condivisione e di unità di menti e di cuori che animò lo «Stil novo» fiorentino. Dante lo concepì come un invito al viaggio rivolto a due poeti amici, Guido Cavalcanti e (probabilmente) Lapo Gianni, e alle loro donne. Tre uomini e tre donne riuniti su una navicella: per andare dove? Dante non lo dice, ma avverte che la virtù magica di Merlino protegge questo viaggio da qualsiasi ostacolo esterno. Il riferimento al personaggio del mago, presente in molti romanzi cortesi, l’indeterminatezza dei riferimenti spazio-temporali, il battere e ribattere sul tema del desiderio (misto a nostalgia e malinconia) rivelano la natura letteraria e ideale dell’esperienza vagheggiata. Eppure, il sogno diventa più vero del reale grazie non tanto agli incantesimi, ma al potere della poesia.

Il vero contenuto del sonetto è «l’assoluta separazione dal reale che si converte in amicizia» (Gianfranco Contini). Gli stessi esponenti dello «Stil novo» alimentano l’immagine di un gruppo di poeti amici che «ragionano» d’amore in virtù di una sensibilità e di una cultura fuori dal comune. L’amicizia e la poesia d’amore, infatti, sono topoi tipici della loro corrente letteraria.

L’altro aspetto legato all’amicizia è la ricerca dell’isolamento. Per nutrire il sentimento amoroso è condizione necessaria partecipare a un ideale di gentilezza, intesa come elevazione etico-culturale e come aristocratica distinzione, da cui discende il disprezzo verso la «noiosa gente».

La fuga dal mondo, attraverso il «vasel» (v. 3), dei tre amici e delle loro amate è l’immagine di quell’agognato isolamento. La nave, sottratta agli ostacoli del «tempo rio» (v. 5), si trasforma in luogo di immutabile contentezza («e ciascuna di lor fosse contenta, / sì come credo che saremo noi», vv. 13-14), divenendo una nuova forma di locus amoenus. Il privilegio stesso dell’inclusione in questo spazio ideale definisce i limiti di un’appartenenza negata al resto del mondo.

Isolamento non significa però solitudine. Non a caso, molte liriche chiamano in causa dei destinatari identificabili nella cerchia dei poeti; spesso – come in questo caso – alludono a esperienze o circostanze concrete, ben presenti al pubblico a cui erano rivolte, mentre sono per noi difficili da comprendere (v. 10), e davano luogo a un vero e proprio scambio epistolare in versi. A Dante, infatti, risponderà Cavalcanti con il sonetto S’io fosse quelli che d’Amor fu degno, in cui Guido declina l’offerta dicendosi in preda a una profonda prostrazione amorosa, che neanche la prospettiva del viaggio potrebbe addolcire. In questo periodo, probabilmente, i due poeti condividevano ancora un orizzonte comune, nonostante le sfumature diverse con cui analizzano la passione.

Dal punto di vista del genere letterario, il sonetto rimanda a un particolare tipo di plazer (componimento diffuso nella lirica provenzale), in cui si elencano una serie di cose piacevoli che il poeta si augura o augura ai suoi destinatari. L’originalità di Dante consiste nell’aver sostituito agli oggetti concreti del desiderio un’esperienza ideale e fantastica come il viaggio su una barchetta incantata.

I nuclei tematici si riflettono perfettamente nella simmetrica organizzazione del testo:

 

  • la prima quartina, che si apre con il vocativo («Guido, …», v. 1) e chiama in causa i tre soggetti maschili, contiene l’invito al viaggio;
  • la seconda quartina esprime il valore dell’amicizia intesa come unità d’intenti. L’invincibilità del sentimento è evidenziata dall’antitesi tra le parole in rima: a due rimandi dal valore semantico negativo («rio» e «impedimento», vv. 5; 6) si oppongono due sostantivi legati al tema del desiderio («talento» e «disio», vv. 7; 8);
  • la prima terzina introduce le tre figure femminili che accompagneranno i tre amici e riprende la parola chiave «incantamento» (v. 2) della prima quartina attraverso il sostantivo «incantatore» (v. 11);
  • la seconda terzina ridisegna i confini della combriccola, la cui occupazione sarà quella di «ragionar sempre d’amore» (v. 12), e riprende dalla seconda quartina il tema della perfetta unità di intenti e della reciprocità dei sentimenti (vv. 13-14).

 

L’uso delle forme verbali privilegia, in sintonia con il tema di fondo, la dimensione del desiderio: dal condizionale «vorrei» (v. 1) all’insistenza del congiuntivo con valore ottativo in tutto il sonetto.

L’idea della fuga da una realtà sociale degradata ha da sempre esercitato una notevole suggestione sull’immaginario contemporaneo, attraversato da movimenti tesi all’estrema semplificazione dei rapporti sociali e alla valorizzazione utopica dell’amore e di una società basata sull’amore, anche con intenzione polemica: a questo proposito, basti pensare ai movimenti hippy negli anni Sessanta del XX secolo e ai “figli dei fiori”. Inutile, d’altra parte, sottolineare le profonde differenze con la proposta dantesca di questo sonetto. L’analogia va limitata all’intenzione di costruire un sogno d’evasione e di amore che neghi gli orrori della società presente (con i suoi conflitti d’interesse). È d’altra parte nell’approdo favoloso, che il sogno dantesco fa balenare davanti ai nostri occhi, che resiste ancora oggi il fascino e il valore di questo testo.

 

Andrea del Castagno, Dante Alighieri, dal ciclo degli ‘Uomini e Donne famosi’. Affresco, trasferito su legno, 1450 ca. Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

Tra sperimentalismo e difesa del volgare

L’opera di Dante – si è detto – è vasta, varia e complessa, sempre nuova e sempre diversa, sempre tesa al superamento della meta momentaneamente raggiunta. La produzione artistica del poeta, insomma, è multiforme e tuttavia vi si possono rintracciare alcune costanti anche sul piano formale.

Innanzitutto, lo sperimentalismo, che agisce su più piani: stilistico-contenutistico, linguistico e metrico. Per quanto riguarda lo stile e i contenuti, Dante passa dalle rime «dolci e leggiadre» dello Stil novo e della Vita nova al linguaggio “comico” e persino sguaiato della tenzone con Forese Donati – dove alla lode si sostituisce il vituperium – e poi alle rime cosiddette “petrose”, che rappresentano un rovesciamento completo dei canoni stilnovistici, con una certa asprezza stilistica come strumento espressivo di un amore violentemente sensuale.

Sul piano squisitamente linguistico, lo sperimentalismo dantesco si manifesta anche nella continua tensione verso il plurilinguismo, che porta il poeta ad accogliere nello stesso testo lingue o volgari differenti. Ne sono un esempio le terzine provenzali inserite a chiusa di Pg. XXVI 136-137[16], oppure il ricorso a espressioni proprie del volgare nativo dei personaggi via via incontrati nel poema, come in If. XXVII 21, il lombardismo «istra» [ora] o in Pg. XXIV 55, il lucchesismo «issa» (con lo stesso significato).

Uno dei più spettacolari pezzi di plurilinguismo poetico medievale è sicuramente la canzone trilingue Aï faus ris, pour quoi traï aves, in cui Dante alterna lingua d’oïl, latino e italiano all’interno di ciascuna strofa, secondo uno schema preciso. Ma lo sperimentalismo linguistico arriva anche alle estreme conseguenze della creazione di numerosi neologismi, soprattutto nel Paradiso, laddove la lingua normale non basta a descrivere ciò che il poeta vede e sperimenta.

Sul piano metrico, sono notevoli la probabile invenzione da parte di Dante della terzina, che è alla base della Commedia, e il recupero, per la prima volta nella poesia italiana, dell’artificiosa sestina, inventata dal trovatore provenzale Arnaut Daniel.

Dante compose il De vulgari eloquentia probabilmente tra il 1304 e il 1305 (M. Tavoni ha avanzato l’ipotesi che sia stato scritto tra la metà del 1304 e il 1306), ma il progetto rimase interrotto: dei quattro libri previsti l’autore non completò neppure il secondo. Forse l’avvio della stesura del grande poema è stato il motivo principale di questa interruzione. Il nucleo del pensiero linguistico svolto in questo trattato consiste nella valorizzazione e nella difesa del volgare, e per dimostrare perché il volgare avesse pari dignità rispetto al latino, Dante scelse di utilizzare proprio quest’ultimo per rivolgersi ai doctores illustres, invitandoli a servirsi di un «volgare illustre» per raggiungere un pubblico più vasto.

Dopo aver dato la definizione di linguaggio umano (distinto da quello animale e da quello degli angeli) e aver ricostruito la storia delle lingue dalla creazione di Adamo, passando per l’episodio biblico della Torre di Babele, e arrivare al suo presente, Dante introduce la mappa dei volgari italiani e apre la questione del loro uso letterario. Postosi alla ricerca della «lingua del sì», l’autore giunge quindi alla definizione di un vulgaris illustris, quello parlato e scritto dai membri delle curiae (cioè delle “corti”) e dai poeti famosi, la cui diffusione avrebbe consentito la rinascita politica dell’Italia, ovvero la sua coesione civile.

Evidentemente per Dante il problema linguistico e la questione politica del suo tempo erano inseparabili: da questo punto di vista, egli è stato il primo scrittore italiano a porsi coscientemente il problema di una lingua italiana unitaria, facendosi promotore dell’uso del volgare in ogni ambito letterario, sfruttandone tutte le potenzialità e la duttilità sia sul piano teorico sia sul lato pratico, con la sua poesia.

Dante, inoltre, affrontò tematiche politiche soprattutto nella Commedia: l’incontro nell’aldilà con alcuni personaggi gli offrì l’occasione per riflettere sull’attualità. In particolare, il canto VI di ogni cantica è esplicitamente di argomento politico: nell’Inferno, l’incontro con Ciacco permette al poeta di parlare delle lotte intestine a Firenze; nel Purgatorio, il dialogo con Sordello avvia una violenta invettiva sulla situazione italiana; nel Paradiso, l’incontro con l’imperatore Giustiniano porta a una critica di Guelfi e Ghibellini.

 

Jean-Léon Gérôme, Dante. Olio su tela, 1864.

 

L’esilio del cantor rectitudinis

Il distacco da Firenze, sancito dalla condanna del 1302 e riconfermato in seguito, obbligò Dante a un cambiamento radicale: l’orizzonte limitato del Comune era ormai alle sue spalle, il mito di sé come garante della concordia cittadina inesorabilmente tramontato. Il poeta fu costretto a ridefinire il proprio ruolo intellettuale anche alla luce di un pubblico diverso, che non era più quello elitario della sua gioventù, ma quello più ampio delle corti centro-settentrionali d’Italia. Per attuare questa trasformazione, l’Alighieri ripartì dall’esilio, dal trauma personale destinato a diventare il mito su cui costruire una nuova identità. Nacque così la figura dell’exul inmeritus [«esule immeritatamente»], vittima dell’ingratitudine fiorentina, che aprì la strada al cantor rectitudinis [«poeta della rettitudine»], chiamato a una nuova missione culturale e morale, di cui l’esilio divenne un segno distintivo: se anche la giustizia era stata bandita dalla Terra, l’esperienza dolorosa cui il poeta era stato condannato divenne un motivo d’onore e non di vergogna.

Gli aspetti che contraddistinsero la rinnovata identità erano:

 

  • il confronto con una dimensione sovramunicipale, in cui la crisi di Firenze si ricollegava a quella dell’intera Penisola;
  • l’idea di una poesia impegnata, strumento di rigenerazione etico-civile;
  • il ruolo di un filosofo laico, garante della libertà e della giustizia;
  • il rivolgersi a un pubblico identificabile soprattutto nella classe dirigente delle città e delle corti settentrionali, che doveva essere educata ai principi etico-politici affinché governasse rettamente;
  • la centralità dei temi della politica e del vivere civile;
  • la ricerca di una lingua comune.

 

È ignoto il destinatario dell’Epistola XII di Dante. Si è pensato che possa trattarsi di un religioso, dato l’appellativo di pater che il poeta gli rivolge. Senz’altro si tratta di un fiorentino in rapporti di amicizia con lui, interessato a favorirne il ritorno in patria. Dalla lettera si evince che l’Alighieri aveva ricevuto, dal destinatario e da altre fonti, notizia del condono stabilito con bando del 19 maggio 1315 per tutti i fuoriusciti, valido a patto che si piegasse a pagare una multa, riconoscendosi colpevole di ciò per cui era stato esiliato e poi condannato a morte. Dante rifiutò con gentilezza (nei confronti dell’intercessore) ma con sdegno (nei confronti del Governo fiorentino autore del provvedimento) di umiliarsi, confermando la propria assoluta innocenza e la conseguente decisione di non tornare mai più a Firenze, se non in forme confacenti alla propria fama.

Si tratta, questo, di uno dei documento cui comprensibilmente si sarebbe appoggiato – per secoli – il mito della sdegnosa dignità di Dante.

 

Dalla vostra lettera, ricevuta con la dovuta reverenza e con affetto, compresi, con mente grata e studio minuzioso, quanto vi preoccupi e vi stia a cuore il mio rimpatrio […] Anche se la risposta al contenuto della lettera non sarà quale forse desidererebbero alcuni pusillanimi, affettuosamente vi chiedo che, prima di ogni giudizio, sia sottoposta all’esame della vostra saggezza.

Ecco dunque che attraverso le lettere vostre e di mio nipote, nonché di parecchi altri amici, mi è comunicato che, per un ordinamento appena fatto a Firenze sull’assoluzione degli sbanditi, potrei essere assolto e subito ritornare, se accettassi di offrire una certa quantità di denaro e sopportare il disonore dell’oblazione […].

È questa la benigna revoca per la quale Dante Alighieri è riconvocato in patria, dopo aver sopportato l’esilio per quasi tre lustri? Questo ha meritato un’innocenza manifesta a chiunque? Questo il sudore e il continuo impegno nello studio? Non si addice a un uomo studioso di filosofia una bassezza di cuore così sconsiderata da sopportare di essere offerto, quasi sconfitto, al modo di un qualsiasi Ciolo o di altri infami! Non si addice a un uomo che predica la giustizia, dopo aver sopportato l’ingiustizia, pagare con il proprio denaro, come benefattori, proprio coloro che hanno commesso l’ingiustizia.

Padre mio, non è questa la via del ritorno in patria; ma se prima voi, e poi altri, ne troverete un’altra che non violi la fama e l’onore di Dante, quella accetterò, non con lenti passi; e se non si entra a Firenze per quella, mai rientrerò a Firenze. E che? Non vedrò forse ovunque la luce del sole e degli astri? Forse non potrò ovunque, sotto il cielo, meditare le dolcissime verità, se prima non mi sarò restituito alla città, senza gloria, anzi con ignominia, per il popolo fiorentino? Né certo il pane mancherà.

 

Da questo testo emergono con evidenza:

 

  • la rivendicazione da parte di Dante della propria dignità;
  • la consapevolezza del proprio valore intellettuale e morale;
  • il rifiuto di piegarsi al compromesso in cambio del ritorno in patria;
  • la costruzione intorno a sé del mito dell’exul inmeritus, vittima dell’ingratitudine degli ex-concittadini;
  • la volontà di farsi cantore di valori morali sinceri, proprio in risposta all’ingiustizia subita.

 

Nella parte conclusiva affiora l’idea che il ritorno a Firenze non debba avvenire a ogni costo e che, se la condizione di esule ha sradicato Dante dalla sua città natale, ha fatto però del mondo la sua unica e vera patria.

 

Sandro Botticelli, Ritratto di Dante. Tempera su tavola, 1495 c. Cologny, Fondazione Martin Bodmer.

 

La concezione dell’uomo

La visione dantesca dell’uomo è una visione totale, che non trascura alcun aspetto dell’esistenza; in essa il dato autobiografico è presente con forza, ma non si esaurisce nel racconto di sé; l’esperienza storica e umana va oltre il dato contingente e diventa narrazione allegorica, acquisendo un significato più profondo. Infatti, nella Commedia la prospettiva individuale si allarga fino a comprendere una dimensione collettiva e universale, inserendosi in un disegno più ampio. Così il poema, vero e proprio poema-mondo, è il testo che meglio esprime tale visione totale dell’uomo: l’autore non si stanca mai di ribadire i concetti di dignità e di libertà, da lui appresi nello studio di Aristotele, Boezio, Sant’Agostino e San Tommaso.

Ma che cosa significa «visione totale» dell’uomo? Nella cultura medievale l’essere umano era sentito in profonda relazione con l’universo, la cui forma concentrica e unitaria aveva per centro la Terra (secondo il modello geocentrico), immobile in un sistema mobile. Si pensava che le sfere dei cieli le ruotassero intorno, creando un insieme pluricircolare governato da Dio e mosso dal suo amore. L’uomo, pur essendo stato esiliato dal Paradiso terrestre a causa del peccato originale, era secondo nella scala delle creature solo agli angeli e portava in sé la scintilla divina del Creatore. Negli umani Dio avrebbe infuso la capacità di conoscere se stessi, di produrre concetti astratti attraverso l’intelletto, da cui deriverebbe anche la facoltà di parola. Grazie alla ragione e alla parola, l’umanità ha potuto realizzare l’attitudine a vivere in società e a interessarsi alla pólis, secondo la nota teoria aristotelica che faceva l’uomo un animale politico. In base a tale assunto, lo scopo dell’umanità nel mondo dovrebbe essere quello di superare l’interesse egoistico a vantaggio del bene collettivo, nel rispetto delle leggi garanti della giustizia. In questo modo, la dimensione etica si collega con quella politica, che ha per obiettivo il conseguimento della felicità terrena e razionale, assicurata dall’esercizio della filosofia e dalla guida dell’autorità imperiale.

Lucca, Biblioteca Statale. Codex Latinum 1942 (XII sec.), c. 9r. Ildegarda di Bingen e l’Uomo al centro dell’universo.

Secondo il pensiero medievale, l’uomo detiene in comune con Dio, oltre all’intelletto, anche l’esercizio della volontà, con cui si realizza il libero arbitrio. Non basta infatti conoscere il vero bene, ma occorre anche volerlo fare; e ciò nell’uomo avviene per libera scelta e non per istinto – come invece accade negli animali. Per queste sue caratteristiche, l’uomo si pone come mediatore tra la dimensione terrena e quella celeste, tra materia e spirito, abbracciando tutti gli stati dell’essere: da quelli più bassi, che portano al peccato, a quelli più alti, che conducono alla beatitudine. Per conquistare la felicità celeste, l’umanità dovrà affidarsi alla Grazia e al sapere teologico del papa.

Secondo Dante, Dio ha affidato alle due autorità terrene – imperatore e pontefice – il compito di guidare gli uomini alla duplice felicità. Ma è stata l’alterazione dei rapporti tra i due poteri a condurre alla crisi del suo tempo. La Chiesa, detentrice del potere spirituale, ha preteso di estendere il proprio controllo sul potere temporale (di competenza regia), minando così all’equilibrio voluto da Dio. Per Dante, allora, l’unica soluzione consisterebbe nel ripristino dell’autorità politica dell’imperatore. Quando, dopo anni di vacanza imperiale, fu incoronato Arrigo VII di Lussemburgo, con l’assenso di papa Clemente V, l’evento sembrò all’Alighieri il segno di un nuovo corso. La discesa in Italia del sovrano, nel 1310, alimentò le speranze in una presenza più diretta dell’imperatore quale arbitro nelle vicende italiane. Purtroppo le cose non andarono nel modo atteso: la scomparsa improvvisa di Arrigo VII nel 1313 allontanò ogni possibilità di realizzare il disegno politico immaginato da Dante. Ciononostante, il poeta non cambiò le proprie convinzioni e la certezza di una necessaria collaborazione e piena sovranità, nei rispettivi ambiti, della Chiesa e dell’Impero.

Quello riportato è uno dei passi più famosi della Monarchia (III xv, 3-15 passim, testo latino), il trattato politico che Dante compose durante l’esilio. S’impone all’attenzione perché vi si espone la tesi sui rapporti tra Chiesa e Impero, e sulla loro discendenza diretta da Dio. L’immagine iniziale, che paragona l’uomo all’orizzonte, pur non essendo originale, è straordinariamente potente e affascinante.

 

[3] Bisogna sapere che l’uomo solo fra tutti gli esseri occupa il mezzo tra le cose corruttibili e le incorruttibili; perciò i filosofi lo paragonano giustamente all’orizzonte, che è a mezzo tra i due emisferi. [4] L’uomo infatti, se lo si consideri secondo entrambe le parti essenziali, cioè l’anima e il corpo, è corruttibile; se lo si consideri invece secondo una sola, cioè l’anima, è incorruttibile […]. [5] Se dunque l’uomo è un che d’intermedio tra le cose corruttibili e le incorruttibili, poiché tutto ciò che è intermedio risente della natura degli estremi, è necessario che l’uomo risenta dell’una e dell’altra natura. [6] E, poiché ogni natura è ordinata a un fine ultimo, ne consegue che per l’uomo vi sia un fine duplice: cosicché, come tra tutti gli esseri è il solo a partecipare dell’incorruttibilità e della corruttibilità, così è anche il solo tra tutti gli esseri a essere ordinato a due fini, dei quali l’uno è quello a cui ordinato in quanto è corruttibile, l’altro invece in quanto è incorruttibile.

[7] Due fini pertanto stabilì che l’uomo perseguisse quell’ineffabile provvidenza: vale a dire la beatitudine di questa vita, che consiste nell’operare della propria virtù ed è raffigurata dal paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, che consiste nella fruizione della visione divina, a cui la propria virtù non può ascendere, se non sorretta dal lume divino, e che si può intendere per il paradiso celeste. [8] A queste beatitudini, come a diverse conclusioni, conviene pervenire per diversi mezzi. Alla prima, infatti, giungiamo per mezzo delle dottrine filosofiche, allorché le seguiamo con l’operare secondo le virtù morali e intellettuali; alla seconda, invece, per mezzo delle dottrine spirituali che trascendono la ragione umana, allorché le seguiamo con l’operare secondo le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità […]. [10] Perciò, per l’uomo ci fu bisogno, in conformità al suo duplice fine, di un duplice rimedio direttivo, cioè del Sommo Pontefice, che secondo le cose rivelate conducesse il genere umano alla vita eterna, e dell’Imperatore, che dirigesse il genere umano alla felicità temporale, secondo gli insegnamenti filosofici. [11] E poiché a questo porto nessuno o pochi possono pervenire, e questi con difficoltà estrema, se il genere umano, sedati gli allettanti marosi della cupidigia, non riposi libero nella tranquillità della pace, questa è la meta alla quale soprattutto deve mirare il tutore del mondo, che è chiamato il Principe romano, affinché appunto si viva liberamente con la pace in questa aiuola dei mortali. [12] E poiché la disposizione di questo mondo segue la disposizione inerente alla circolazione dei cieli, è necessario, a ciò che gli universali principi della libertà e della pace si applichino in modo adatto ai luoghi e ai tempi, che questo tutore sia stabilito da Colui che presenzialmente vede la totale disposizione dei cieli. Egli è infatti il solo che l’abbia preordinata, sì da provvedere egli stesso per mezzo di quella a connettere ogni cosa ai suoi ordini. [13] E se è così, Dio solo è colui che elegge, egli solo conferma, perché non ha alcun superiore […]. [15] Così, dunque, è palese che l’autorità del Monarca temporale deriva in lui, senza alcun tramite, dalla Fonte dell’autorità universale: la qual Fonte, unita nella sommità della sua semplicità, rifluisce in molteplici alvei per sovrabbondanza di bontà.

 

La Monarchia è un trattato in latino in tre libri, di datazione incerta (1308; 1312-13; 1317-18). L’ipotesi più accreditata è che sia stata redatta in seguito alla discesa di Arrigo VII (1310). È incentrata su tre questioni:

 

  • la necessità dell’Impero per il benessere dell’umanità (libro I);
  • il ruolo dell’Impero romano nel disegno provvidenziale (libro II);
  • il rapporto tra Chiesa e Impero (libro III).

 

Il trattato fu condannato dalla Chiesa per le teorie esposte sul potere temporale del papa e per la critica che l’autore muove nei confronti della cosiddetta Donazione di Costantino, documento con cui l’imperatore romano avrebbe donato nel 314 a papa Silvestro I la giurisdizione su Roma, sull’Italia e sulla parte occidentale dell’Impero.

Il brano riportato costituisce la parte conclusiva del trattato e affronta il tema dei rapporti tra Impero e Chiesa. Il discorso di Dante prende le mosse da un motivo a lui caro: la doppia natura dell’essere umano, da un lato vincolato alla sua materialità e dall’altro partecipe della divinità. Per questo, sottolinea il poeta, i filosofi hanno paragonato l’uomo all’orizzonte, la linea che delimita i due emisferi della materia e dello spirito.

Ciascuna delle due componenti raggiunge il proprio fine attraverso percorsi diversi, ma complementari: la beatitudine terrena attraverso la filosofia, quella celeste tramite la fede. Questi due strumenti, però, non bastano da soli a garantire il conseguimento dell’obiettivo. Perciò, Dio ha dispensato all’uomo due guide: l’imperatore, per stimolare gli uomini all’esercizio della ragione, seguendo gli insegnamenti della filosofia; il papa, per illuminare la via che porta alla vita eterna.

Negli ultimi paragrafi, Dante affronta i seguenti principi:

 

  • la figura dell’imperatore, detentore del potere temporale, dipende direttamente dalla provvidenza divina, che regola i destini sulla Terra;
  • il pontefice, detentore del potere spirituale, non può avere giurisdizione anche sulla scelta dell’imperatore né esercitare il potere temporale;
  • le due autorità sono indipendenti l’una dall’altra, ma complementari, perché entrambe sono emanazione della volontà divina.

 

L’argomentazione, condotta con stile serrato e rigoroso, non è nuova, in effetti; Dante s’inserisce nel dibattito filosofico e politico sulla natura dei rapporti tra potere spirituale e potere temporale. Gli ambienti filopapali, naturalmente, sostenevano che il successore di San Pietro fosse anche l’unico tramite attraverso il quale Dio conferiva il potere regio (teoria del Sole e della Luna: il Sole, che ha luce propria, era allegoria del potere pontificio, e la Luna, che ha luce riflessa, del potere imperiale). Da posizioni opposte si sosteneva che il potere imperiale derivasse direttamente da Dio (teoria dei due Soli: i due poteri godevano, ciascuno indipendentemente dall’altro, di luce propria)[18].

 

Dio crea Adamo a sua immagine e somiglianza (particolare). Mosaico, 1143. Palermo, P.zzo dei Normanni, Cappella Palatina.

 

La Vita nova

La Vita nova è l’opera più importante composta da Dante prima dell’esilio; il periodo di elaborazione si colloca tra il 1292 e il 1295 circa, anche se recentemente lo studioso Marco Santagata ne ha ipotizzato una stesura definitiva tra il 1294 e il 1296. L’opera risponde al genere del prosimetrum («prosimetro»), ovvero un testo misto di prosa e di versi, e si articola (secondo la proposta del filologo Michele Barbi) in 42 capitoli, all’interno dei quali figurano 31 testi lirici (25 sonetti, 3 canzoni, una ballata, una stanza di canzone e una doppia stanza di canzone). Il modello più prossimo è quello del De consolatione philosophiae di Boezio.

La Vita nova è essenzialmente un racconto autobiografico che ruota intorno all’amore del protagonista, fin dalla più giovane età, per una donna chiamata Beatrice. Nell’opera il soggetto narrante non è mai indicato come Dante, anche se non è difficile associarlo all’autore. Per quanto riguarda l’identità della donna, Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante non aveva dubbi che si trattasse di Bice (cioè Beatrice) Portinari, figlia del banchiere Folco, andata in sposa a Simone de’ Bardi e scomparsa all’età di ventiquattro anni, l’8 giugno 1290. È quanto avviene anche alla Beatrice della Vita nova, la cui morte è annunciata nel cap. XXVIII. Ciò che sorprende è il fatto che l’opera non si chiuda su questo tragico evento, ma prosegua con le reazioni dell’autore: il dolore, i tentativi di consolazione, lo sviamento e il ravvedimento finale. In questo modo, la figura di Beatrice viene innalzata, al di là della sua identità storica, fino a diventare una presenza centrale della scrittura dantesca.

Il titolo del «libello» (così definito dall’autore all’inizio dell’opera) si ricava dal capitolo d’esordio, in cui Dante scrive: «In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit Vita nova». Il titolo ha un significato duplice, in quanto l’aggettivo nova gli conferisce il valore di «vita giovanile», ma può attribuirgli anche il valore metaforico di «vita rinnovata», sia sul piano spirituale sia su quello poetico, grazie all’incontro con Beatrice.

Le vicende raccontate nell’opera possono essere raggruppate in tre nuclei narrativi: l’innamoramento del poeta, la poesia in lode di Beatrice, la crisi dell’autore a seguito della morte di lei e il suo ravvedimento. All’interno di queste sezioni acquistano rilievo tre canzoni, d’importanza strategica nel racconto: Donne ch’avete intelletto d’amore (cap. XIX); Donna pietosa e di novella etate (cap. XXIII); Li occhi dolenti per pietà del core (cap. XXXI).

Dante incontra Beatrice per la prima volta all’età di nove anni; l’evento si ripete esattamente nove anni dopo, questa volta con l’aggiunta del saluto salutifero da parte della donna. Segue il cosiddetto sogno del cuore mangiato, in cui Amore nutre la ragazza con il cuore del poeta. In coincidenza con questa visione, Dante dice di aver composto un sonetto, che invia ad altri poeti per chiedere loro di interpretare il sogno. Tra le risposte in versi che gli pervengono, viene ricordata solo quella di Guido Cavalcanti, che da quel momento sarebbe diventato il primo degli amici dell’autore e a cui la Vita nova viene dedicata. Per stornare la curiosità dei pettegoli (i «malparlieri»), Dante si serve di un espediente caro alla tradizione cortese: finge di riservare attenzioni a un’altra persona, la «donna dello schermo». Ma i pettegolezzi intorno a una presunta nuova passione del poeta suscitano lo sdegno di Beatrice, che decide di negargli il saluto.

Il protagonista cade in uno stato di disperazione, che culmina nel cap. XIV con l’episodio del «gabbo» (la “beffa”, “presa in giro”): nel corso di una festa di nozze, Dante avvista Beatrice in un corteo di donne; l’effetto dell’apparizione è talmente forte che il poeta viene meno, e la ragazza, vistolo, si prende gioco di lui insieme alle sue compagne. Nei toni dolorosi che dominano le liriche di questa parte è evidente l’influsso della visione angosciosa d’amore tipica di Cavalcanti.

A questo punto dell’opera matura la svolta della poesia della «loda»: la felicità consiste nel lodare la donna senza attendersi nulla in cambio. Questo passaggio è segnato dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore: Beatrice assume sempre più i connotati soprannaturali della donna-angelo, che genera amore in chiunque la incontri. In questa parte risulta evidente l’influenza di Guinizzelli, come dimostrano i sonetti Amore e ‘l cor gentil sono una cosa (cap. XX) e Ne li occhi porta la mia donna Amore (cap. XXI). Nel frattempo, muore il padre della ragazza tra il compianto generale (cap. XXII); Dante cade malato per nove giorni e viene assistito da una giovane donna «pietosa», legata a lui da un rapporto di parentela. Nella seconda canzone, Donna pietosa e di novella etate (cap. XXIII), il presagio della morte di Beatrice si manifesta in un incubo popolato di donne scapigliate e piangenti, insieme con segni naturali apocalittici, simili a quelli che nei Vangeli accompagnano la morte di Gesù. Beatrice viene così accostata alla figura di Cristo: il suo breve passaggio miracoloso sulla Terra rinnova la funzione salvifica e messianica di Gesù, prefigurando il ruolo che la donna avrà nella Commedia. Gli effetti del passaggio della «gentilissima» sono esaltati in altri due sonetti della lode: Tanto gentile e tanto onesta pare e Vede perfettamente onne salute (cap. XXVI).

Il temuto evento della scomparsa di lei, infine, accade: il poeta esprime la sua profonda tristezza nella canzone Li occhi dolenti per pieta del core (cap. XXXI). Il dolore provato è lenito dalle attenzioni di una donna «gentile», a cui Dante cede per consolarsi, tradendo così la memoria di Beatrice (capp. XXXV-XXXVIII). Quest’ultima, però, nell’ora nona di un giorno imprecisato, gli appare vestita di rosso come nel primo incontro e lo richiama a sé (cap. XXXIX). Il «libello» si conclude con una «mirabile visione», che suggerisce al poeta di ritornare con il pensiero a Beatrice e di trattare più degnamente di lei in futuro («dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna», cap. XLII). Considerata a posteriori, questa conclusione contiene in sé quasi un annuncio del progetto della Commedia.

Le vicende che Dante racconta sono ambientate in un contesto dai tratti volutamente indeterminati; ma si colgono riferimenti a luoghi cittadini (chiese, vie, un fiume), tuttavia mai indicati con nomi reali. Eppure, non è difficile scorgervi Firenze. Prevalgono nell’ambientazione spazi aperti: del resto, nella vita comunale le occasioni di incontro fra le persone, soprattutto fra uomini e donne non legati da vincoli di parentela, erano quasi sempre pubbliche – in chiesa, per strada, durante feste e cerimonie (nozze e funerali), nelle quali una giovane donna non era mai da sola. Alla donna sono attribuiti gesti di grande rilievo (il saluto, la sua negazione, il «gabbo»), ma poche sono le situazioni in cui la si vede interagire con chi le sta intorno: è come se ella si muovesse in una dimensione di superiorità, che traspare già dal suo nome, «colei che dà la beatitudine», cioè che rende salvo Dante con la sua sola apparizione.

Nel racconto non ci sono date esplicite, se non quelle ricavabili dalle perifrasi che segnano i momenti di snodo della vicenda o da testimonianze esterne (come quella di Boccaccio). Pur nell’incertezza della cronologia, è possibile indicare alcuni punti fermi:

 

  • il primo incontro con Beatrice può essere fissato al Calendimaggio del 1274;
  • il secondo incontro, di conseguenza, è da collocare nel 1283;
  • la morte del padre della giovane, Folco Portinari, è avvenuta nel 1289;
  • quella di Beatrice cade l’anno successivo;
  • a un anno di distanza, Dante ne celebra l’anniversario con il sonetto Era venuta ne la mente mia.

 

Nello sviluppo degli accadimenti assume una rilevanza particolare il nove, indicato dall’autore anche come il numero del miracolo e di Beatrice stessa, dato che, nella versione latina del nome, Beatrix, le ultime due lettere IX sono anche le cifre romane corrispondenti a quel numero. L’ipotesi che si può ricavare è che Dante abbia costruito ad arte una sequenza cronologica a partire dal valore simbolico di questo numero (quadrato di tre, numero della Trinità) per suggerire la natura provvidenziale del ruolo della donna. Non possiamo escludere, però, un’altra ipotesi: se la Vita nova ha una qualche corrispondenza con la realtà, la ciclicità del nove potrebbe essere stata effettivamente presente nelle vicende; il poeta, dunque, verosimilmente avrebbe sviluppato il significato simbolico del nove proprio a partire da circostanze reali. Quanto ai riferimenti astrologici, Dante registra l’ora precisa degli avvenimenti cruciali della sua storia d’amore collocandoli sempre su uno sfondo cosmico: per esempio, il primo incontro avviene quando «lo cielo stellato era mosso verso la parte d’Oriente de le dodici parti l’una d’un grado», e così via. Queste precisazioni, che a volte ci possono sembrare astruse, hanno la funzione di proiettare la vita di Beatrice oltre la banalità quotidiana, in una dimensione di misteriosa fatalità.

Insomma, in generale, nella sua ricostruzione Dante procede secondo criteri di verosimiglianza, ma è comunque lontano dal conferire precisione a un racconto in cui la dimensione simbolica è prevalente.

Nella Vita nova Dante ha saputo compiere un’operazione inedita rispetto ai suoi predecessori. Egli infatti ha inserito i propri testi poetici in un’opera nuova, reinterpretandoli alla luce del sentimento per Beatrice. La Vita nova non è dunque un’antologia di liriche dedicate a «madonna», ma un’opera unitaria e organica, in cui sono ricostruiti i momenti salienti della vicenda amorosa giovanile e del rinnovamento interiore che lo ha segnato. Per questo motivo il «libello» si articola in una successione di eventi, come un vero e proprio racconto.

Sarebbe però fuorviante pensare alla Vita nova come a un’autobiografia in senso moderno: la voce narrante, all’inizio, afferma che copierà dal «libro» della memoria «se non tutte [le parole], almeno la loro sentenzia», cioè il senso, l’interpretazione generale. Questo vuol dire che le «parole», cioè le poesie, recuperate dal passato e collegate tra loro, dovranno essere interpretate secondo un significato simbolico-allegorico. In questo modo, l’autore intende conferire un carattere universale alla propria vicenda personale, creando un’autobiografia ideale e allegorica, che si ispira alle Confessiones di sant’Agostino (354-430), primo esempio nella letteratura cristiana di analisi introspettiva e psicologica.

Molti dei testi inseriti nella raccolta risalgono effettivamente a un momento anteriore alla stesura del libro: sono state scritte, cioè, in circostanze diverse da quelle narrate e per altre figure femminili. Nel momento in cui il poeta le seleziona e le inserisce nella trama del racconto, ne ridefinisce il significato alla luce della vicenda amorosa con Beatrice. In questo senso, la Vita nova può essere letta come una storia della poesia dantesca: dall’influsso di Guittone d’Arezzo, alle liriche d’ispirazione cavalcantiana e alle rielaborazioni dei temi guinizzelliani. Dante, tuttavia, va oltre lo «Stil novo», com’è dimostrato dalla natura della sua poesia della lode e soprattutto dal significato simbolico della scomparsa di Beatrice. Nella tradizione lirica amorosa che precede il poeta, infatti, la morte dell’amata segnava la fine del canto poetico; la Vita nova è il primo libro in cui ciò non accade. Al contrario, il luttuoso evento alimenta un sentimento che continua a dare impulso alla poesia. Lo fa grazie alla memoria, che consente a Dante di recuperare dai suoi ricordi l’amore per la donna e di attribuire un nuovo significato a quel sentimento (quasi come se, azzardando, la «gentilissima» abbia dovuto per forza morire per poter dare compimento al proprio ruolo salvifico!). Infatti, proprio con la Vita nova nascono il culto e il mito di Beatrice nella poesia dantesca: la sua presenza ha un significato miracoloso, come dimostrano sia l’insistenza sul valore allegorico del numero nove sia il ricorrere del motivo del sogno e delle visioni, che sottolineano le svolte fondamentali del racconto. È come se l’autore avesse proceduto a una santificazione dell’amata, associata a Cristo. Alla luce di ciò, si è perfino parlato della Vita nova come di una vera e propria Legenda sanctae Beatricis, quasi si trattasse di un’opera agiografica! Qui, però, il vero miracolo compiuto dalla bella è quello di aver generato nel suo devoto la spinta a una poesia più alta, destinata a superare lo «Stil novo».

Ma a chi voleva rivolgersi Dante con questo libro? In alcune circostanze, la voce narrante fa riferimento a destinatari o interlocutori fra i cosiddetti «fedeli d’Amore», di cui facevano parte Guido Cavalcanti, il fratello di Beatrice, altri poeti e amici, tutti chiamati in causa mai con il loro nome ma attraverso perifrasi. La natura esclusiva di questo pubblico rinvia chiaramente allo «Stil novo» e al suo ideale di amicizia, come condivisione di valori. Dante indica anche le donne come sue interlocutrici, purché siano «gentili», cioè nobili d’animo, e abbiano conoscenza diretta dell’esperienza amorosa (donne che «hanno intelletto d’amore»). Ma la Vita nova, proprio per la sua tendenza a dare un carattere più alto alle vicende autobiografiche, si rivolge idealmente anche a un pubblico più ampio, a cui Dante intendeva proporsi come esempio di una maturazione umana e intellettuale resa possibile dall’amore per Beatrice.

Padova, Biblioteca del Seminario Vescovile. Ms. 67 (fine XIV sec.), Dante Alighieri, Divina Commedia ‘degli Obizzi’. Dante allo scrittoio.

La brevissima introduzione all’opera, da Dante stesso chiamata «proemio» (Vn. XXVIII), è incentrata sulla metafora della «memoria» come libro, frequente nella letteratura medievale. Scopo dichiarato del racconto è la possibilità di ricavare un senso dai fatti narrati, con implicito riferimento al valore simbolico riconosciuto alle vicende contingenti.

 

In quella parte del libro de la mia memoria[19] dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere[20], si trova una rubrica[21] la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole[22] le quali è mio intendimento d’assemplare[23] in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia[24].

 

È questo il primo capitolo vero e proprio dell’opera. In esso Dante racconta dell’incontro con Beatrice, avvenuto quando entrambi avevano nove anni: il numero nove, simbolo di perfezione secondo le teorie numerologiche medievali anche perché multiplo perfetto del tre della Trinità, ritorna in questo capitolo e poi nell’intera opera di Dante come legato indissolubilmente a Beatrice e al favorevole destino del poeta. La presenza della donna provoca nel poeta conseguenze descritte secondo la tradizione lirica d’amore guinizzelliana e soprattutto cavalcantiana; e da Cavalcanti è ripresa anche la teoria degli spiriti come forze psico-fisiologiche abitanti nell’individuo e preposte al suo governo. Ma Dante si distacca poi dall’amico nella concezione dell’amore, qui rappresentato come opportunità positiva per il soggetto, frutto della scelta anche razionale di questi, in contrapposizione alla visione tragica e fatale dell’amore come fenomeno irrazionale e devastante, propria di Cavalcanti[25].

 

Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione[26], quando a li miei occhi apparve[27] prima[28] la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare[29]. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo[30] lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado[31], sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono. Apparve vestita di nobilissimo colore[32], umile ed onesto[33], sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia[34]. In quello punto[35] dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente che apparia ne li mènimi polsi orribilmente[36]; e tremando, disse queste parole: «Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi»[37]. In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni[38], si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso[39], sì disse queste parole: «Apparuit iam beatitudo vestra»[40]. In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro,[41] cominciò a piangere, e piangendo, disse queste parole: «Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!»[42]. D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata[43], e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente[44]. Elli mi comandava molte volte che io cercasse per vedere[45] questa angiola giovanissima; onde io ne la mia puerizia molte volte l’andai cercando, e vedèala di sì nobili e laudabili portamenti[46], che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Omero[47]: “Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Deo”. E avegna che la sua imagine, la quale continuamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me[48], tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire[49]. E però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse[50]; e trapassando molte cose, le quali si potrebbero trarre de l’esemplo onde nascono queste[51], verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi[52].

 

Dopo l’esordio, il racconto narra il primissimo incontro con Beatrice, qui definita «angiola giovanissima». L’evento è contrassegnato da un fitto simbolismo che gioca sui colori, sui numeri e sul movimento degli astri. Beatrice appare per la prima volta a Dante vestita di rosso («sanguigno»), colore che tornerà in altri momenti importanti della Vita nova, sempre come distintivo della donna: Beatrice è avvolta in un drappo rosso nel sogno del cuore mangiato; è vestita di rosso quando appare al poeta per rimproverargli le attenzioni che, dopo la sua morte, rivolge a una «donna gentile»; anche nella Commedia, nel Paradiso terrestre, ella compare vestita di questo colore.

Fondamentale ai fini della costruzione del mito di Beatrice è poi il numero nove, contenuto nella forma di numero romano persino nel suo nome (BeatrIX). Il primo incontro cade alla fine del nono anno di età per Dante; esattamente dopo nove anni avviene il secondo incontro, accompagnato dal dono del saluto; nella prima delle ultime ore della notte, la nona, si verifica il sogno del cuore mangiato. Il nove è detto il numero del miracolo, perfetto per colei che venne «da cielo in terra a miracol mostrare».

Le complesse perifrasi astronomiche usate per indicare l’età anagrafica dei due protagonisti contribuiscono a dare alla vicenda un respiro cosmico e universale, proprio come sarà l’itinerario del pellegrino nella Commedia.

Gli effetti dell’incontro con la donna costituiscono la seconda sequenza del racconto. Il tema appartiene alla lirica stilnovistica e più in generale alla tradizione amorosa. Dante lo sviluppa ricorrendo alla personificazione degli spiriti, che, secondo la filosofia e la medicina del tempo, governano le funzioni vitali dell’uomo: lo spirito vitale, quello animale e quello naturale presiedono rispettivamente al cuore, al cervello e al ventre; tutti e tre sono scossi dalla vista di Beatrice, producendo una serie di reazioni fisiche. Si tratta di un motivo tipico della poesia di Cavalcanti.

Tuttavia, nella parte finale del capitolo Dante segna il suo distacco dal modello dell’amico: la visione della donna non suscita in lui una passione distruttiva, come per Guido, ma esalta la funzione positiva di Amore. Nonostante gli effetti fisici, la passione non sottomette la ragione e non ne annulla le funzioni. Per esprimere questa idea, Dante si serve di una metafora giocata sul doppio significato della parola «ragione», che ai suoi tempi indicava tanto la facoltà razionale (che pone un limite agli istinti) quanto la giustizia. La mente umana è dunque implicitamente paragonata a una città: come nelle istituzioni comunali il prefetto deve appoggiarsi al tribunale, così Amore non può agire senza il contributo della ragione. Se ne deduce che l’amore che Beatrice suscita sublima la passione e la trasforma in un sentimento alto e capace di guidare l’amante.

Henry Holiday, Incontro fra Dante e Beatrice sul Ponte Santa Trinita in Firenze. Olio su tela, 1883. Liverpool, Walker Art Gallery.

 

Il secondo incontro fra Dante e Beatrice avviene quando hanno entrambi diciott’anni, esattamente nove anni dopo il primo incontro. Si verifica un momento fondamentale nella trama del “libello”, il saluto seguito dalla prima delle grandi visioni presenti nell’opera (Vn. III).

 

Poi che fuoro passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto di questa gentilissima[53], ne l’ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo[54], in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade[55]; e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso[56], e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo[57], mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine[58]. L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona[59] di quello giorno; e però che[60] quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puòsimi a pensare di questa cortesissima[61]. E pensando di lei mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione[62], che me parea vedere ne la mia camera una nèbula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé[63], che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus»[64]. Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente[65]; la quale io riguardando molto intentivamente[66], conobbi ch’era la donna de la salute[67], la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa, la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum»[68]. E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che la facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente[69]. Appresso ciò, poco dimorava[70] che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo[71]; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato[72]. E mantenente[73] cominciai a pensare, e trovai che l’ora ne la quale m’era questa visione apparita, era la quarta de la notte[74] stata; sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte[75]. Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti, li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore[76]; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: “A ciascun’alma presa”.

 

Florence Camm, Il sogno di Dante. Vetrata, 1911. Birmingham Museum and Art Gallery.

 

A ciascun’alma presa, e gentil core,

nel cui cospetto ven lo dir presente,

in ciò che mi rescrivan suo parvente

4      salute in lor segnor, cioè Amore[77].

 

Già eran quasi che atterzate l’ore

del tempo che onne stella n’è lucente,

quando m’apparve Amor subitamente

8      cui essenza membrar mi dà orrore[78].

 

Allegro mi sembrava Amor tenendo

meo core in mano, e ne le braccia avea

11    madonna involta in un drappo dormendo[79].

 

Poi la svegliava, e d’esto core ardendo

lei paventosa umilmente pascea:

14    appresso gir lo ne vedea piangendo[80].

 

Questo sonetto si divide[81] in due parti; che la prima parte saluto e domando risponsione[82], ne la seconda significo a che si dee rispondere[83]. La seconda parte comincia quivi: “Già eran”. A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie[84]; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia: “Vedesti al mio parere onne valore”. E questo fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato. […]

 

Il III capitolo del libro contiene un momento fondamentale per la trama della Vita nova: il primo saluto rivolto da Beatrice a Dante, che attribuisce al gesto un valore simbolico altissimo, considerandolo il tramite della nobilitazione e della salvezza della propria anima. Il brano contiene anche la prima delle numerose visioni che costellano il testo e ne segnano le svolte narrative fondamentali. Proprio dalla visione del cuore mangiato discende, secondo quanto riporta l’autore, la composizione del primo sonetto inserito nel “libello”: A ciascun’alma presa e gentil core. Egli afferma di averlo inviato ai poeti «fedeli d’Amore»: il sonetto segna anche l’inizio dell’amicizia con Guido Cavalcanti, qui designato come il «primo de li miei amici».

Il secondo incontro con Beatrice esalta la forza nobilitante dell’amore, che si insedia nel «cor gentile»: il «saluto» della donna può coincidere con la «salute», ovvero la salvezza dell’anima di chi lo riceve con la giusta predisposizione. Dante recupera questo tema dalla poetica di Guinizzelli. Altro tema stilnovistico è quello della visione della donna, come dimostra il ricorrere insistente di termini relativi al campo della vista (vedere, visione, apparire, parere). Nella prima parte del capitolo siamo di fronte alla visione reale di Beatrice, che si mostra al poeta scortata da due «gentili donne» e vestita «di colore bianchissimo». L’importanza del momento è sancita dall’ora nona, che ribadisce la natura miracolosa della donna, contrassegnata dalla dolcezza del saluto e dal colore bianchissimo della veste. Questi elementi le attribuiscono le caratteristiche di un angelo.

Alla vista di Beatrice fa seguito la descrizione della reazione dell’innamorato: il desiderio di ritirarsi in solitudine, il sonno e il sogno. Questo è dominato dalla figura temibile di Amore e dalla scena di Beatrice che mangia il cuore di Dante. Si tratta per lui di una «maravigliosa visione», tale cioè da suscitare stupore. Proprio per il suo forte impatto e per le reazioni che suscita nel protagonista, essa ricorda altre visioni dal significato profetico e mistico presenti nella tradizione classica e biblica.

E di capitale importanza resta l’immagine del cuore mangiato. Si tratta di un motivo di ampia diffusione nella letteratura cortese, che indica in maniera metonimica (un’idea astratta resa in modo concreto) la completa fusione spirituale fra i due amanti: l’immagine dell’assimilazione del cuore indica l’appartenenza dell’innamorato alla donna amata, in un legame totale e inscindibile. Il tópos sarebbe stato poi ripreso anche da Giovanni Boccaccio in due sue novelle.

I temi chiave del capitolo rimandano alla poetica dello «Stil novo». Il campo semantico della vista compare qui con particolare rilievo. Ma anche i vocaboli che esprimono dolcezza, gentilezza, beatitudine sono di derivazione stilnovistica. Nella seconda sequenza – quella del sogno – la particolare natura della visione comporta un addensarsi di parole che esprimono reazioni opposte a quelle della prima parte: paura e angoscia nel protagonista, esitazione e pianto nella donna. Nella terza parte, successiva al risveglio del poeta, il ritmo si fa più disteso e assume l’andamento della riflessione e della scrittura («pensare», «pensando», «giudicassero», «propuosi di farlo sentire», «propuosi di fare un sonetto», «scrissi»).

Il brano è altresì intessuto di allusioni alle Sacre Scritture e ai testi religiosi: a partire dalle parole che Amore pronuncia («Ego dominus tuus») ricalcate sul primo dei Comandamenti. La veste di Beatrice, «di colore bianchissimo», sembra evocare un’immagine angelica, ma anche la Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor. Si compie così una sovrapposizione fra ambito sacro e profano, che evoca i modi della poesia stilnovistica, ma nel contempo li supera: nella prospettiva dantesca, la beatitudine che la donna porta dev’essere letta anche in chiave religiosa.

Dante Gabriel Rossetti, The Salutation of Beatrice. Olio e foglia d’oro su tavola di conifera, 1859-1863. Ottawa, National Gallery of Canada.

Al centro della Vita nova, preceduta dalla crisi per la presagita morte dell’amata e dal confronto teorico con la poetica cavalcantiana, sta il frutto artisticamente più consapevole della nuova maniera dantesca: la lode di Beatrice. Essa è affidata a due sonetti di tema affine e complementare, inseriti nel capitolo XXVI. Ci concentriamo sul primo.

 

Questa gentilissima donna, di cui ragionato è[85] ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti[86], che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea[87]. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade[88] giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi[89] né di rispondere a lo suo saluto: e di questi molti, sì come esperti[90], mi potrebbero testimoniare[91] a chi no ·llo credesse. Ella coronata e vestita d’umilitade s’andava[92], nulla gloria[93] mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente sae adoperare[94]!». Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano i ·lloro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridicere no ·llo sapeano[95]; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare[96].

Queste e più mirabili cose[97] da lei procedeano virtuosamente[98]: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stile de la sua loda[99], propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur[100] coloro che la poteano sensibilemente[101] vedere, ma li altri sappiano di lei quello che per le parole ne posso fare intendere. Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: “Tanto gentile”.

 

Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia quand’ella altrui saluta,

ch’ogne lingua deven tremando muta,

4    e li occhi no l’ardiscono di guardare[102];

 

ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d’umiltà vestuta;

e par che sia una cosa venuta

8    da cielo in terra a miracol mostrare[103].

 

Mostrasi sì piacente a chi la mira,

che dà per li occhi una dolcezza al core,

11  che ’ntender no ·lla può chi no ·lla prova[104]:

 

e par che de la sua labbia si mova

un spirito soave pien d’amore,

14  che va dicendo a l’anima: Sospira.

 

 

È questa una delle pagine più note della Vita nova, in virtù della presenza di Tanto gentile e tanto onesta pare, forse il sonetto più famoso della letteratura italiana. La lirica porta al massimo livello lo «stilo de la loda» e contemporaneamente segna la fine delle «rime in vita» di Beatrice, la cui esistenza terrena sta per volgere al termine. Dante esalta in questi versi gli attributi stilnovistici della donna, e una trama di corrispondenze lessicali mostra lo stretto rapporto di questo testo con i componimenti di Guinizzelli e di Cavalcanti. Ma proprio nel momento in cui più compiuta appare l’adesione dell’Alighieri allo «Stil novo», egli lo supera: la morte dell’amata non annulla la sua virtù salvifica, ma la potenzia in chiave spirituale.

La situazione evocata nella parte in prosa e riproposta in rima prende avvio dal passaggio della donna per le vie della città; al di là della verosimiglianza, nella scena è facile riconoscere uno dei tópoi della poesia stilnovistica: il riferimento al saluto si inscrive poi entro una cornice tipicamente guinizzelliana. Il ritratto di Beatrice, soprattutto nel sonetto, è tutto giocato sull’indeterminatezza: gli effetti che la sua apparizione produce ci danno la misura della sua eccellenza più ancora dei particolari fisici, limitati a poche notazioni. I primi due aggettivi che qualificano Beatrice, «gentile» e «onesta» (v. 1), rinviano alla sfera interiore più che a quella esteriore, ma è soprattutto l’anafora dell’avverbio di qualità «Tanto» (v. 1) a trasmettere la forza inaudita di tali qualità. Sempre all’ambito morale si collegano l’avverbio di modo «benignamente» e il sostantivo «umiltà» (v. 6), mentre un accenno alla dimensione fisica si coglie nell’attributo «piacente» (v. 9), che dà luogo a un’iperbole: la bellezza di Beatrice genera una dolcezza talmente grande che può essere compresa solo da chi la prova. Persino il riferimento concreto al volto («labbia», v. 12) sfuma in un alone di estasi («pien d’amore», v. 13). La forza della donna è tutta nella perifrasi dei vv. 7-8: «una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare». «Cosa» qui indica una creatura destinata da Dio a incarnare un «miracolo».

Gli elementi stilnovistici dell’episodio, e soprattutto della sua versione poetica, sono testimoniati dai richiami a testi di Guinizzelli e di Cavalcanti. Nel caso di quest’ultimo, gli echi sono più sottili ma altrettanto forti: la stupefazione causata dal passaggio della donna, rappresentato come un evento soprannaturale; il motivo dell’ineffabilità della dolcezza suscitata dall’apparizione. In Dante, però, la cupezza e il pessimismo di Guido sono dissolti nell’atmosfera trasognata dell’apparizione e nel sospiro finale.

Il sonetto si offre a noi in uno stile piano e in un lessico semplice tanto da richiedere solo in pochi casi una spiegazione. Ma dietro questa apparenza si celano scelte molto ponderate, che rinviano a un linguaggio tecnico (di matrice stilnovistica) o comunque usato con significati diversi da quelli a cui siamo abituati. Partiamo dalla coppa iniziale di aggettivi «gentile» e «onesta»: la gentilezza di Beatrice è la stessa di cui parlano altri poeti dello «Stil novo», ovvero non un semplice atteggiamento garbato, ma una qualità dell’animo basata sull’eccellenza morale; allo stesso modo, la sua onestà rinvia al significato etimologico latino, che designa il decoro del portamento, riflesso esteriore delle doti interiori. L’espressione «la donna mia» (v. 2) non indica semplicemente “la mia donna”, ma “colei che è mia signora”: così non è l’uomo Dante ad avere il controllo su Beatrice, ma è lei che domina la mente e il cuore di lui. Un altro esempio di significato particolare riguarda il verbo «pare», che ricorre più volte e assume la funzione di parola chiave. A differenza dell’uso attuale, questo verbo va inteso non come “sembra”, ma come “si manifesta, appare nella sua piena evidenza”.

Altro tratto distintivo del sonetto è il ricorrere di espressioni indefinite: «altrui», «ogne lingua», ecc. Questi elementi, insieme all’indeterminatezza spazio-temporale in cui si muove la donna, stacca la situazione dalla sfera soggettiva e autobiografica per proiettarla in una dimensione assoluta e universale.

 

Dante Gabriel Rossetti, The Salutation of Beatrice. Olio su tela, 1859. National Gallery of Canada. Dettaglio – In aedem.

 

Invitato da due «donne gentili» a mandare loro alcune rime, nel capitolo XLI Dante mette insieme una essenziale antologia poetica di tre testi, il terzo dei quali (il sonetto Oltre la sfera che più larga gira) compone per l’occasione. Alla riaffermazione gloriosa di Beatrice è dedicata la conclusione della Vita nuova, in cui il poeta informa di una nuova meravigliosa apparizione dell’amata e si ripromette di non scriverne più fino al momento in cui non sia in grado, più maturo artisticamente e più consapevole da ogni punto di vista, di raccontare di lei cose mai dedicate a nessun’altra donna: un misterioso annuncio della Commedia?

 

Oltre la spera che più larga gira

passa ’l sospiro ch’esce del mio core:

intelligenza nova, che l’Amore

4    piangendo mette in lui, pur su lo tira[105].

 

Quand’elli è giunto là dove disira,

vede una donna, che riceve onore,

e luce sì, che per lo suo splendore

8   lo peregrino spirito la mira[106].

 

Vedela tal, che quando ’l mi ridice,

io no lo intendo, sì parla sottile

11  al cor dolente, che lo fa parlare.

 

So io che parla di quella gentile,

però che spesso ricorda Beatrice,

14  sì ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care[107].

 

La conclusione della Vita nova, suggestivamente definita la «profezia di una profezia», sembra costituire, con il riferimento all’Empireo del sonetto, il primo germe del progetto della Commedia. Dante si propone di cantare la «benedetta» in modi mai prima sperimentati e dopo un lungo studio. Con il capitolo finale del «libello» cala un lungo silenzio sulla poesia in lode di Beatrice.

Nel sonetto Dante ci mostra la sua donna trionfante tra i beati dell’Empireo: a lei si avvicina il «peregrino spirito» (v. 8) del poeta che, in forma di sospiro spinto dalla forza motrice di Amore, è giunto fino in Paradiso. Viene dunque rappresentato un itinerarium mentis ad Deum alla maniera dei mistici medievali, che nel raptus dell’estasi vivevano una sorta di separazione tra corpo e anima, chiamata a contemplare il mistero divino. Beatrice è dunque la meta finale di un percorso religioso e il punto d’arrivo del «libello».

Nemmeno nel sonetto finale, però, il poeta abbandona la poesia di lode: la beata Beatrice «riceve onore» (v. 6), «luce» (v. 7), cioè risplende, ed è talmente mirabile che l’essenza della sua bellezza non può essere espressa in parole umane. Quando il sospiro del poeta torna sulla Terra, Dante non comprende altro che il nome di Beatrice (vv. 12-13), l’unica cosa distinguibile della visione e condivisibile con le donne, che si confermano come le destinatarie privilegiate del canto («donne mie care», v. 14).

Sandro Botticelli, Il cielo delle stelle fisse (Paradiso, canto XXIV). Inchiostro su pergamena, 1490-1496. Berlin, Kupferstichkabinett.

 

Le Rime.

All’interno della complessiva opera dantesca prende oggi il nome, generico e convenzionale, di Rime l’insieme delle composizioni poetiche attribuite a Dante non incluse nella Vita nova né nel Convivio (poesie «estravaganti»). Non si tratta pertanto di un’opera d’autore: non spettano infatti al Sommo, ma ai moderni editori sia il titolo della raccolta, sia la selezione dei testi, sia il loro ordinamento.

Anche per questa ragione le Rime comprendono componimenti di argomento e stile assai vari, assegnabili a tempi diversi e lontani fra loro della produzione dantesca. Si tratta di cinquantaquattro testi di sicura attribuzione (trentaquattro sonetti, quindici canzoni e cinque ballate), cui si aggiungono ventisei liriche di attribuzione incerta e ventisei di “corrispondenti”, fra i quali Guido Cavalcanti, Cecco Angiolieri e Cino da Pistoia. Secondo l’edizione del 2005, curata da Domenico De Robertis, le liriche sicuramente attribuibili all’Alighieri sarebbero trentatré.

Stando alle assegnazioni cronologiche più probabili, le rime più antiche risalgono al 1283 e le più tarde al 1307, abbracciando quindi il primo venticinquennio dell’attività creativa di Dante.

Nella grandissima varietà di stili e di poetiche, due sono le costanti di fondo: un’inesauribile ricerca sperimentale e una tendenza alla definizione realistica della materia trattata, anche in presenza di una poetica stilizzata e piena di convenzioni com’era quella stilnovistica. È come se Dante, scrivendo questi testi, si fosse messo continuamente alla prova, accogliendo o rifiutando i vecchi modelli e tentando nuove soluzioni. Vi è poi una terza costante dalla quale restano esclusi pochissimi componimenti: la centralità del tema amoroso.

Larghissimo è il riferimento ai modelli e particolarmente importante quello alla tradizione siciliana e stilnovistica nella prima fase (impiego di uno «stile dolce») e quello ai trovatori provenzali nella seconda. Ma un certo rilievo occupa anche il modello guittoniano (impiego di uno «stile aspro»), seppure rifiutato a livello teorico-critico. Vitale è poi il rimando a Cavalcanti, dapprima imitato nei suoi aspetti più leggeri e disimpegnati, poi (in corrispondenza della fase più originale della Vita nova) criticato e respinto nella concezione tragica dell’amore, infine (nelle “rime petrose”) ripreso ed estremizzato nella visione pessimistica e tragica, ma con un rinnovamento radicale dello stile.

È possibile suddividere le Rime in cinque gruppi, secondo criteri tematici, stilistici e cronologici:

 

  • le rime stilnovistiche, di argomento erotico, composte parallelamente nello stesso periodo della Vita nova (1283-1293 c.);
  • la Tenzone con Forese Donati (collocabile probabilmente tra il 1290 e il 1296), comprendente tre sonetti dell’Alighieri e tre di Forese, appartenenti al genere “comico” e vigorosamente realistici;
  • le poesie allegoriche e dottrinali (ultimo decennio del secolo XIII) sul genere delle canzoni commentate nel Convivio;
  • le cosiddette “rime petrose” (1296-1298 c.), dedicate all’amore sensuale per donna “Petra” (un probabile senhal);
  • le rime dell’esilio (post 1302), di argomento vario con prevalenza di interessi civili.

 

Firenze, Biblioteca Riccardiana. Cod. Ricc. 1040 (1440-60), Rime di Dante, c. 1r. Ritratto di Dante (attr. a Giovanni del Ponte).

 

 

La «tenzone» con Forese Donati.

Nel novero delle Rime un posto a sé stante occupa la «tenzone» con Forese Donati, breve e violento scambio di sonetti con l’amico, scomparso nel 1296. Si tratta di un’esercitazione in chiave comica (tre sonetti di Dante e tre di risposta dell’amico), che mette in scena un linguaggio oltraggioso e risentito, giocato su allusioni malevole e ingiurie. I sonetti di Dante si reggono su una tale asprezza lessicale e ritmica che le cadenze popolari fiorentine ne risultano deformate. Su questa linea comica, importante per il linguaggio dell’Inferno, Dante ha scritto, con ogni probabilità, altri testi, andati però dispersi.

La «tenzone» era un genere letterario che prevedeva lo scambio tra due poeti contrapposti di componimenti a botta e risposta, spesso di carattere aggressivo e insultante: una specie di alterco in versi. Spesso le composizioni di una «tenzone» si rispondevano simmetricamente, e talvolta riprendevano le stesse rime (un uso che si rispecchia nel modo di dire, ancora attuale, «rispondere per le rime»!).

Nella Commedia Dante immagina di incontrare l’amico Forese in Purgatorio, tra i golosi: egli era membro dell’illustre casato dei Donati, figlio di Simone e fratello di Corso e di Piccarda, lontano cugino della moglie di Dante, Gemma. Dalla «tenzone» si deduce che Forese fu rimatore e particolarmente dedito a una vita gaudente e spendereccia: Dante, infatti, gli rinfacciava scherzosamente una spropositata ghiottoneria, la miseria economica, dubbie origini, impotenza sessuale e una vaga passione per il furto (gli dà del «piùvico ladron», cioè del “ladro patentato”)! Forese, dal canto suo, oltre a ricambiare alcune offese, imputava a Dante una serie di torti nei confronti del padre Alighiero, a sua volta velatamente incolpato di aver esercitato l’usura.

Forese apparteneva, dunque, a quel tipo di giovani ricchi e dissipati che furono i poeti burleschi di fine Duecento, quali Cecco Angiolieri, Rustico Filippi o Folgòre da San Gimignano. Comunque sia, rispetto ai particolari giocosi, la «tenzone» costituisce una sorta di “antefatto” all’incontro oltremondano, dove se ne fa chiara ammenda, quasi una specie di “contrappasso”. E tutto l’episodio di Pg. XXIII è svolto come in controcanto a quel botta e risposta della giovinezza; Dante presenta qui il periodo della frequentazione di Forese come quello del suo traviamento dalla «diritta via» di If. I, quasi fosse una stagione da dimenticare: «Per ch’io a lui: “Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e qual io teco fui, / ancor fia grave il memorar presente. / Di quella vita mi volse costui / che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda / vi si mostrò la suora di colui”, / e ’l sol mostrai […]» (Per cui gli risposi: “Se richiami alla mente quali noi fummo un tempo l’uno con l’altro, sarà ancora penoso ricordarsene adesso. Da quella vita mi distolse colui che mi precede, pochi giorni fa, quando vi si mostrò piena la sorella di quello là”, e indicai il sole…, vv. 115-121).

Di seguito si riportano i primi due sonetti dell’alterco.

Il primo affondo della tenzone spetta a Dante. In Chi udisse tossir la mal fatata (Rime LXXIII), il componimento più «scandaloso», il poeta prende in giro l’amico – e sua moglie – con pesanti allusioni all’insufficienza sessuale di lui, e alla cronica mancanza di piacere per lei. Un attacco provocatorio e castigatore a un marito che passa le notti fuori casa!

 

Chi udisse tossir la mal fatata

moglie di Bicci vocato Forese,

potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata

4    ove si fa ’l cristallo in quel paese[108].

Di mezzo agosto la truovi infreddata;

or sappi che de’ far d’ogni altro mese!

E non le val perché dorma calzata,

8    merzé del copertoio c’ha cortonese[109].

La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia

no l’addovien per omor ch’abbia vecchi

11  ma per difetto ch’ella sente al nido.

Piange la madre, c’ha più d’una doglia,

dicendo: «Lassa, che per fichi secchi

14  messa l’avre’ ’n casa del conte Guido!»[110].

 

Il sonetto è imperniato sulla perenne influenza della moglie di Forese: la poveretta non fa che tossire tutto il tempo, ma non si tratta di un male stagionale. Nella è sempre infreddata perché di notte il suo «copertoio», ovvero la sua coperta, non la copre bene, essendo «corto-nese». La battuta è volgaruccia: Forese è qui accusato di non “coprire” bene la propria moglie, cioè di non soddisfarla sessualmente, perché è poco dotato, perciò vien meno ai propri doveri maritali. La banalità dell’insinuazione tuttavia si riscatta proprio attraverso il gioco di parole, effettivamente divertente, sul «cortonese».

London, British Library, Egerton MS. 943. Dante Alighieri, Divina Commedia (prima metà del XIV sec.), f. 104v. Pg. XXIII. Dante incontra Forese Donati.

 

Forese risponde alla provocazione di Dante alzando la posta con L’altra notte mi venne una gran tosse (Rime LXXIV). Ora, lui sarà anche squattrinato e impotente, ma che dire dell’Alighieri e della sua famiglia? Specie del padre, che Forese immagina qui di sorprendere in una situazione – e posizione – alquanto imbarazzante.

 

L’altra notte mi venne una gran tosse,

perch’i’ non avea che tener a dosso;

ma incontanente che fu dì, fui mosso

4    per gir a guadagnar ove che fosse[111].

Udite la fortuna ove m’addosse:

ch’i’ credetti trovar perle in un bosso

e be’ fiorin coniati d’oro rosso;

8    ed i’ trovai Alaghier tra le fosse[112],

legato a nodo ch’i’ non saccio ’l nome,

se fu di Salamone o d’altro saggio.

11  Allora mi segna’ verso ’l levante:

e que’ mi disse: «Per amor di Dante,

scio’mi». Ed i’ non potti veder come:

14  tornai a dietro, e compie’ mi’ viaggio[113].

 

All’inizio il sonetto risponde letteralmente a quello di Dante, riprendendo lo spunto della «tosse», stavolta quella di Forese stesso. Agli insulti dell’Alighieri, dunque, il rimatore gaudente risponde inventando un aneddoto altrettanto ingiurioso, ma il cui preciso significato sfugge a chi – come noi – non è al corrente degli antefatti. Privo di indumenti adeguati a coprirlo dal freddo notturno, cioè povero in canna (come gli rinfacciava Dante), Forese si alza all’alba per andare in cerca di guadagni facili. Ma, invece dei fiorini sperati, chi trova? Alighiero in persona, il padre di Dante (già defunto, quando Forese scrive), legato «a nodo ch’i’ non saccio ’l nome, / se fu di Salamon o d’altro saggio»: il morto redivivo lo scongiura di liberarlo. Sul significato metaforico di questo nodo, si sono fatte due ipotesi. Si è pensato che Alighiero fosse un usuraio e che, come tale, morendo fosse stato sepolto in terra sconsacrata: le «fosse» sarebbero allora le fosse comuni che venivano scavate fuori dalle mura delle città. Alighiero pregherebbe Forese di “scioglierlo”, cioè di sanare il suo debito, perché la sua anima possa finalmente riposare in pace. L’altra possibile spiegazione è che Alighiero, o uno della sua stirpe, fosse stato vittima di un affronto non ancora vendicato (la vendetta era compito dei familiari dell’offeso). L’apparizione di Alighiero «tra le fosse» sarebbe dunque dovuta al fatto che l’anima di Alighiero, non ancora vendicata (dal figlio Dante), non possa riposare in pace.

Entrambe le ipotesi sono plausibili. Ma la verità è che l’allusione non si riesce a capire da un lato perché non sappiamo abbastanza delle vicende e dei personaggi che Dante e Forese trattano con tanta familiarità, e dall’altro perché i dettagli del racconto di Forese non sono chiari. Che cosa vuol dire “essere legato a un nodo”? Se è il “nodo del peccato”, di quale peccato si tratterebbe? Qualche interprete ha voluto leggere questo «nodo di Salamone», come un problema piuttosto intricato; altri ancora, invece, più maliziosi ci hanno visto una pratica sodomitica piuttosto indecorosa. E come potrebbe Forese liberare un peccatore, un’anima del purgatorio? Si resta in dubbio. Certo è comunque che le fosse sono le fosse comuni, e che qui venivano sepolti non solo gli usurai e gli eretici, ma anche coloro che non potevano permettersi le spese per una tomba. Un simile sottinteso si accorderebbe benissimo con il principale degli argomenti che i due tenzonanti usano l’uno contro l’altro, la povertà appunto; e spiegherebbe anche l’immagine che apre il sonetto: Forese ammette di essere povero (non ha di che vestirsi), ma sarebbe il tipo di ammissione che si fa nelle ripicche, vale a dire: “Sì, sono povero, ma – come si vedrà subito – tuo padre era messo peggio di me”.

D’altra parte, occorre utilizzare una certa cautela, ricordando come in questo tipo di poesia i rimatori avevano l’abitudine di spararle grosse, senza preoccuparsi della verità dei fatti, ma solo dell’effettaccio dei propri insulti!

 

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Ms. Martelli 12 (fine XIII-prima metà XIV sec. ca.), f. 26r a-b (fasc.4); pagina di Dante Alighieri (n.1265-m.1321), «Così nel mio parlar voglio esser aspro»; con iniziale Maiuscola arabescata su sei righe.

Le rime «petrose»

Un gruppo di Rime piuttosto compatto è costituito dalle quattro poesie dette «petrose» (Io son venuto al punto de la rota; Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra; Amor, tu vedi ben che questa donna; Così nel mio parlar vogli’esser aspro). Dedicate a una donna «Pietra» (probabilmente un senhal), si caratterizzano per l’estrema ricercatezza formale, per il linguaggio difficile e l’asprezza dello stile, soprattutto nelle parole in rima, in cui abbondano i gruppi consonantici duri. La «petrosità» stilistica è chiamata a rappresentare una passione amorosa resa impossibile dalla crudeltà e dalla durezza d’animo della donna, refrattaria proprio come una pietra. Lo stile aspro, visivo, concreto di queste rime, lontanissimo da quello stilnovistico, mostra un Dante alle prese con il confronto con le forme più ardue della poesia provenzale, in particolare con il trobar clus di Arnaut Daniel.

Carattere originale e decisivo, per l’arte dantesca, di questo breve ciclo è proprio la corrispondenza coerente tra materia e modo della rappresentazione al punto che la violenza della passione amoroso e l’ostinata e scontrosa resistenza della donna coincidono con uno stile violentemente realistico, irto di dati concreti, rimandi crudi e persino brutali e con le difficoltà del linguaggio stesso.

Insomma, Dante approda a una poesia che scava a fondo nelle cose e nelle parole: queste rime «petrose» rappresentano un altro passaggio fondamentale verso il linguaggio della Commedia, tanto che alcuni critici fanno risalire queste liriche agli anni della maturità del poeta, intorno al 1304.

 

London, British Library. Ms. Royal 19 B XIII (1320-40 c.), Guillaume de Lorris – Jean de Meun, Roman de la Rose, f. 5v. Confronto tra l’innamorato e la sua dama.

 

 

La più complessa e movimentata delle rime «petrose» è Così nel mio parlar vogli’esser aspro (Rime XLVI), tanto per le scelte metriche quanto per la materia rappresentata, equamente distribuita tra la raffigurazione oggettiva della donna e lo sfogo della soggettività del poeta. Le immagini e lo stile definiscono una materia e una disposizione psicologica violente ed esasperate. Già il verso iniziale mette in evidenza la deliberata ricerca dell’«asprezza», della violenza espressiva: uno stile per cui si può parlare, con un termine che verrà in uso solo nel Novecento, di «espressionismo». Domina inizialmente nel poeta la consapevolezza che la donna sia invulnerabile all’amore. Si passa, quindi, a un proposito di vendetta che rovescia la situazione nel sogno di un incontro carnale degradato in senso sadico.

 

Così nel mio parlar voglio esser aspro

com’è ne li atti questa bella petra,

la quale ognora impetra

maggior durezza e più natura cruda,

5    e veste sua persona d’un diaspro

tal che per lui, o perch’ella s’arretra,

non esce di faretra

saetta che già mai la colga ignuda;

ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda

10  né si dilunghi da’ colpi mortali,

che, com’avesser ali,

giungono altrui e spezzan ciascun’arme:

sì ch’io non so da lei né posso atarme[114].

 

Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi

15  né loco che dal suo viso m’asconda:

ché, come fior di fronda,

così de la mia mente tien la cima.

Cotanto del mio mal par che si prezzi

quanto legno di mar che non lieva onda;

20  e ’l peso che m’affonda

è tal che non potrebbe adequar rima.

Ahi angosciosa e dispietata lima

che sordamente la mia vita scemi,

perché non ti ritemi

25  sì di rodermi il core a scorza a scorza

com’io di dire altrui chi ti dà forza?[115]

 

Ché più mi triema il cor qualora io penso

di lei in parte ov’altri li occhi induca,

per tema non traluca

30  lo mio penser di fuor sì che si scopra,

ch’io non fo de la morte, che ogni senso

co li denti d’Amor già mi manduca:

ciò è che ‘l pensier bruca

la lor vertù sì che n’allenta l’opra.

35  E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra

con quella spada ond’elli ancise Dido,

Amore, a cui io grido

merzé chiamando, e umilmente il priego:

ed el d’ogni merzé par messo al niego[116].

 

40        Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida

la debole mia vita, esto perverso,

che disteso a riverso

mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco:

allor mi surgon ne la mente strida;

45  e ‘l sangue, ch’è per le vene disperso,

fuggendo corre verso

lo cor, che ‘l chiama; ond’io rimango bianco.

Elli mi fiede sotto il braccio manco

sì forte che ‘l dolor nel cor rimbalza:

50  allor dico: «S’elli alza

un’altra volta, Morte m’avrà chiuso

prima che ‘l colpo sia disceso giuso»[117].

 

Così vedess’io lui fender per mezzo

lo core a la crudele che ‘l mio squatra;

55  poi non mi sarebb’atra

la morte, ov’io per sua bellezza corro:

ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo

questa scherana micidiale e latra.

Omè, perché non latra

60  per me, com’io per lei, nel caldo borro?

ché tosto griderei: «Io vi soccorro»;

e fare’l volentier, sì come quelli

che nei biondi capelli

ch’Amor per consumarmi increspa e dora

65  metterei mano, e piacere’le allora[118].

 

S’io avessi le belle trecce prese,

che fatte son per me scudiscio e ferza,

pigliandole anzi terza,

con esse passerei vespero e squille:

70  e non sarei pietoso né cortese,

anzi farei com’orso quando scherza;

e se Amor me ne sferza,

io mi vendicherei di più di mille.

Ancor ne li occhi, ond’escon le faville

75  che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,

guarderei presso e fiso,

per vendicar lo fuggir che mi face;

e poi le renderei con amor pace[119].

 

Canzon, vattene dritto a quella donna

80  che m’ha ferito il core e che m’invola

quello ond’io ho più gola,

e dàlle per lo cor d’una saetta,

ché bell’onor s’acquista in far vendetta[120].

 

London, British Library. Yates Thompson 13 (secondo quarto del XIV sec.), Libro d’ore di Taymouth, f. 68v. La dama a caccia.

 

Si è detto che, rispetto al ciclo delle «petrose», questa canzone sembra essere un vero e proprio «manifesto» letterario, perché l’autore vi enuncia un programma di poetica fondato sulla volontà di far corrispondere al contegno duro dell’amata uno stile altrettanto «aspro»: in altre parole, l’asprezza del «parlar» di Dante dipende direttamente tanto dalla severità del sentire del poeta quanto dall’atteggiamento di madonna nei suoi confronti.

Per lamentare l’aggressione da parte di donna-pietra e di Amore, l’autore si serve di immagini crude e di parole rare, il cui suono è «indurito» dai nessi consonantici, specialmente in sede di rima, ma anche conducendo all’estremo la violenza delle immagini: una violenza che si impone con un’ambigua fascinazione, grazie a un effetto di «vicinanza» fisica, di assoluta immediatezza, e a movimenti di esasperata sensualità.

Tutta la canzone, infatti, appare costruita sulla rete di rapporti «drammatici» tra il poeta, Amore e la donna, secondo un’originale linea narrativa, e propone una struttura strofica e un’orchestrazione tonale molto mossa, con un trascorrere rapido di immagini e situazioni. All’abbattimento del poeta seguono l’intervento brutale di Amore, al centro della canzone, e la fantasticheria sul cedimento della donna. Dante si appropria dei topoi della lirica provenzale e stilnovistica (la freccia d’Amore, il tremore e il pallore, il nascondimento, il senhal), per poi lasciarsi andare a una «vendetta» (v. 83) verbale che si colora di violenza. Vita, Amore, Morte e persino Inferno (v. 60) s’intrecciano nel componimento, segnando una tappa fondamentale verso la prima cantica della Commedia.

Le sei stanze della canzone, prima del congedo, possono essere raggruppate a due a due. Nella prima coppia si oppongono la chiusa ostilità dell’amata e il lamento del poeta, privo di difese e incapace di sottrarsi alla crudeltà della donna, che, al contrario, è ben protetta da un’armatura di «diaspro» (v. 5). Di lei non è detto il nome, celato da un eloquente senhal: «bella pietra» (v. 2), da cui si sviluppa il campo semantico della durezza e della freddezza («impietra», v. 3; «maggior durezza», v. 4, ecc.). La terza e la quarta stanza, invece, sono incentrate sul tema tradizionale della battaglia e introducono la figura di Amore, personificazione del sentimento, che, come un guerriero vittorioso e invincibile, esercita sull’innamorato un dominio violento, irrazionale e potenzialmente letale. Nella quinta e sesta stanza, quindi, il poeta immagina di trovarsi con l’amata a parti invertite, giocando con lei come un orso da circo, ammaestrato ma pur sempre feroce, per potersi prima vendicare e poi concederle il perdono. Nel congedo, infine, la canzone diventa essa stessa una freccia d’amore, che dovrebbe colpire l’impenetrabile corazza della donna-pietra.

Tutta la canzone è, inoltre, disseminata di lessico «aspro», appunto, tanto sul piano del significato quanto da quello della sonorità. Ci soffermiamo, in particolare, su tre casi significativi, costituiti da «impietra» (v. 3), «bruca» (v. 33) e «squatra» (v. 54). Si tratta di parole rare, che non si incontrano tanto spesso nella poesia italiana: il primo è un termine difficile, che può essere interpretato come «pietrifica, chiude in sé come pietra», oppure come «chiede e ottiene» (dal verbo impetrare); «bruca», in rima con il latinismo «manduca» (v. 32), è usato in senso figurato per il pensiero d’amore che corrode le facoltà del poeta; «squatra» è un hàpax dantesco, ovvero un termine che s’incontra solo in Dante, e ribadisce l’immagine del cuore mangiato (v. 25). All’efficacia espressiva di queste parole contribuiscono proprio i suoni consonantici, in particolare la r, detta liquida, in -tr-, -br-, in netto contrasto con le parole dolci e «pettinate» dello «Stil novo».

***

Note:

[1] T.S. Eliot, Che cosa significa Dante per me [1950], in Scritti su Dante, Milano 1994, p. 72.

[2] Id., Dante [1929], ibid., p. 50

[3] E. Montale, Dante ieri e oggi (1965), in Sulla poesia, Milano 1977, pp. 32-33.

[4] Bere.

[5] Con qualunque altro impegno a cura lo pungesse, lo occupasse.

[6] Cioè «amico»: questo particolare è ricavato dalle opere stesse di Dante (si ricordi l’episodio dell’incontro con il musicista Casella nel canto II del Purgatorio).

[7] Infiammato dall’amore.

[8] Come.

[9] Straordinarie.

[10] G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, parr. 68-77, passim, ed. P.G. Ricci, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, ed. V. Branca, Milano 1974, v. III.

[11] Grande studioso di retorica, Brunetto possedeva una visione aperta e “moderna” della cultura, anche grazie alla profonda conoscenza di diverse realtà culturali e soprattutto di quella francese. La concezione dantesca dell’attività intellettuale come impegno filosofico e civile dovette senz’altro moltissimo a questo maestro.

[12] Da quel momento il poeta rimase tagliato fuori dalla sua città, che molti anni dopo, ormai vicino alla morte, avrebbe ricordato come «bello ovile ov’io dormi’ agnello / nimico ai lupi che li danno guerra» (Pd. XXV, 5-6).

[13] Convergenza di elementi ideologici già inconciliabili, attuata in vista di esigenze pratiche, nella sfera delle concezioni religiose e filosofiche

[14] vv. 1-8. O Guido, io vorrei che tu e Lapo e io fossimo rapiti (presi) per incantesimo (incantamento), e messi in una barchetta (vasel) che navigasse per mare con qualunque (ad ogni) vento, secondo la volontà vostra e mia, in modo che (sì che) né tempesta (fortuna) né altro tempo cattivo (rio) ci possa ostacolare (dare impedimento), e anzi, vivendo noi sempre secondo un’unica volontà (in un talento), cresca il desiderio (‘l disio) di stare in compagnia. Il dedicatario del sonetto, Guido Cavalcanti, avrebbe risposto rifiutando malinconicamente l’invito, che allarga l’armonia e la fusione spirituale dalla coppia degli amanti alla piccola compagnia di «fedeli d’Amore», qui rappresentata dai tre amici e dalle rispettive amate. La tradizione stilnovistica riconosce in questo Lapo la figura di Lapo Gianni, citato da Dante nel De vulgari eloquentia come maestro di uso maturo, in poesia, del volgare toscano. È stata messa però in dubbio la lezione qui a stampa, ipotizzando la validità della lectio difficilior «Lippo» (Gorni): un altro rimatore fiorentino attivo nei medesimi anni, Lippo Pasci de’ Bardi. Il vasel è la nave magica del mago Merlino, che si incontra nei romanzi del ciclo arturiano, di gran moda nel Duecento.

[15] vv. 9-14. Poi vorrei che il potente (buon) mago (incantatore) mettesse con noi sul vascello anche (e) la signora (monna) Vanna e la signora Lagia insieme a (con) quella donna che ha la posizione trentesima (ch’è sul numer de le trenta), e qui vorrei che si potesse discorrere (ragionar) sempre d’amore, e vorrei che ciascuna di loro fosse contenta, come credo che saremmo tali noi tre. L’armonia deve riguardare anche le tre dame, amate rispettivamente dai tre poeti. Monna era il titolo di rispetto che nella Firenze medievale si dava alle donne, generalmente giovani e di condizione sociale elevata. Quella ch’è sul numer de le trenta, cioè colei che occupava il trentesimo posto nell’epistola in forma di sirventese (purtroppo perduta) scritta da Dante stesso e ricordata nella Vita nova (cap. VII), che aveva per argomento le sessanta donne più belle della città. Non si trattava, però, di Beatrice, che, per ammissione del poeta stesso, occupava il nono posto.

[16] Io mi fei al mostrato innanzi un poco, / e dissi ch’al suo nome il mio disire / apparecchiava grazïoso loco. / El cominciò liberamente a dire: / “Tan m’abellis vostre cortes deman, / qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. / Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; / consiros vei la passada folor, / e vei jausen lo joi qu’ esper, denan. / Ara vos prec, per aquella valor / que vos guida al som de l’escalina, / sovenha vos a temps de ma dolor!”. [Io mi avvicinai un po’ a colui che mi era stato indicato e gli dissi che il mio animo era ben desideroso di conoscerne il nome. Egli cominciò volentieri a parlare dicendo: “La vostra cortese domanda mi è tanto gradita che io non posso né voglio nascondermi a voi. Io sono Arnaut, e piango e vado cantando; guardo afflitto la mia passata follia e attendo con gioia la felicità che vedo di fronte a me. Ora vi prego, per quella Grazia che vi guida alla sommità del Purgatorio, ricordatevi della mia pena al momento opportuno!”].

[17] Cioè: placati gli stimoli dell’avidità, che allettano ma espongono ai pericoli.

[18] Questa teoria, abbracciata da Dante, è da lui esposta in Pg. XVI, in occasione dell’incontro con Marco Lombardo.

[19] libro de la mia memoria: i ricordi, contenuti nella mente del poeta, così come le parole sono scritti in un libro. Attorno a questa immagine si organizza un sistema metaforico complesso. L’immagine del libro dei ricordi è usata anche altrove da Dante, ad es. nella canzone E’ m’incresce di me (Rime, 20) in cui ai vv. 58-59 si dice «secondo che si trova / nel libro de la mente che vien meno», e anche in If. II 8 («che ritrarrà la mente che non erra»).

[20] dinanzileggere: prima della quale parte non si trovano molti ricordi; l’autore fa riferimento agli anni della propria infanzia, che vengono ricordati in modo impreciso e intermittente. La parte alla quale dunque Dante allude riguarda gli anni che presentano la prima affermazione della coscienza individuale (in relazione, per l’esattezza, all’età di nove anni, come si vedrà nel capitolo seguente). Cfr. a tal riguardo Agostino, Confessiones I, vii.

[21] una rubrica: titolo di capitolo; il termine deriva dal latino ruber (“rosso”), con riferimento al minio con cui anticamente si scrivevano i titoli e i sommari sui manoscritti.

[22] le parole: i ricordi.

[23] assemplare: trascrivere, cioè copiare dall’originale (il libro della memoria); si tratta di un termine tecnico mutuato dal linguaggio della pittura. La Vita nova si dichiara quindi come una copia fedele, benché sintetica, dell’interiorità dell’autore.

[24] sentenzia: il senso, l’interpretazione generale.

[25] Si vd. pp. A165-168.

[26] Nove girazione: Il cielo del Sole era tornato già nove volte, dopo la mia nascita, allo stesso punto, riguardo alla propria rotazione; erano cioè passati quasi nove anni dalla nascita di Dante, avendo il Sole (nella concezione astronomica del tempo) compiuto nove giri. Siamo perciò nella primavera del 1274; e la vasta introduzione astronomica trasmette solennità agli eventi narrati.

[27] a li miei occhi apparve: si mostrò ai miei occhi, con riferimento all’importanza della vista per la nascita dell’amore, secondo l’intera tradizione lirica medievale e stilnovistica (soprattutto); e con riferimento a una concezione della conoscenza quale manifestazione dell’oggetto al soggetto e non, come per i moderni, quale attività del soggetto nei confronti dell’oggetto.

[28] prima: per la prima volta.

[29] fu chiamatachiamare: fu chiamata con il nome di Beatrice anche da molti che non sapevano come si chiamasse. Una delle interpretazioni più probabili del passo vuole che quei molti, che ignoravano il nome della donna, lo indovinassero solamente dagli effetti prodotti dalla sua presenza. Ciò è detto in relazione all’etimologia del nome Beatrix (“colei che dà beatitudine”), secondo la convinzione medievale che esistesse un nesso tra nome e cosa.

[30] ne lo suo tempo: durante la sua vita.

[31] lo cielo grado: il cielo delle stelle fisse si era mosso verso Oriente una delle dodici parti di un grado, cioè erano passati otto anni e quattro mesi, secondo la concezione astronomica dell’epoca. E pertanto, come si legge subito dopo, Beatrice era al principio del nono anno di vita allorché incontrò Dante.

[32] nobilissimo colore: rosso scuro. Al simbolismo numerico si aggiunge qui quello cromatico, essendo il rosso, per un cristiano, il colore dell’amore ardente. Per ben tre volte nella Vita nova Beatrice è rappresentata vestita di rosso scuro.

[33] umile ed onesto: in pregnante valore etimologico (humilis et honestus), i due aggettivi valgono “modesto” e “dignitoso”, riguardano il primo piuttosto la semplicità esteriore del portamento, il secondo piuttosto la nobiltà intrinseca degli atti.

[34] cinta convenia: con una cintura e ornamenti fatti in modo adeguato alla sua giovanissima età.

[35] In quello punto: In quell’istante; la triplice anafora conferisce enfasi e solennità all’attimo dell’innamoramento.

[36] lo spirito de la vitaorribilmente: lo spirito vitale, che sta nella parte più recondita del cuore, cominciò a tremare così tanto che si manifestava in modo pauroso in ogni più piccola arteria. Dante si riferisce qui e nei due periodi seguenti alla dottrina scolastica degli “spiriti”: lo spirito vitale presiede alle funzioni necessarie alla sopravvivenza dell’organismo.

[37] Eccemihi: “Ecco un dio più forte di me, il quale mi soggiogherà con il suo arrivo”. La teatralizzazione del mondo interiore, affidata alle solenni parole latine degli “spiriti”, rientra nel modello cavalcantiano; vi è qui, di peculiare, il riferimento a passi biblici che conferiscono ulteriore solennità religiosa all’arrivo di Beatrice.

[38] lo spiritopercezioni: lo spirito animale è l’anima sensitiva, deputata a raccogliere e organizzare in sede di conoscenza i vari stimoli provenienti dai sensi (gli spiriti sensitivi), avente sede nel cervello (l’alta camera).

[39] parlando spezialmente a li spiriti del viso: rivolgendosi soprattutto agli spiriti della vista (lat. visus).

[40] Apparuitvestra: “Ecco che è apparsa la vostra beatitudine”.

[41] lo spirito naturalenostro: lo spirito naturale è quello deputato alle funzioni del nutrimento e della digestione, perciò risiede nello stomaco e nel fegato.

[42] Heu deinceps!: “Ahi misero me, dato che da ora in poi sarà spesso impedito!”. Infatti, il poeta, tra i sintomi d’amore, accuserà disappetenza.

[43] disponsata: sposata.

[44] e cominciòcompiutamente: l’Amore cominciò a esercitare su di me tanta sicurezza di sé e tanto potere grazie alla forza che gli dava la mia stessa immaginazione, che ero costretto a compiere ogni suo capriccio senza limite.

[45] cercasse per vedere: mi dessi da fare per incontrare.

[46] vedèalaportamenti: la vedevo caratterizzata da modi così nobili e lodevoli.

[47] quella parolaOmero: il poeta era noto a Dante solo in forma indiretta e sporadica.

[48] E avegnasegnoreggiare me: E benché la sua immagine, la quale stava continuamente dentro di me, incoraggiasse Amore a esercitare su di me la sua signoria…

[49] tuttaviaudire: tuttavia Beatrice era di virtù così nobili che non permise mai che Amore mi guidasse senza il fidato suggerimento della ragione in quei campi in cui fosse utile ascoltare tali consigli. L’armonia tra amore e ragione, che rovescia la tragica visione cavalcantiana, implica d’altra parte la moralità intrinseca dell’amore, interdetto a trascendere i confini della dignità e dell’onestà.

[50] E peròesse: E dato che insistere sulle passioni e sugli atti di un’età così giovane pare in qualche modo un parlare favoloso, mi allontanerò da essi.

[51] e trapassandoqueste: e tralasciando molte cose che si potrebbero ricopiare dallo stesso modello dal quale derivano queste; cioè non copiando dal libro della memoria più a lungo in merito agli anni dell’infanzia.

[52] maggiori paragrafi: capitoli più importanti.

[53] Poi chegentilissima: Dopo che furono passati tanti giorni che si erano per l’appunto compiuti nove anni dalla prima apparizione – sopra descritta – di questa gentilissima. Da notare che Dante attribuisce questo superlativo solamente a Beatrice (le altre sono solo gentili).

[54] colore bianchissimo: in questo secondo incontro Beatrice veste il colore della purezza e della castità.

[55] in mezzoetade: fra due nobili donne, più mature di lei.

[56] molto pauroso: molto intimorito. È una reazione tipica degli innamorati, nella poesia dell’amor cortese: la donna è una creatura divina, che quasi impone il tremore e il terrore di un’apparizione sovrannaturale. Ma, al contempo, qui Dante rappresenta realisticamente la propria timidezza, quasi impacciata, di un ragazzo di fronte alla fanciulla che domina i suoi sentimenti.

[57] la quale è oggi meritata nel grande secolo: la quale adesso riceve il suo merito nell’eternità. Fin dai primi capitoli Dante guarda indietro, agli inizi del suo amore, dal punto di vista della fine della storia: Beatrice è già morta mentre il poeta compone il suo “libello”, e quindi sta godendo in Paradiso la ricompensa dei suoi meriti.

[58] vedere tutti li termini de la beatitudine: di toccare il colmo della felicità.

[59] fermamente nona: sicuramente la nona. Corrisponde alle tre del pomeriggio; ancora una volta il numero nove, simbolico di Beatrice e del suo essere, in terra, il riflesso della Trinità divina.

[60] però che: dal momento che.

[61] come inebriatocortesissima: come estasiato, mi allontanai dalla gente e mi rifugiai nel luogo appartato di camera mia, e mi misi a pensare a questa donna cortesissima.

[62] una maravigliosa visione: la visione è così straordinaria che il suo racconto è punteggiato di termini legati al campo semantico della meraviglia: vedere, parere, mirabile.

[63] con tanta: tanto lieto in se stesso.

[64] Ego dominus tuus: “Io sono il tuo signore”. Ripete l’inizio dei Dieci comandamenti: «Io sono il Signore, tuo Dio». Amore viene subito introdotto con i connotati del Dio cristiano.

[65] involtaleggeramente: mi sembrava avvolta delicatamente in un drappo rosso scuro. È lo stesso colore del vestito di Beatrice nel corso del primo incontro.

[66] intentivamente: attentamente.

[67] la donna de la salute: Dante gioca sull’analogia fra le due parole saluto: salute. Beatrice è la donna che, salutando, apporta salvezza.

[68] Vide cor tuum: “Guarda qui il tuo cuore”.

[69] E quandodubitosamente: E dopo aver indugiato alquanto, mi sembrava che Amore svegliasse Beatrice che dormiva; e tanto si sforzava in ogni modo che le faceva mangiare la cosa che teneva in mano, e lei esitante se ne cibava.

[70] poco dimorava: passava poco tempo.

[71] si ne gisse verso lo cielo: se ne andasse verso il cielo. È la prima prefigurazione della morte di Beatrice.

[72] onde iodisvegliato: per cui io soffrivo una così grande angoscia che il mio lieve sonno non poté più resistere, anzi cessò e mi svegliai.

[73] mantenente: immediatamente.

[74] la quarta de la notte: corrisponde all’ora tra le nove e le dieci di sera.

[75] la primanotte: stratagemma per tornare a insistere sul numero di Beatrice.

[76] Pensandofedeli d’Amore: Pensando alla visione che mi era apparsa, decisi di divulgarla a molti che erano famosi poeti a quell’epoca: e dal momento che io avevo già sperimentato personalmente l’arte della poesia, decisi di comporre un sonetto nel quale io salutassi tutti i poeti fedeli d’Amore.

[77] vv. 1-4: A ciascuna anima innamorata e a ciascun cuore gentile, al cui cospetto viene la presente poesia, affinché mi rimandino il loro parere per iscritto, porgo il saluto in nome del loro signore, cioè Amore.

[78] vv. 5-8: Erano giunte quasi a un terzo le ore della notte, il tempo in cui ogni stella brilla in cielo, quando mi apparve improvvisamente Amore, il cui aspetto mi fa paura solo al ricordo.

[79] vv. 9-11: Amore mi sembrava lieto mentre teneva il mio cuore in mano, e nelle braccia aveva la mia donna, che dormiva avvolta in un drappo.

[80] vv. 11-14: Poi la svegliava e faceva mangiare a lei timorosa questo cuore che ardeva: alla fine, lo vedevo andarsene via piangendo.

[81] si divide: è il primo esempio di divisione del testo, secondo i precetti della Rettorica di Brunetto Latini, il maestro di Dante.

[82] risponsione: risposta.

[83] significorispondere: specifico a che cosa si debba rispondere.

[84] di diverse sentenzie: con diverse interpretazioni.

[85] ragionato è: si è parlato.

[86] vennegenti: giunse a essere a tal punto ammirata dalla gente.

[87] ondegiungea: per cui ne provavo una meravigliosa gioia. Come di consueto, Dante rappresenta i propri sentimenti secondo una prospettiva che fa di chi li prova l’oggetto di un’azione che lo raggiunge dall’esterno.

[88] onestade: energia nobilitante.

[89] non ardiaocchi: non osava sollevare gli occhi. Colui che aveva incontrato Beatrice, nel quale è rappresentato, con trasposizione proiettiva, il poeta stesso.

[90] sì come esperti: avendone fatta personale esperienza.

[91] mitestimoniare: potrebbero confermare quanto affermo.

[92] Ellas’andava: Beatrice procedeva interamente concentrata in un sentimento di umiltà. Le metafore della “corona” e del “vestire” ampliano e potenziano l’affermazione.

[93] nulla gloria: nessun vanto.

[94] cheadoperare: che sa compiere tali miracoli.

[95] comprendeanosapeano: provavano in se stessi una dolcezza virtuosa e raffinata, tale da non saperla ripetere. Sono i concetti ripresi poi nel sonetto, anche qui attribuita a una coralità di testimoni con funzione universalizzante.

[96] chesospirare: che non fosse costretto a sospirare [d’amore] fin dal primo momento.

[97] cose: effetti.

[98] virtuosamente: per forza di virtù.

[99] ripigliareloda: volendo riprendere il modello poetico della lode di lei.

[100] non pur: non solamente.

[101] sensibilemente: direttamente con i propri sensi.

[102] vv. 1-4: La mia signora, quando saluta qualcuno, si rivela a tal punto nobile e a tal punto dignitosa, che ogni lingua diviene muta per il tremare, e gli occhi non osano guardarla. È la sintesi perfetta dei più significativi motivi stilnovistici del tema del saluto: alle virtù di perfezione della donna corrisponde la reazione stupefatta e smarrita del soggetto, impedito tanto nelle facoltà percettive (soprattutto la vista!) quanto nelle facoltà espressive.

[103] vv. 5-8: Sentendosi lodare, ella procede atteggiata benevolmente a virtuosa dolcezza; e si rivela un essere venuto dal cielo a mostrarsi come un miracolo sulla terra. La semplicità amabile della ragazza, nella quale la coscienza delle lodi suscitate non provoca orgoglio, è uno dei segni della caratterizzazione celeste, messa qui abilmente in rapporto con una rappresentazione schiettamente narrativa.

[104] vv. 9-14: Si mostra a tal punto bella a chi la guarda, che trasmette attraverso gli occhi una tale dolcezza al cuore, che chi non la sperimenta direttamente non può capire: ed è evidente come dal suo volto emani uno spirito dolce e pieno d’amore che dice all’anima: Sospira. Chiunque assista alla bellezza di Beatrice è immediatamente rapito dall’esperienza di dolcezza e di turbamento; ma chi invece non può contare sulla diretta esperienza del «miracolo» resta comunque escluso dalla comprensione del suo significato, che non può essere descritto pienamente a parole. Infatti, paradossalmente, il componimento si conclude affermando la propria insufficienza costituzionale rispetto alla materia trattata, in se stessa ineffabile.

[105] vv. 1-4: Il sospiro che esce dal mio cuore penetra oltre la sfera celeste [: il Primo Mobile] che la circonferenza più larga: lo tira di continuo verso l’alto una nuova capacità di intendimento, che l’Amore mette in lui attraverso il dolore. Dall’interiorità più intima (core) del poeta si produce uno slancio verso l’alto che raggiunge il Paradiso; il mezzo attraverso cui questi due estremi del discorso (l’io profondo e l’alto cielo) sono messi in comunicazione è il sospiro, che per metonimia indica il “pensiero”. A determinarne lo slancio è proprio Amore, ma attraverso la sofferenza. Quest’ultima non è più la ragione della scrittura, ma un suo movente: la ragione è ora più impegnativa e alta, cioè seguire Beatrice con il pensiero verso l’Empireo. La speragira: secondo l’astronomia tolemaica, si tratta del cielo cristallino o Primo Mobile, oltre il quale la dottrina cristiana poneva l’Empireo, cioè il Paradiso.

[106] vv. 5-8: Quando esso è arrivato là dove desidera, vede una donna che riceve onore e risplende in modo tale che lo spirito pellegrino la contempla per la sua luminosità.

[107] vv. 9-14: [Il mio spirito] la vede così perfetta che, quando me lo riferisce, io non lo capisco, a tal punto parla difficile al mio cuore sofferente, che lo spinge a parlare. Io so [con certezza] che parla di quella donna nobile, dato che ne menziona spesso il nome di Beatrice; e così io lo comprendo bene, o mie care donne. Ad aver mandato lo spirito verso Beatrice è quel cuore stesso che ora, interrogandolo, non ne può capire in profondità le parole (cioè i segni dell’esperienza), benché una cosa almeno gli sia perfettamente chiara: esso parla di Beatrice, dato che ne pronuncia spesso il nome. La apparente, voluta contraddizione tra «io non lo intendo» (v. 10) e «io lo ’ntendo ben» (v. 14) provocò le obiezioni di Cecco Angiolieri, che rivolse a Dante il sonetto Dante Allighier, Cecco, ’l tu’ servo e amico; e non è da escludere che il commento in prosa, eccezionalmente circostanziato, risponda anche all’esigenza di ribattere all’amico. Beatrice: è la prima e unica volta che il nome compare in un testo poetico della Vita nova, ulteriormente segno dell’eccezionalità di questo passaggio.

[108] vv. 1-4: Chi sentisse tossire la sventurata moglie di Forese (vocato) detto Bicci, potrebbe dire che forse si è congelata (havernata) in uno di quei paesi in cui il ghiaccio diventa cristallo [: nel freddo Nord, secondo la credenza medievale che lì il ghiaccio formasse cristallo].

[109] vv. 5-8: Il fatto è che anche a metà (di mezzo) agosto la trovi raffreddata (infreddata): ora, figurati (or sappi) come stia (che de’ far; de’= deve) negli altri mesi…! E non le serve a nulla (non le val) dormire (perché dorma) con le calze (calzata), a causa della coperta (merzé del copertoio) che è corta (c’ha cortonese). C’è allusione oscena alla trascuratezza sessuale del marito, e gioco di parole sia in copertoio = coperta e copertura sessuale, sia in cortonese = corto e di Cortona.

[110] vv. 9-14: La tosse, il raffreddore (’l freddo) e ogni altro malessere (e l’altra mala voglia) non la colpiscono (non l’addovien) a causa di vecchi umori (per omor ch’abbia vecchi; omor = umori), ma perché sente una mancanza là sotto (per difetto ch’ella sente al nido). La madre piange con molto dolore (c’ha più d’una doglia), dicendo: «Ahimè (lassa), con una dote miserrima (che per fichi secchi) l’avrei sistemata (messa l’avre’<i>) [: con le nozze] in casa del conte Guido![: le avrei fatto fare un buon matrimonio]». Gli omorvecchi sono i liquidi organici che si credevano responsabili delle funzioni vitali, dunque Dante insinua che la donna è avanti con gli anni e, forse per questo, poco attraente agli occhi di Forese. Il conte Guido di cui si parla è uno dei conti Guidi del Casentino: la madre di Nella intende dire che con una dote modesta avrebbe procurato alla figlia un ottimo matrimonio, addirittura con una famiglia di antico lignaggio!

[111] vv. 1-4: L’altra notte mi venne un accesso di tosse, perché non avevo nulla da mettermi addosso; ma appena che (incontamente che) fu giorno, me ne uscii per andare a guadagnar qualcosa, dovunque ce ne fosse occasione.

[112] vv. 5-8: Sentite un po’ dove mi portò (addosse) il caso: credevo di trovare perle in uno scrigno di legno pregiato (bosso) e magari dei fiorini appena coniati (d’oro rosso: ancora nel crogiolo); e invece trovai Alighiero in un cimitero (tra le fosse).

[113] vv. 9-14: legato in un nodo di cui non saprei dire il nome, se era un “nodo di Salomone” o di altro saggio. Allora mi feci il segno della croce verso oriente; e quello mi disse: “Per amor di Dante, scoglimi (scio’mi)! E io non riuscii (potti) a vedere come: per cui tornai indietro e tornai sui miei passi.

[114] vv. 1-13: Nel mio modo di parlare voglio essere violento (aspro) così com’è nel suo modo di fare (ne li atti) questa bella donna di pietra, la quale racchiude (impetra) sempre (ognora) maggiore durezza e maggior crudeltà di carattere (natura cruda), e ricopre (veste) il suo corpo di un diaspro tale che grazie a esso (per lui), o a causa del fatto che ella (perch’ella) si tira indietro (s’arretra), non esce giammai dall’arco (di faretra) una freccia che la sorprenda indifesa (colga ignuda); eppure lei uccide (ella ancide) e non serve (non val) che uno (ch’om) si difenda (si chiuda) né che si allontani (si dilunghi) dai colpi mortali, che raggiungono il destinatario (giungono altrui) e spezzano ogni arma, quasi come se avessero le ali; così che io non so né posso difendermi (atarme) da lei. La durezza del linguaggio deve corrispondere alla durezza della dama, cioè l’intero discorso al proprio argomento. La situazione è squilibrata rispetto alla tipologia dell’«amor cortese», data l’invincibile difesa messa in campo dalla donna e data la sua inesorabile capacità di colpire chiunque voglia, facendolo innamorare di sé. Quanto a Petra, forse è un nome proprio oppure un soprannome o un senhal. Il diaspro è una pietra durissima (del genere del diamante) catalogata nei lapidari medievali come capace di proteggere chi la porti con sé a patto che sia casto. Il nesso con l’inattaccabilità (specialmente sessuale) della donna è ben evidente.

[115] vv. 14-26: Non trovo alcuno scudo che lei non mi infranga né riparo che mi nasconda dal suo sguardo (viso): perché ella occupa la cima della mia mente così come il fiore occupa la punta del ramo (di fronda). Mostra di interessarsi (par che si prezzi) del mio dolore (mal) altrettanto che una nave (legno) si cura di un mare calmo; e l’angoscia (‘l peso) che mi abbatte (m’affonda) è così grande che nessuna poesia potrebbe esprimerlo (adequar). L’inizio di questa strofe riprende alcuni termini e concetti della conclusione precedente, secondo il sistema della cobla capfinida: a partire dalla metafora militare si svolge un succedersi di nuove metafore, che si generano automaticamente quasi l’una dall’altra. Ahi lima d’Amore, angosciosa e spietata, che consumi (scemi) in silenzio (sordamente) la mia vita, perché non hai ritegno (non ti ritieni) di mangiarmi (rodermi) il cuore pezzo per pezzo (a scorza a scorza) così come io mi trattengo dal riferire in giro il nome di chi ti dà la forza di consumarmi? Mentre il poeta rispetta le convenzioni cortesi della discrezione, non rivelando l’identità della donna, che dà ad Amore il potere di abbatterlo e consumarlo, ella tralascia di rispettarle. La lima, in quanto strumento di Amore, è, secondo la maggior parte degli interpreti, la donna stessa.

[116] vv. 27-39: Perché, quando penso a lei in un luogo (in parte) dove qualcun altro (ov’altri) rivolga lo sguardo (li occhi induca), per timore (per tema) che traspaia all’esterno il mio innamoramento, così da essere scoperto, mi trema il cuore più di quanto non lo faccia (ch’io non fo) della morte, la quale già mi sta divorando (mi manduca) ogni facoltà sensitiva con i denti di Amore: cioè che il pensiero d’Amore logora (bruca) le capacità dei sensi al punto da annullarne l’attività (n’allenta l’opra). L’aggressione che Amore porta al poeta ne annulla tanto le capacità sensoriali di contatto con la realtà (i sensi) quanto le facoltà intellettive di elaborazione dei concetti (il pensier), facendo emergere un unico elemento interiore, il pensierd’Amore, con il rischio di essere scoperto. Insomma, l’Amore agisce sul soggetto in due modi: da una parte, rendendolo indifeso rispetto al potere della passione; dall’altra, sottraendogli l’autocontrollo rispetto al mondo esterno. L’impiego di immagini fisiche, corporee, accompagnata dalla splendida immagine dei denti d’Amor, dà una forza del tutto nuova al motivo dell’azione logorante della passione, tipica della tradizione cortese. Mi manduca: manducare è un verbo latino parlato che ha progressivamente soppiantato il suo equivalente classico edere, poco utilizzabile per la coniugazione irregolare che lo caratterizza. Da manducare, attraverso il francese mangier, deriva l’italiano mangiare. Le voci latine edere e manducare sopravvivono nell’aggettivo edùle (“commestibile”), proprio del linguaggio scientifico, e nel sostantivo manicaretto (“cibo particolarmente saporito”), che deriva da manducare attraverso il toscano manicare. Egli (e’) mi ha gettato (percosso) a terra, e mi sta (stammi) addosso con quella spada con cui lui (ond’elli) uccise (ancise) Didone, quell’Amore che io invoco (a cui grido) e prego umilmente, chiedendo pietà (merzé chiamando): e lui si mostra intenzionato rifiutare (messo al niego). Come si narra nel IV libro dell’Eneide di Virgilio, Didone, regina di Cartagine, si era suicidata gettandosi sulla spada donatale da Enea, infelicemente amato. Il rimando letterario stabilisce qui un parallelismo tra Dante e Didone (considerata nel Medioevo un esempio di lussuria), puntando sulla conoscenza da parte del lettore del notissimo episodio epico: anche Dante è dunque un innamorato passionale non riamato, e anche lui si ritrova sulla strada del suicidio.

[117] vv. 40-52: Questo spietato (perverso) leva ripetutamente (ad ora ad or) la mano e minaccia (sfida) la mia debole vita, lui [Amore] che mi tiene in terra riverso e impedito in ogni reazione (d’ogni guizzo stanco): allora, mi nascono nell’immaginazione (ne la mente) grida (strida), e il mio sangue, che è distribuito per le vene, corre fuggendo verso il cuore, che lo chiama; per cui io (ond’io) impallidisco (rimango bianco). Egli mi ferisce (mi fiede) sotto il braccio sinistro (sotto il braccio manco) così fortemente che il dolore si ripercuote (rimbalza) nel cuore. Allora mi dico: “Se egli mi colpisce ancora, Morte mi avrà rapito prima che il colpo sia andato a effetto!”. Amore, personificato, è qui rappresentato come un guerriero armato di tutto punto, potentissimo e spietato – con la stessa crudeltà dell’amata.

[118] vv. 53-65: Potessi io vedere (vedess’io) allo stesso modo da lui spaccare a metà (fender per mezzo) il cuore a quella crudele, che squarta il mio; dopo aver visto ciò non mi sarebbe dolorosa (atra: nera) la morte verso la quale corro per colpa della sua bellezza: perché questa bandita assassina (scherana micidiale) e ladra colpisce tanto al sole quanto nell’ombra (nel rezzo). Cominciano a delinearsi qui i conclusivi propositi sadici di vendetta da parte del poeta offeso, con un violento rovesciamento dei ruoli; ad Amore è affidato il compito di avviare lo scenario desiderato. Ahimè, perché l’amata non urla (latra) d’amore per me nel caldo torrente (borro) della passione, come succede a me per lei? Dato che subito griderei: “Io vi vengo in aiuto (vi soccorro)”; e lo farei volentieri, ma in questo modo: l’afferrerei per i capelli biondi, che Amore arriccia (increspa) e colora d’oro (dora) per consumarmi di passione, e la cosa potrebbe piacerle. L’aggressione sadica alla seducente fisicità della donna amata si scatena, concentrandosi soprattutto sui capelli, espressione di femminilità e ragione fondamentale di attrattiva per il poeta. Caldo borro: interpretato anche come riferimento al brucante abisso infernale, cioè secondo la prospettiva della dannazione eterna a causa della passione e in seguito alla morte evocata sopra. A questo proposito, si noti anche la tripla rima in -atra, che ritorna nel canto VI dell’Inferno per l’incontro con il mostruoso cane Cerbero («Cerbero, fiera crudele e diversa, / con tre gole caninamente latra / sovra la gente che quivi è sommersa. / Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, / e ’l ventre largo, e unghiate le mani; / graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra»). Qui lo stesso desiderato contatto con la donna si proietta in un orizzonte infernale.

[119] vv. 66-78: Se io avessi afferrate le belle trecce, che sono diventate per me frusta e sferza (scudiscio e ferza), afferrandole prima delle nove (pigliandole anzi terza), trascorrerei con esse pomeriggio e sera (vespero e squille): e non sarei pietoso né cortese, anzi farei come l’orso quando scherza; e se ora Amore mi frusta con quelle trecce, io mi vendicherei mille volte tanto. L’allusione all’orso è un riferimento al proverbio: “Non ischerzare coll’orso, se non vuogli esser morso”. E in più la guarderei da vicino e fissamente (presso e fiso) negli occhi, dai quali escono le scintille (le faville), che mi ha infiammato il cuore, che mi porto dentro annientato (anciso), per vendicare tutte le volte che mi ha evitato (lo fuggir che mi face); e poi mi riappacificherei con lei (le renderei con amor pace). Dopo i capelli, gli occhi, altro elemento caratteristico della femminilità, valorizzato dalla tradizione poetica cortese e stilnovistica, ma qui profanato da uno sguardo impudico per insistenza e vicinanza. E, infine, la prospettiva dell’amoroso e rasserenato scioglimento finale della tensione tra i due: compiuta la vendetta, il poeta assicura che tornerebbe possibile l’amore, essendo stato concesso il perdono alla donna.

[120] vv. 66-78: O canzone, vattene direttamente (dritto) da quella donna che mi ha ferito il cuore e che mi sottrae (m’invola) ciò di cui io ho più desiderio (gola), e colpiscila in mezzo al cuore (dàlle per lo cor) con una freccia: poiché nel vendicarsi si guadagna piacevole onore. È il congedo, rivolto energicamente alla canzone, perché compia essa stessa, con la propria durezza, la vendetta del poeta che Amore di fatto si rifiuta di realizzare. In questo modo, all’autore è possibile recuperare il proprio onore offeso, la dignità distrutta dalla passione e dal desiderio infelice.

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cfr. R. LUPERINI, P. CATALDI, L. MARCHIANI, F. MARCHESE, La scrittura e l’interpretazione: storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea. 1 Dalle origini al Manierismo (1610), I La letteratura italiana nell’età dei Comuni (1226-1310), Firenze 2000, 255-305. G. LANGELLA, P. FRARE, P. GRESTI, U. MOTTA, Letteratura.it: storia e testi della letteratura italiana. 1. Dalle origini al Manierismo, Milano-Torino 2014, A104-120; 152-183. C. BOLOGNA, P. ROCCHI, G. ROSSI, Letteratura visione del mondo. 1A. Dalle origini a Boccaccio, Torino 2020, 240-304.

La situazione socio-economica nelle campagne europee dopo la Peste Nera e le rivolte contadine

Se la peste nera del 1347-50 non fu la causa prima e unica dei cambiamenti economici e sociali, che caratterizzarono la vita delle campagne nel Trecento, sicuramente contribuì ad accelerarli. D’altronde, alle terribili calamità naturali che si abbatterono sull’Europa, le vicende politiche ne aggiunsero altre ugualmente crudeli: le lotte civili in Italia, l’anarchia politica permanente in Germania, la guerra dei Cent’anni che condusse alla rovina la Francia e stremò l’Inghilterra.

I primi effetti tangibili delle crisi e delle epidemie furono l’abbandono delle terre marginali di bassa redditività e la forte diminuzione del numero dei contadini a causa della morte o dell’emigrazione. Nelle regioni più colpite da questi fenomeni, i mutamenti economici si rispecchiarono nelle trasformazioni del paesaggio: soprattutto in Germania e in Inghilterra fu frequente lo spopolamento dei villaggi, che portò a un nuovo avanzamento dell’incolto.

London, British Library. Royal 2 B VII (1310-1320), Salterio della regina Maria, f. 81v. L’allevamento dei maiali.

L’abbandono delle terre marginali andò spesso di pari passo con l’aumento della pastorizia, soprattutto quella ovina finalizzata alla produzione di lana per le attività cittadine, e con la riduzione dei coltivi, in cui, venuta meno la pressante richiesta di cereali, iniziarono ad affermarsi nuove colture specializzate, come il riso, il lino o il gelso. Se l’incremento di queste fu sicuramente un dato positivo, quello dell’allevamento ovino fu talora una causa di degrado e di impoverimento del territorio, come accadde nell’Italia centro-meridionale e nella Penisola iberica.

Oltre alle colture e al paesaggio, nelle campagne in molti casi mutarono l’habitat e le modalità stesse del lavoro agricolo. Diverse furono però le varianti regionali, che portarono a esiti talora opposti: per quanto, nel corso del Duecento, l’affrancamento dei contadini fosse stato un fenomeno generalizzato, ancora sopravvivevano tracce più o meno profonde di servitù. In molte zone d’Europa, infatti, le corvée continuarono a gravare duramente sulla popolazione rurale e la crisi del sistema feudale le rese ancor più onerose. I signori, del resto, non si comportavano più da capi carismatici e da protettori della propria gente, ma come proprietari terrieri e percettori di tributi senza scrupoli. Insomma, nelle aree dove si conservò la servitù divenne sempre più invisa in quanto, considerata ormai come fatto eccezionale e superato, fu vissuta come condizione degradante.

I liberi agricoltori, invece, mordevano il freno sotto la giurisdizione delle corti fondiarie, dalle quali i loro stessi appezzamenti dipendevano. Le grandi fattorie sorte sulle riserve dominicali imposero ai campagnoli la propria supremazia, requisendo gran parte delle terre comuni e costringendo gli abitanti del luogo a mettersi a loro servizio. A questi disagi si aggiunsero, perciò, anche i mali prodotti dalle guerre, soprattutto quella dei Cent’anni che devastò molte regioni della Francia.

Paris, Bibliothèque Nationale de France. Ms. fr. 2643 (XV sec.). Jacques Froissart, Chroniques, f. 207r. La battaglia di Poitiers (19 settembre 1356).

Di particolare interesse, invece, fu quanto accadde nell’Italia centro-settentrionale, dove l’incidenza della mortalità e il conseguente crollo demografico, causati dalle epidemie, indussero a una razionalizzazione della gestione fondiaria e a un aumento degli investimenti produttivi. La vera svolta fu la possibilità di rinnovare i patti agrari – tradizionalmente difficili da modificare per il grande valore accordato alla consuetudine – approfittando del ricambio di terre e di uomini provocato dagli eventi. Per esempio, in Toscana e in Emilia, i proprietari iniziarono ad accorpare i loro beni fondiari, strutturandoli in poderi, aziende compatte dotate di una casa colonica e delle infrastrutture deputate al lavoro. Ciascuno di questi poderi era assegnato a una famiglia contadina con contratti di breve durata (in genere, da uno a cinque anni), che prevedevano una serie di investimenti da parte del proprietario – fornitura di sementi, attrezzi, animali da tiro, ecc. – in cambio della miglioria dei terreni e, soprattutto, della corresponsione di una parte cospicua del raccolto (di solito la metà). I contratti di mezzadria – così fu chiamata la nuova tipologia di rapporto di lavoro – vennero così sostituendo i tradizionali contratti parziari a lunga durata (come i livelli di durata ventinovennale, che prevedevano la consegna del terzo, del quarto o di quote ancora minori del raccolto, a secondo delle zone) e i più recenti contratti a canone fisso, non più rispondenti a un’epoca di crisi, caratterizzata da una grande fluttuazione dei prezzi.

London, British Library. Royal 2 B VII (1310-1320), Salterio della regina Maria, f. 78v. Braccianti impegnati nel raccolto.

Quello della mezzadria è un tema assai dibattuto dagli storici, che, in particolare in tempi recenti, hanno cercato di comprendere se e in quale misura essa abbia significato un miglioramento delle condizioni di vita dei coloni e nell’organizzazione della proprietà fondiaria. L’opinione prevalente è che questo tipo contrattuale costituì complessivamente un passo avanti nell’economia rurale, anche se, in momenti meno favorevoli ai contadini rispetto alla seconda metà del Trecento, essa poté portare a nuove forme di oppressione, che spesso non consentirono ai coloni di andare oltre una mera economia di sussistenza. Più in generale, si sottolinea la necessità di distinguere il dato economico da quello sociale: se i nuovi sistemi di conduzione assicurarono un generale aumento della produzione, ciò avvenne soprattutto per un maggiore sfruttamento del lavoro contadino da parte dei proprietari, sempre più attenti a un’oculata gestione dei propri profitti.

Le varie disgrazie accadute nel corso del XIV secolo contribuirono indiscutibilmente a esacerbare tensioni sociali, creando un netto contrasto con il secolo precedente, ma sarebbe a dir poco errato ritenere che nel Trecento la condizione dei ceti umili fosse peggiorata allo stesso modo in tutte le parti d’Europa. È pur vero, comunque, che il malcontento di cui queste classi sociali diedero tante prove non ebbe ovunque le medesime cause: poteva derivare da un’eccessiva miseria nelle aree colpite dai conflitti, derivante cioè da una gravosa pressione fiscale, dagli eccidi e dalle violenze, dal saccheggio delle truppe sbandate; oppure poteva sorgere a causa di nuove forme d’oppressione da parte della nobiltà fondiaria, a sua volta rovinata dagli effetti delle epidemie; oppure ancora poteva essere prodotto dalla volontà di porre fine a uno stato di cose tanto più detestabile in quanto ci si sentiva ormai in grado di sovvertirlo.

The Hague, Koninklijke Bibliotheek. Ms. 72 A 25 (1410 c.), Jean Froissart, Cronica, vol. I, f. 24r. La battaglia di Cassel.

La lunga durata della sommossa che coinvolse la Fiandra occidentale, dal 1323 al 1328, sarebbe già sufficiente a dimostrare che non poteva essere opera di una miserabile plebaglia. Anzi, fu un vero e proprio tentativo di rivoluzione diretto contro la nobiltà fondiaria, allo scopo di strapparle l’autorità giudiziaria e finanziaria. La dura imposizione fiscale istituita per pagare i pesanti risarcimenti al re di Francia, dopo la battaglia di Courtrai, fece scoppiare una serie di tafferugli che ben presto si trasformò in un’aperta rivolta contro le autorità della regione.

Ad animare gli insorti non era più soltanto la volontà di porre fine agli abusi di potere, ma lo spirito di indipendenza dei nerboruti contadini del luogo s’inasprì al punto da considerare tutti i ricchi e la Chiesa stessa come loro naturali nemici. Per sedare le violenze e le crudeltà di cui si macchiarono quei «bruti privi dei sensi e della ragione», dovette scendere in campo il re di Francia in persona. I ribelli gli andarono spavaldamente incontro e, pieni di fiducia in se stessi, gli diedero battaglia sulle pendici del monte di Cassel (23 agosto 1328): fu uno scontro tanto breve quanto sanguinoso; la cavalleria francese massacrò senza pietà la plebaglia che aveva osato tenerle testa e che si era posta al di fuori della legge.

Henry Scheffer, La battaglia di Cassel, 23 agosto 1328. Olio su tela, 1837.

Altri sollevamenti popolari occorsero in maniera ricorrente nella seconda metà del secolo, in particolare tra il 1350 e il 1385, provocati da cause diverse a seconda della regione: in certi casi si esaurirono nel giro di pochi giorni o settimane, ma in altri assunsero autentici caratteri rivoluzionari, come quello appena esposto.

Il primo importante episodio di eversione politica del secolo fu indirettamente provocato dalla disastrosa sconfitta subita dai Francesi nella battaglia di Poitiers (1356). Per ottenere la somma di denaro necessaria al riscatto di re Giovanni “il Buono”, caduto prigioniero degli Inglesi, il principe Carlo fu costretto a convocare gli Stati Generali, l’assemblea più importante del regno, che riuniva i rappresentanti del clero, della nobiltà e dei ceti popolari. Ma le redini della seduta ben presto gli sfuggirono di mano e la componente mercantile, guidata dal prevosto di Parigi, Étienne Marcel, colse l’occasione per mettere sotto accusa l’intera classe dirigente aristocratica, ritenuta responsabile delle gravi disfatte a Crécy e a Poitiers. Il 3 marzo 1357 Marcel riuscì a strappare a Carlo la concessione della Grande ordonnance, un documento che metteva lo stesso Delfino sotto la tutela degli Stati Generali e consegnava loro il controllo delle finanze pubbliche e dell’esercito, subordinando l’approvazione delle nuove tasse necessarie a raccogliere il riscatto a una radicale riforma della monarchia. Gli Stati Generali, attraverso l’iniziativa delle gilde mercantili, si avviarono così ad assumere un ruolo politico analogo a quello del Parliament inglese, dimostrando però, rispetto a quest’ultimo, un maggiore radicalismo e un più forte sensibilità politica nella ricerca dell’alleanza con i ceti popolari: una disposizione dell’ordonnance era rivolta contro gli abusi degli esattori fiscali e ammetteva l’autodifesa della «povera gente» di fronte alle loro violenze. Nei successivi mesi del 1357 e ai primi del 1358 l’azione di Marcel assunse sempre più un carattere rivoluzionario: la pressione esercitata sul principe si accrebbe e, dopo l’irruzione nel palazzo reale di una folla di artigiani, nel marzo 1358 Carlo decise di lasciare Parigi e, sostenuto dalla grande feudalità, dichiarò illegale l’assemblea dominata dai borghesi.

Già prima di allora la Francia, prostrata dai disastri militari, era stata agitata da sommosse contadine. La prigionia del re e la notizia del probabile giro di vite fiscale non fecero che accrescere la rabbia e il risentimento della popolazione rurale, che guardava con poca differenza fra le razzie degli Inglesi e quelle dell’esercito francese o dei suoi mercenari.

Tutto sfociò, alla fine, nella grande fiammata del maggio-giugno 1358, quando si scatenò una rivolta contadina che interessò un’ampia regione a nord e a sud di Parigi, il cuore del regno, ovvero nell’Île-de-France, e venne a coincidere con la fase più acuta del conflitto fra Carlo e gli Stati Generali. Sulle prime sembrò che fra i disordini di Parigi e i moti delle campagne potesse realizzarsi un collegamento. La sollevazione antifeudale dei coloni fu denominata jacquerie, termine destinato anche in futuro a designare rivolte di questo genere, dal nome Jacques, particolarmente diffuso all’epoca fra i contadini. Questo nome fu ripreso dai loro avversari in senso dispregiativo, per sottolinearne la presunta rozzezza e la limitatezza culturale. La jacquerie, volta a dare una voce, una rappresentanza alle istanze dei coloni e a contrastare la crescente oppressione nelle campagne, fu di brevissima durata: l’esercito numeroso ma improvvisato dei ribelli fu sbaragliato dalle forze della nobiltà, che si abbandonarono poi a una sanguinosa vendetta, massacrando migliaia di contadini. Subito dopo la grande feudalità pose l’assedio a Parigi: l’uccisione di Marcel per mano di alcuni partigiani di Carlo preparò la fine dell’opposizione della borghesia mercantile alla Corona e il 2 agosto Parigi riaprì le porte al principe.

Paris, Bibliothèque Nationale de France. Ms. fr. 2643 (XV sec.). Jacques Froissart, Chroniques, f. 226v. Il massacro dei Jacques a Meaux.

Spesso gli storici e i sociologi moderni che si occuparono delle rivolte sociali tardomedievali commisero l’errore di generalizzarne le caratteristiche, basandosi unicamente sui tre o quattro fenomeni più studiati. Nelle loro dissertazioni conclusero che i capi delle sommosse contadine e urbane non erano di umili origini e che spesso erano chierici, che persino le donne parteciparono ampiamente alle insurrezioni, che l’ideologia dei ribelli si fondava su principi religiosi, ma che nutrivano sacro timore e reverenza per alcune autorità (il re, il papa, l’imperatore e altri signori ereditari), distinguendo fra il “buon sovrano” e i suoi cattivi consiglieri. Oltre al fatto che generalizzare può sempre essere fuorviante, gli storici attribuirono maggiore importanza alle rivolte contadine più che a quelle urbane, creando inevitabilmente un modello interpretativo fondato sulle prime. Eppure, le fonti disponibili dell’epoca raccontano un’altra storia, e cioè che solo sessanta sollevazioni popolari possono essere considerate propriamente “contadine” e che, per di più, appena dieci di esse videro i rustici in lotta contro i propri signori. Si aggiunga che i resoconti di quei fatti mostrano che assai raramente i capi rivolta fossero di estrazione borghese, ecclesiastica o aristocratica, malgrado le stesse cronache fossero perlopiù redatte da esponenti delle élites che detestavano i ribelli. Straordinariamente rare, poi, erano le rivolte per la carenza di grano o cibo. Infine, le cronache riportano che le donne non furono tra i leader degli incidenti e che raramente esercitarono un ruolo di primo piano nelle sommosse: tutt’al più, sono descritte come persone in lutto, partecipanti ai movimenti religiosi, o come semplici sostenitrici e partecipanti ad azioni armate in difesa della propria comunità.

Tra l’autunno del 1377 e la primavera successiva, l’Inghilterra sud-occidentale e sud-orientale fu scossa da un movimento di protesta: i fittavoli, impiegati durante il raccolto, si rifiutarono di lavorare per i loro signori «a causa di una “great rumor” (prout magnum rumorem) che si stava diffondendo tra gli altri braccianti». Bisogna ricordare che, dopo la peste del 1347-50, nonostante le condizioni di vita nelle campagne inglesi avessero conosciuto un netto miglioramento, la maggior parte del territorio era costellata di manors, proprietà fondiarie ecclesiastiche o nobiliari, presso le quali si concentrava gran parte della produzione agricola e si conservavano vestigia più o meno consistenti del servaggio (serfdom), con i suoi canoni e le corvée. Questa sorta di “sciopero” dei braccianti appare come un tentativo di far crollare, a vantaggio dei più umili, ciò che ancora resisteva del vecchio sistema delle manorial courts, cercando di ottenere maggiori libertà personali e l’abolizione totale delle corvée.

Mappa congetturale di un manor inglese medievale, dall’Historical Atlas di W.R. Shepherd (New York, 1923) [link].

Alcuni esponenti dell’élite fondiaria, temendo che la sollevazione assumesse le dimensioni della “recente” jacquerie francese, presentarono una petizione al parlamento tenutosi nell’ottobre dello stesso anno. Agli occhi dei signori feudali, evidentemente, il Great Rumor non parve affatto simile alle normali proteste che, in passato, si erano verificate nei singoli manors. Questa volta, infatti, gli insorti si erano organizzati, stringendo patti giurati. Molti di loro avevano ottenuto delle copie ufficiali (exemplifications) dell’antico Domesday Book, impugnando le quali contro i landlords facevano valere la propria causa: quei documenti erano la prova che i terreni dati loro in affitto, un tempo, erano stati parte dell’antico demesne della Corona e che, pertanto, essi avevano il diritto di rimettersi alla protezione dei tribunali regi. I contadini che entrarono in possesso di quelle exemplifications considerarono quegli atti come prova della loro esclusione dallo status di villein.

Il Parlamento e il Consiglio della Corona, accolta la petizione dei landlords e sconfessato quella strumentalizzazione del Domesday Book, dichiararono i disobbedienti fuorilegge e istruirono delle commissioni dotate di poteri speciali, incaricate di indagare sul fenomeno di protesta e perseguire quanti avessero continuato a recedere dagli obblighi di servaggio, mandandoli a processo senza possibilità d’appello.

Dai rapporti di tre di queste commissioni emergono preziose informazioni sull’entità e sulla durata del movimento Great Rumor, e si apprende che le sommosse coinvolsero almeno una quarantina di villaggi sparsi fra il Wiltshire, l’Hampshire, il Surrey, il Sussex e il Devon.

Glasgow, University Library. MS. Hunter 59 T.2.17 (c. 1400), John Gower, Vox Clamantis – Chronica Tripetita, f. 6v. Il poeta, armato con arco e frecce, si prepara a scoccare contro il mondo.

Tra le fonti conservatesi, molto interessante è la petizione indirizzata al Parlamento e al re da John de Usk, abate di Chertsey. Questi lamentava che i villeins, i servi e gli altri tenutari dei manors di Chobham, Thorpe, Frimley ed Egham, alle sue dipendenze, avevano incrociato le braccia e si erano rifiutati di corrispondere, come ogni anno dalla fondazione del monastero, le rendite, il servaggio, le decime abituali e altre obbligazioni feudali. L’abate affermava che l’abbazia aveva ottenuto quei possedimenti dagli antenati del re nel 1086 e che percepiva canoni e prestazioni d’opera dai servi, secondo quanto stabilito, nel 722, dai suoi fondatori, Frithewold, vescovo di Whiterne, e San Erkenwold.

L’estensore fornisce un resoconto dei fatti: i ribelli, abbandonato il lavoro nei campi, avevano trattenuto le quote delle rendite e dei canoni, che abitualmente avrebbero corrisposto al monastero; quindi, dopo aver formato, sotto giuramento, «malicious council, alliance and conspiracy», molti di loro avevano ottenuto una lettera patente con una copia del Domesday Book, in virtù della quale sostenevano di essere liberi e con sfrontatezza minacciavano di distruggere l’abbazia. Così, correndo ai ripari, John de Usk incaricò alcuni messi monastici di costringere i tenutari a riprendere le abituali occupazioni sia in estate sia in inverno, ma quelli furono accolti con le armi: i ribelli minacciarono di raggiungere Chertsey, mettere a ferro e fuoco l’abbazia e eliminare tutti i monaci. Nonostante l’abate avesse ottenuto un mandato reale, con il quale incaricava lo sceriffo del Surrey di catturare e mandare a morte i responsabili dell’insurrezione, i rustici ribelli erano riusciti a sopraffare i suoi armati e, stavolta, avevano minacciato di sterminare migliaia di uomini, se non avessero ottenuto ciò che volevano.

Il Great Rumor, malgrado episodi simili, ebbe davvero un breve corso: dopo aver raggiunto rapidamente il culmine, si spense con altrettanta velocità, e i signori feudali riuscirono a ristabilire l’ordine nelle campagne. Comunque, rimane il fatto che, per la prima volta nella storia sociale inglese, un moto contadino antifeudale avesse superato i confini dei singoli manors e delle singole contee, per coinvolgere un ampio numero di comunità in lotta contro i signori.

Miglior esito, almeno in parte, sembra aver avuto la cosiddetta Peasants’ Revolt, che colpì l’Inghilterra nel 1381. Questa volta si trattò di una grande sollevazione che, al pari di quella fiamminga, coinvolse tanto la popolazione contadina quanto quella urbana, ma, rispetto ad altre avvenute sul continente, si legò indissolubilmente a una situazione di instabilità interna.

Difatti, a prepararne l’avvento contribuirono diversi fattori: la malattia di re Edoardo III nei suoi ultimi quattordici mesi di vita; la spregiudicata condotta del figlio, Giovanni di Gaunt, che si era alienato l’intera cittadinanza di Londra; la minore età del successore, il nipote Riccardo II, salito al trono a soli dieci anni; la corruzione dilagante fra i funzionari del regno; e la debolezza della Corona a far fronte a questi e ad altri problemi.

Le turbolenze che sfociarono nella Great Rising si riverberarono poi in molte delle città, tra le quali Londra, St. Albans, Bury St. Edmunds, Cambridge, Norwich, Beverley, Scarborough, York, Shrewsbury, Yarmouth, Winchester, Bridgwater, Lynn e molte altre. Ogni località e centro urbano aveva il suo particolare antagonismo interno, con faziosità e divisioni: eppure, non tutte le tensioni furono innescate dal movimento contadino che partì dal Kent e dall’Essex fra maggio e giugno del 1381. Molte sommosse erano già capitate negli anni appena precedenti e ancora nel 1377, che, secondo gli storici della Peasants’ Revolt, fu sicuramente l’anno più critico.

Ma, a parte il già accennato movimento del Great Rumor, quell’anno fu parimenti cruciale per gli eventi accaduti nelle città e soprattutto a Londra. Le sommosse urbane non furono solo dei meri attacchi contro l’ingerenza regia nella giurisdizione cittadina, a scapito delle antiche libertà, ma si dovettero in particolare alle angherie di quanti dicevano di agire in nome e per conto del vecchio re Edoardo.

 A Londra il momento di massima tensione fu raggiunto durante il processo che il vescovo William Courtenay intentò a John Wycliffe (1330-1384), il riformatore religioso protetto da Giovanni di Gaunt, duca di Lancaster. Wycliffe, docente di teologia e direttore al Canterbury College, aveva maturato idee religiose rivoluzionarie, sostenendo in cinquanta tesi (discusse nel De civili dominio) la necessità di un ritorno all’egualitarismo evangelico e polemizzando contro la Chiesa come “corpo separato”; egli criticava la corruzione e la ricchezza del clero, predicando, in termini nuovi e più radicali, la contrapposizione dell’ideale dell’uguaglianza all’immagine gerarchica del mondo tipica dell’epoca. Ora, Courtenay, forte dell’appoggio papale, aveva accusato Wycliffe di eresia, mentre Gaunt ne aveva assunto la difesa, sperando in questo modo di contrastare il potere temporale della Chiesa inglese. Nel corso del dibattimento, frustrato per non essere riuscito ad assumere il pieno controllo dell’udienza, il duca di Lancaster si diede a insultare il vescovo, minacciando di dargli una sonora lezione, dopo averlo trascinato fuori dalla cattedrale per i capelli. Ben presto la notizia di un tale affronto si sparse per tutta la città e i Londinesi non tardarono a montare su tutte le furie, sollevando un gran tumulto e giurando che avrebbero volentieri sacrificato la propria vita piuttosto che vedere il loro vescovo orrendamente umiliato. Si scatenò così una sommossa, durante la quale una folla inferocita assaltò la residenza del duca, il Savoy Palace: Gaunt fece appena in tempo a fuggire dalla città per non cadere nelle mani degli insorti.

London, British Library. Add. Ms. 42130 (1320-1340), Salterio di Luttrell, f. 147v. Banda di arcieri.

Secondo gli storici, il fattore che senza dubbio portò alla Peasants’ Revolt del 1381 fu la conduzione della guerra contro il regno di Francia: le prime campagne militari della fase edoardiana (1337-1360) non avevano ottenuto risultati decisivi e, in seguito, l’organizzazione di nuove spedizioni sul continente, l’arruolamento degli eserciti e il mantenimento di guarnigioni permanenti avevano ulteriormente gravato sulle finanze reali. Per far fronte alle spese di guerra, ancora nel 1377, il Consiglio della Corona, guidato de facto dallo spregiudicato Giovanni di Gaunt, inasprì l’imposizione fiscale, introducendo il famigerato testatico (poll-tax), che colpiva ogni suddito purché maggiore di quattordici anni, con un’aliquota di 4 pence.

La riscossione della tassa, almeno nelle sue prime due applicazioni, non generò gravi sollevazioni tra i rustici; ciononostante, data la sua impopolarità, si verificarono numerosi casi di evasione. Quando Gaunt e gli altri ministri del regno alla fine del 1380 chiesero al Parlamento di approvare l’aumento del testatico a 12 pence, per fronteggiare ulteriori spese militari, il numero degli evasori divenne esponenziale. Le autorità decisero, perciò, di utilizzare il pugno di ferro: crearono dei funzionari speciali incaricati di condurre le indagini contro i disobbedienti, arrestarli e punirli. Il giro di vite fiscale che ne seguì, tra abusi d’ufficio, episodi di violenza e ingerenze d’ogni genere, aumentò a dismisura le tensioni sociali. La scintilla che innescò la rivolta generale, in particolare, fu un incidente occorso il 30 maggio 1381 in Essex, quando un funzionario regio tentò di riscuotere oltre alle tasse evase anche una sovrattassa.

Come la notizia di quell’evento si diffuse, ben presto si unirono alla sollevazione anche le contee del Kent, del Suffolk e del Norfolk. La Cronaca dell’Anonimalle riferisce che il 7 giugno gli insorti del Kent avevano eletto a loro leader Wat Tyler. Non si hanno molte notizie sul conto di quest’ultimo, ma è probabile che fosse originario dell’Essex, che avesse servito nelle armate in Francia e che fosse un uomo particolarmente carismatico. Tyler diresse i suoi uomini su Canterbury e, raggiunta la città, ne occupò il castello senza colpo ferire, depose l’arcivescovo Simon di Sudbury e costrinse i monaci della cattedrale a giurare fedeltà alla loro causa. Quindi, i ribelli saccheggiarono le proprietà dei funzionari regi e setacciarono l’abitato in cerca di potenziali nemici, trascinando i sospettati fuori dalle case e giustiziandoli sul posto. Le carceri locali furono spalancate e i prigionieri liberati. Tyler, poi, convinse gli insorti a lasciare la città e a marciare su Londra per incontrare il re e discutere con lui.

London, British Library. Royal MS 18 E I (ante 1483). Jehan Froissart, Chroniques, f. 165v. John Ball tiene il suo sermone a Blackheath davanti agli insorti.

Nel frattempo, re Riccardo, per la propria sicurezza e quella della sua corte, si era asserragliato nella Torre di Londra. Aveva spedito una delegazione, guidata dal vescovo di Rochester, per convincere i ribelli a ritirarsi. Questi, intanto, avevano raggiunto il sobborgo di Blackheath, dove uno dei loro capi, John Ball, tenne un famoso sermone davanti alla folla riunita del Kent. Ball era un presbitero, noto per nutrire simpatie per le dottrine dei Lollardi, una setta ereticale che rifiutava i sacramenti, e caldeggiava per diffondere una traduzione in inglese della Bibbia. Nel suo discorso, a un certo punto, domandò retoricamente: «Quando Adamo zappava ed Eva filava, dov’era il gentiluomo?». Egli inoltre si fece promotore dello slogan della protesta: «Con re Riccardo e con il vero popolo d’Inghilterra». Questi concetti giustificavano la posizione dei ribelli contro il servaggio e contro le gerarchie ecclesiastiche e laiche che tenevano i sudditi lontani dal loro re: in altre parole, i ribelli intendevano ribadire la propria fedeltà alla Corona e di essere «più fedeli» al sovrano dei suoi stessi consiglieri.

Falliti i negoziati di Blackheath, Riccardo e i suoi consiglieri esaminarono le varie opzioni su come affrontare la rivolta. Dal momento che il re non aveva a portata di mano forze armate consistenti, alla fine, decise che avrebbe incontrato personalmente i ribelli a Greenwich, sulla sponda meridionale del Tamigi. Siccome, però, il monarca si era rifiutato di scendere a terra, anche quell’abboccamento saltò.

Il 13 giugno gli insorti, grazie al sostegno alla loro causa accordato dagli artigiani e dalle corporazioni cittadine, penetrarono nella capitale, mettendo a ferro e fuoco e saccheggiando palazzi e abitazioni dei funzionari regi, spalancando e distruggendo le carceri e massacrando tutti coloro che erano sospetti collusi con la Corona. Nel frattempo, avevano fatto pervenire al re un lungo elenco di personalità che egli avrebbe dovuto consegnare perché fossero assicurate alla giustizia. Nel frattempo i disordini dilagavano anche nelle contee e nelle città dell’Inghilterra settentrionale e occidentale

Il giorno dopo Riccardo II decise di incontrarsi con i capi degli insorti a Mile End, per esaudire le loro richieste, concedendo l’amnistia per quanti avessero partecipato ai tumulti e soprattutto abolendo il servaggio. Ma mentre il re era impegnato in questo modo, altre bande di ribelli sgominarono la guarnigione della Torre di Londra, penetrarono nella fortezza e catturarono l’Arcivescovo Sudbury, il tesoriere Robert Hales, il medico personale di Gaunt, e altri odiati funzionari reali: dopo averli trascinati fuori dalla fortezza, li portarono a Tower Hill e li decapitarono. Gli altri membri della corte furono rilasciati, mentre la Torre fu saccheggiata.

London, British Library. Royal MS 18 E I (ante 1483). Jehan Froissart, Chroniques, f. 172v. L’eccidio dell’Arcivescovo di Canterbury e degli altri ministri regi..

All’indomani di quei fatti, Riccardo e il suo seguito, completo di duecento armigeri, e gli insorti di Wat Tyler, rimasti ancora a Londra, si diedero appuntamento a Smithfield, fuori dalla città. I resoconti dei cronisti sull’incontro variano sensibilmente quanto a dettagli, ma concordano ampiamente sulla sequenza dei fatti. Si tramanda che il re e il leader ribelle ebbero un colloquio separato e che Tyler avesse parlato con il monarca con eccessiva familiarità. Ma quando Riccardo chiese alla controparte il motivo per cui, nonostante le laute concessioni del giorno prima, la rivolta non fosse ancora cessata, la tensione iniziò a crescere. Secondo i cronisti, il rozzo Wat Tyler compì un gesto riprovevole e sprezzante davanti al sovrano, tracannando un boccale d’acqua per placare la sete. Si trattò di un pretesto perché scoppiasse una discussione fra lui e alcuni paggi reali: nella zuffa Tyler tentò di attaccare uno dei gli uomini di Riccardo, ma intervenne il sindaco di Londra, William Walworth, che colpì il ribelle tra il collo e la testa con la spada, mentre un altro dei servi regi lo pugnalava alle spalle, ferendolo gravemente. Tyler cercò di fuggire a cavallo, ma cadde a breve distanza. Nel trambusto che ne seguì, alcuni dei suoi seguaci lo recuperarono e lo trasportarono al vicino ospedale di S. Bartolomeo. Lord Walworth e i suoi uomini, tuttavia, lo trovarono, lo catturarono e, riportato a Smithfield, fu decapitato pubblicamente. La testa di Tyler issata su una picca fu portata in giro per le strade di Londra per poi essere esposta sul Ponte.

London, British Library. Royal MS 18 E I (ante 1483). Jehan Froissart, Chroniques, f. 175v. L’uccisione di Wat Tyler.

Privi ormai del loro capo, i ribelli si dispersero. Riccardo II ordinò la caccia agli altri leader dell’insurrezione e revocò tutte le concessioni fatte; durissima fu la repressione contro i villaggi che avevano partecipato alla rivolta.

Come ha affermato Henri Pirenne, in fondo, i moti rurali del XIV secolo dovettero la loro apparente gravità soltanto alla brutalità dei contadini. In sé e per sé, non avevano alcuna possibilità di riuscita, poiché i ceti agricoli erano ancora incapaci di coalizzarsi in un’azione comune e ancor più incapaci di progettare un mondo nuovo.

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L’organizzazione della cultura nella città comunale

di LUPERINI R., CATALDI P., MARCHIANI L., MARCHESE F., La scrittura e l’interpretazione. Storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea. Vol 1, Dalle origini al Manierismo, tom. I – La società feudale, il Medioevo latino e la nascita delle letterature europee, Firenze 2000, pp. 90-93.

Il processo di urbanizzazione favorisce lo sviluppo di un nuovo organismo culturale, l’università, struttura eminentemente cittadina. Già alla fine dell’XI secolo e poi nel corso di quello successivo erano nati centri d’insegnamento superiore, che nel XIII secolo ebbero licenza di rilasciare titolo di valore pubblico. Questi centri erano chiamati studia ed erano inizialmente legati a ordini religiosi, come le abbazie, i conventi e le chiese.

Jacobello dalle Massegne, Gruppo di studenti universitari. Bassorilievo, marmo, 1383-86 dalla tomba di Giovanni da Legnano. Bologna, Chiesa di s. Domenico.

Poi nacquero le universitates, cioè grandi associazioni di studenti e di professori autonome dalla Chiesa, in cui gli insegnanti potevano essere retribuiti direttamente dagli studenti, ma potevano anche essere stipendiati dal Comune (come accadeva a Bologna, dove sorse la prima “università” italiana, attiva già a partire dal 1088).
Attraverso contrasti anche duri con il potere politico e con quello ecclesiastico (rappresentato dai vescovi metropolitani), queste associazioni conquistarono autonomia giuridica, diritto di sciopero e monopolio nel conferimento dei gradi universitari, fra i quali spicca, come titolo, la licentia ubique docendi (la «licenza d’insegnare dovunque», cioè il titolo di professore: chi lo otteneva poteva insegnare in qualsiasi università). E generalmente il licenziato, una volta diventato doctor o magister, non s’inseriva nell’universitas presso la quale aveva studiato, ma si recava altrove a insegnare o a svolgere la sua professione di notaio, medico, ecc. La nascita stessa delle universitates è dunque un segno della diffusione e della laicizzazione della cultura, che a poco a poco si affranca dalla Chiesa.
Studenti (o goliardi) e professori parlavano in latino e costituivano comunità cosmopolite che talora occupavano interi quartieri cittadini, favorendo l’incremento demografico e lo sviluppo stesso delle città. Avvenne così a Parigi, Oxford, Bologna, le tre università più antiche d’Europa. Esclusa quella di Bologna, in Italia le prime università si svilupparono nel Duecento (in quel secolo erano già attive – oltre naturalmente a Bologna – Arezzo, Siena, Padova, Piacenza e Vercelli), in concomitanza con l’affermazione del potere comunale, oppure, nel Sud, per iniziativa di Federico II di Svevia (è il caso di Napoli e di Salerno, dove già esisteva una famosa scuola di medicina). Sempre nel corso del Duecento, Roma divenne un centro di studi ecclesiastici con la fondazione dell’Università della Curia.
Le università potevano avere quattro facoltà (ma non erano necessariamente presenti tutt’e quattro in un’unica sede). La facoltà delle Arti era dedicata alle “arti liberali”, così dette perché destinate a uomini liberi dal lavoro manuale; in essa ci si perfezionava nella conoscenza del latino e si apprendevano le discipline del Trivio (grammatica, retorica, dialettica o logica). Era la facoltà più frequentata perché i suoi insegnamenti erano propedeutici a quelli delle altre tre facoltà. Queste ultime erano medicina, diritto, teologia. A poco a poco nel corso del Duecento si sviluppò anche l’insegnamento delle “arti meccaniche”, che restò comunque meno codificato perché tali arti erano ritenute inferiori in quanto destinate alle professioni collegate con il lavoro manuale.
Il legame con la città portò le università a dover rispondere alle esigenze civili della comunità urbana. Ciò le costrinse talora a subordinarsi al controllo dell’autorità politica comunale, cosicché, dopo un primo momento in cui i contrasti furono soprattutto con la Chiesa (e in particolare con il potere episcopale), nei cui confronti era indirizzata l’istanza d’indipendenza, non mancarono, in un secondo momento, conflitti anche gravi con il potere cittadino (e il Papato appoggiò allora l’autonomia universitaria). Comunque sia, il legame fra università e professioni cittadine diventò sempre più stretto, e anch’esso contribuì alla laicizzazione della cultura.

London, British Library. Sloane 1977 (primo quarto del XIV sec.), Mattheus Platearius, Circa instans, f. 48r. Lezione universitaria.

[…]

Sino all’età comunale, le professioni intellettuali si svolgevano quasi esclusivamente all’interno delle istituzioni ecclesiastiche e nei monasteri. L’intellettuale era un chierico. Le eccezioni erano poche: tra queste, le figure laiche dei trovatori e dei giullari.
Nell’età comunale l’attività intellettuale divenne laica. I suoi contenuti culturali alimentarono una serie di professioni cittadine, tanto nel campo dell’insegnamento, quanto in quello della giurisprudenza e della medicina. Sia il maestro di scuola (privata o pubblica), sia il professore universitario erano figure sociali nuove che vivevano del loro lavoro, con uno stipendio pagato dagli studenti o dalle loro famiglie o direttamente dall’amministrazione pubblica comunale.
Va notata poi una differenza fra le professioni intellettuali fuori d’Italia e quelle dei Comuni italiani del Centro-Nord. In Francia, già dal XII secolo, l’intellettuale aveva conquistato una posizione autonoma con l’esercizio dell’attività filosofica collegata all’insegnamento. In Italia, invece, l’intellettuale appariva, nel corso del secolo successivo, pienamente e organicamente inserito nelle istituzioni e nelle professioni civili legate alle varie attività della vita comunale. Mentre fuori dall’Italia il primato appartiene all’attività filosofica, nel nostro paese il primato spettava alle attività politiche e civili. L’insegnamento stesso impartito nelle scuole cittadine e, in buona misura, anche all’università aveva un contenuto pratico.

London, British Library. Stowe MS 17 (primo quarto del XIV sec.), The Maastricht Hours, f. 109r. La scuola delle scimmie.

Sia nel campo dell’insegnamento che in quello delle altre professioni cittadine, gli intellettuali del Duecento esibivano alcune competenze specifiche, due delle quali vennero ad assumere un rilievo di primo piano: la perizia tecnica del dettare (cioè del «comporre» o dello «scrivere» secondo le regole della retorica) e l’arte di divulgare o digrossare (come allora si diceva). Quest’ultima si prefiggeva lo scopo di far conoscere al ceto politico-amministrativo e alla classe mercantile e artigianale l’arte del persuadere (la rettorica) e i contenuti della cultura classica e cristiana, assunti come base per la formazione della coscienza morale e civile. Questi appunto erano i requisiti richiesti non solo ai maestri cittadini ma anche ai notai e ai giuristi letterati. Anzi sono proprio i notai e i giuristi, insieme con i medici e gli speziali, ma ancor più di loro, le nuove figure sociali d’intellettuali della vita cittadina.
Da queste categorie di intellettuali, nelle quali non esiste ancora separazione fra base umanistico-letteraria e competenze professionali (ma, anzi, reciproca compenetrazione), proveniva la maggior parte degli scrittori e dei poeti. I primi letterati italiani non furono, come i trovatori provenzali, letterati di professione, ma “dilettanti”, uomini colti e cittadini benestanti, esperti dell’ars rhetorica, che si dedicavano alla mercanzia o, più frequentemente, alle professioni di notaio o di giurista e perciò avevano un ruolo importante nelle vita economica e politica della propria città.
Accanto ai notai-poeti si diffuse poi, nei Comuni, la figura dei notai-cronisti che raccontavano la storia della propria città, dimostrando, anche in tal modo, la connessione esistente fra attività intellettuale e istituzioni urbane in cui essa si svolgeva.
Si aggiunga, infine, che il notaio doveva essere un esperto, proprio per le caratteristiche del suo lavoro, nell’arte del tradurre dal latino in volgare e dal volgare in latino, dovendo fare da intermediario fra il formulario latino della propria disciplina e la realtà culturale dei clienti che sempre più spesso conoscevano solo il volgare. Non fu certo un caso che i primi documenti di volgare scritto avessero a che fare con l’attività notarile e giuridica. Si può dunque affermare che le nuove professioni cittadine ebbero un ruolo non secondario nella diffusione del volgare come lingua scritta.

La città come spazio e la città come nome

da M. Corti, La città come luogo mentale, in  Strumenti critici 8, Torino 1993, 15-18.

 

Naturalmente, si tratti di un punto di vista sociale o individuale, sta di fatto che raramente esiste una città che sia staticamente emblematica, in quanto ogni epoca ha un proprio modello della cultura diverso da quello di un’altra epoca. Bisogna a questo proposito tener distinti due problemi: quello della città come luogo mentale e quello del metalinguaggio con cui ha luogo la sua descrizione e che è legato a un dato modello culturale di una data epoca. Tutti sappiamo che lo spazio fisico, geografico, cosiddetto “reale”, è di necessità passibile di descrizione solo attraverso un metalinguaggio; figuriamoci un luogo mentale. Ecco allora che in Giovanni di Salisbury il richiamo alla scala di Giacobbe nella descrizione di Parigi come paradiso si lega al metalinguaggio della geografia ideologica medievale, cioè ai codici culturali dominanti per i quali l’alto si contrappone al basso, il dentro al fuori, l’immobile al mobile, l’ordinato al disordinato, due serie oppositive di cui la prima è segnale di bene, la seconda di male. In questa struttura spaziale ideologica del Medioevo va inserita la descrizione che di Parigi fanno i suoi ammiratori e detrattori: se il dentro si contrappone al fuori, quest’ultimo da intendersi come elemento negativo, la piazza e le strade della città vengono a contrapporsi con il loro rumoreggiare e la loro confusio linguarum alla chiusa vita del convento e della cella, dove silentium est sola locutio. In questa prospettiva la celebrazione che John of Salisbury fa della lætitia populi parigina dà particolari connotazioni trasgressive all’immagine positiva di Parigi. In altre parole, se Parigi diviene luogo mentale, è per noi indispensabile fare attenzione al metalinguaggio della sua descrizione: la geografia e la topografia culturali presuppongono un viaggio della mente e un’idea di spazio che, di epoca in epoca, accrescono le possibilità spirituali non solo di chi guarda l’oggetto-città, ma dell’oggetto guardato; non solo di chi pensa, ma dell’oggetto pensato. Sembrano esservi fondamentalmente due tipi di città che possono divenire luogo mentale: uno è costituito da città che possiedono una storia, quindi una struttura diacronica di codici e una memoria collettiva; rispondono cioè a un complesso meccanismo semiotico, punto di partenza per la simbolizzazione. L’altro tipo è costituito da città senza storia, o perché appena create o perché utopiche; l’utopia, che può essere razionalistica o no, colma il vuoto semiotico e a sua volta consente la nascita del luogo mentale.

London, British Library. Add. MS 27210, Haggadah dorato (secondo quarto del XIV sec.), f. 4v. La scala di Giacobbe.

Vorrei chiudere con l’utopica Milano e con un rimando a Bonvesin de la Riva (che come si sa è la ripa di Porta Ticinese), e della sua opera De magnalibus Mediolani (“Le meraviglie di Milano”), esempio assai tipico di un genere letterario medievale, creato sui modelli classici, la laus civitatis, che poi si trasformerà nella laudatio rinascimentale. Il piacere di celebrare la propria città e porla a modello di comunità cittadina si innesta sulla struttura squisitamente retorica del genere letterario: panegirico della città, entro cui a volte è possibile anche recuperare un simulacro platonico-agostiniano di città ideale. Bonvesin, che la sa lunga, accoglie con destrezza le suggestioni dei suoi modelli: la descrizione di Milano e del contado si chiude alla fine del secondo capitolo con il richiamo al paradisum delitiarum: «Chi osserverà attentamente e diligentemente con i suoi occhi tutte queste cose, non troverà mai, anche girando il mondo intero, un simile paradiso di delizie». E quasi alla fine del libro, nel par. X del capitolo ottavo, egli affermerà: «È evidente, da quanto si è detto, che la nostra città, tutto considerato, non ha l’uguale al mondo; è evidente che è come un altro mondo separato dal resto; è evidente che non solo merita di essere chiamata “seconda Roma”, ma, se mi fosse lecito dire quello che mi piacerebbe senza essere accusato di presunzione, al mio giudizio sembrerebbe degno e giusto che la sede del Papato e le altre dignità fossero trasferite tutte qui da lei». Il motivo tradizionale di Roma caput mundi e “città eterna” è qui ripreso con l’epiteto di «seconda Roma», che ci ricorda quello di Costantinopoli nella simbologia politica bizantina […].

Milano, Basilica di S. Ambrogio. Scorcio della parte superiore della facciata.

 

Così la città è portata fuori dalla storia concreta, è idealizzata al punto che Bonvesin la definisce «un altro mondo separato dal resto» (alter mondus ab altero condivisus). Ma poco più oltre Bonvesin sembra operare prima di Lotman la distinzione fra città come spazio e città come nome. Eccolo difatti celebrare il nome di Milano in modo davvero stupefacente: «Del resto, dall’interpretazione del suo nome stesso si può conoscere la nostra città. Infatti, Mediolanum comincia con M e finisce con la medesima lettera. In mezzo vi sono due lettere, cioè O e Le. La prima e ultima lettera, la M, essendo più ampia delle altre, significa l’ampiezza della gloria di Milano, diffusa su tutta la terra. Con la M posta in principio e alla fine s’intende anche il numero mille, al di là del quale non vi è un unico numero che si possa indicare con un unico vocabolo; e così essa esprime un numero perfetto nella sua unicità, significando che dal principio fino alla fine del mondo, Milano è stata e sarà annoverata nel novero delle città perfette. La O, una delle due lettere che stanno a metà della parola, di forma rotonda e perfetta, più degna e più bella di tutte le altre, esprime di Milano, la rotondità, la bellezza, le dignità e la perfezione. La nostra città è, infatti, rotonda in senso letterale e bella e più perfetta di tutte le altre città. La L, invece, significa la lunghezza e anche l’altezza della sua nobiltà e della sua gloria, giacché, grazie alle preghiere e ai meriti della beata Vergine Maria e del beato Ambrogio e degli altri santi, i cui corpi qui riposano, e dei santi religiosi, la sua alta nobiltà e la sua gloria permarranno fino alla fine del mondo, per grazia di Dio».

Dunque, questa celebrazione di Milano funzione a tutti i livelli della tradizione retorica: c’è il topos spaziale e temporale, città armonica ed eterna, e c’è il topos nominale: le sue lettere significano eternità ed è perciò una seconda Roma. Con la tipica mentalità deduttiva di questo genere di discorsi Bonvesin non può non meravigliarsi che la somma autorità, il papa, non risieda nella città perfetta che si chiama Mediolanum. Un esempio fulgido, assai pertinente, del potere che un luogo mentale può raggiungere nei riguardi di un luogo geografico reale. La storia della nozione di “città” non può non tenerne conto.

Bianchi e neri

di G. PAMPALONI, s.v. Bianchi e neri, in Enciclopedia dantesca (1970).

“Bianchi” e “Neri” erano gli appellativi delle due fazioni, o partiti, in cui si divise la Parte guelfa fiorentina, verso la fine del sec. XIII, e in cui si identificano gli ideali, gli interessi economico-sociali e l’azione politica dei Cerchi e dei Donati. La divisione della Parte guelfa è già un fatto compiuto all’indomani della zuffa di Calendimaggio del 1300, quando Ricoverino de’ Cerchi fu ferito in una mischia con una brigata di giovani Donateschi in piazza S. Trinita. Per il Villani (VIII 39) «come la morte di messer Buondelmonte il Vecchio fu cominciamento di Parte guelfa e ghibellina, così questo fu il cominciamento di grande rovina di Parte guelfa e della nostra città». Naturalmente l’antagonismo fra i due partiti aveva radici complesse e lontane nel tempo, né è possibile comprendere appieno gli avvenimenti del 1300 e 1301, cioè la conclusione, se non diamo uno sguardo retrospettivo alle cause che li avevano generati.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms Chigiano L VIII 296, Nuova Cronica di Giovanni Villani (XIII sec.). L'uccisione di Buondelmonte
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms Chigiano L VIII 296, Nuova Cronica di Giovanni Villani (XIV sec.). L’uccisione di Buondelmonte.

Com’è noto, l’istituzione del governo delle arti (1282) aveva segnato il trionfo del Popolo grasso, anche se a questo non era seguita l’esclusione dall’esercizio del potere degli appartenenti al gruppo nobiliare magnatizio, anche perché – e pure questo è conosciuto – nella vita di tutti i giorni fra i due mondi non c’era quell’antagonismo che il Salvemini aveva fatto intravedere e che poi sarebbe stato la causa motrice degli avvenimenti fiorentini dell’ultimo quarto del Duecento. La proclamazione degli Ordinamenti di giustizia del 1293 segna il trionfo delle frange più popolari del mondo politico cittadino: il gruppo magnatizio, tutt’altro che compatto, vien così colpito da una legislazione di carattere eccezionale, vessatoria, e messo in condizione di netta inferiorità essendo rimasto escluso dalla vita politica cittadina. Com’era logico che avvenisse, il carattere vessatorio degli Ordinamenti di giustizia genera nei grandi malcontento e stato di tensione, acuiti dal fatto che la forza effettiva delle armi risiedeva proprio in loro: «Noi – diranno-in un momento di esplosione d’ira percuotendo i consoli delle arti – siamo quelli che demo la sconfitta in Campaldino, e voi ci avete rimossi degli ufici e onori della nostra città» (Compagni, I 21).

Madonna della Misericordia. Affresco, metà XIV sec. Firenze, Loggia del Bigallo
Madonna della Misericordia. Affresco, metà XIV sec. Firenze, Loggia del Bigallo.

Si arriva così al temperamento degli Ordinamenti stessi del luglio 1295, con il quale si ridà ai grandi la possibilità di partecipare alla vita politica mediante l’iscrizione a un’arte, sia pure non esercitandola in continuità (continue artem non exercentes): la legge, ricorrendo a una finzione giuridica, riconosce una situazione di fatto in evoluzione e certo in parte già diversa da quella del 1293, anche se la massa dei grandi non può, o non vuole, iscriversi, sia pure nominalmente, a un’arte e quindi per loro perdura lo stato d’inferiorità politica introdotto due anni prima.

Esclusi dalle vere fonti del potere, Priorato e altri organi della costituzione, i magnati rimangono padroni dell’Ufficio della Parte guelfa, organo nato col trionfo dei guelfi e destinato a tutelarne gli interessi e la fortuna: perciò ufficio di rilevante importanza, anche politica; ed è qui che si manifestano, dopo il 1295, i primi dissensi pubblici nel gruppo dei grandi, ed è di qui che prende le mosse la gara politica fra i Cerchi e i Donati, destinata in breve volgere di tempo a trasformarsi in lotta aperta tra due partiti politici, che prenderanno poi il nome di Bianchi e di Neri.

Il veleno «che e’ fiorentini avean nel cuore» (Pieri, Cronica 61), pubblicamente manifestatosi nella Parte guelfa, era alimentato dall’inimicizia sempre più aperta e violenta fra i Cerchi e i Donati, famiglie d’origine diversa ma alla fine del Duecento socialmente appartenenti entrambi all’ambiente magnatizio. La gara di «grandigia» aveva avuto inizialmente un carattere privato e aveva investito solamente le due casate e i consorti più stretti, ma ben presto tutto l’ambiente dominante della città viene a esserne coinvolto e da contesa privata essa si trasforma in lotta politica: è l’eterna dinamica dei governi oligarchici e lo stesso quadro d’irrequietezza e di lotta è offerto dai comuni che si trovano in condizioni politiche, economiche e sociali simili a quelle fiorentine.

Lo stato di tregua politica, concentrando l’attenzione dei magnati sugli avvenimenti interni del comune, alimenta la gara fra loro: «per soperchio tranquillo, il quale naturalmente genera superbia e novità» (Villani VIII 1).

Tutte le fonti sono d’accordo nel testimoniare che la tensione cittadina ha origine nella rivalità dei Cerchi e dei Donati, i quali pian piano, partendo quasi dal nulla, si trovano invischiati nella gara (il «riottare» del Villani, VII 56) di «grandigia» e di supremazia politica, che sentimenti d’invidia e di superbia (ma più che ai Cerchi, questi sentimenti sembrano adattarsi a meraviglia a Corso Donati e agli amici di lui) alimentano potentemente fino a incendiare gran parte della città. Dalla piazza, dalla vita di tutti i giorni, la rivalità dei due gruppi passa nella Parte guelfa, roccaforte dei magnati e unico centro di potere rimasto loro in mano dopo l’emanazione degli Ordinamenti di giustizia: l’odio cresce di giorno in giorno e nelle riunioni della Parte stessa i Cerchi abbandonano i Donati e il partito dei grandi e cominciano ad «accostarsi a’ popolani e reggenti» (Compagni, I 20); si arriva così (1297) alla spaccatura pubblica e definitiva del gruppo magnatizio fiorentino.

Se alla fine del Duecento i Cerchi e i Donati appartengono allo stesso gruppo sociale (e difatti tutte e due le casate sono contenute negli elenchi di magnati degli Ordinamenti di giustizia del 1293 e 1295 e presso a poco la stessa è la forza umana delle medesime, 67 gli uomini dei Cerchi nel 1293 e 66 nel 1295, 71 e 70 quelle dei Donati; cfr. G. SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1298, Firenze 1899, 375-376), ben diversa è invece l’origine e diverse sono anche l’attività e la potenza economica degli stessi: queste condizioni di fatto influenzeranno in maniera determinante la formazione, la composizione sociale e il comportamento dei due partiti, cose queste che avranno poi conseguenze tutt’altro che trascurabili negli avvenimenti successivi.

Torre dei Cerchi. Firenze
Torre dei Cerchi. Firenze.

I Cerchi sono i tipici rappresentanti della gente nuova del contado che i subiti guadagni han portato alla rapidissima scalata della società cittadina: gente «veniticcia» e passata da poche generazioni sulle rive dell’Arno dalla natia Acone, in Val di Sieve (Pd XVI 65), aveva trovato in città l’ambiente economico ideale per la propria attività e in breve volgere di anni era riuscita a raccogliere ricchezze così vaste da essere considerata al tempo di Dante come la rappresentante tipica della plutocrazia fiorentina.

L’origine popolare, la lunga pratica degli affari, la rete d’interessi intessuta anche con vasti ambienti del mondo piccolo artigiano, condizionano la condotta e l’atteggiamento politico degli stessi: pur appartenendo socialmente ai grandi (ma, si noti bene, sono detti grandi per accidente, non di sangue), i Cerchi tengono un contegno «umano» nei confronti del popolo, e come obbiettivo politico interno, piuttosto che alla totale eliminazione degli Ordinamenti di giustizia, mirano alla correzione degli stessi; sinceramente guelfi, ma possibilisti, cercano un compromesso e la convivenza col popolo, con il quale non disdegnerebbero di dividere il potere. Da qui la maggiore propensione per i Cerchieschi dell’ambiente popolare cittadino e sempre da qui la marcata predilezione del ghibellinismo fuoruscito verso questo partito: e questa voce propagata ad arte e soffiata a piene gote dagli avversari, e non convenientemente controbattuta dagli interessati, sarà poi uno dei motivi base dell’inimicizia pontificia e della loro rovina.

Stemma della famiglia Cerchi. Ricostruzione. Firenze, Casa di Dante.
Stemma della famiglia Cerchi. Ricostruzione. Firenze, Casa di Dante.

Il capo della casata, Vieri, incarna come meglio non si potrebbe la famiglia e il partito: abile nel commercio, egli porta nella vita politica quella tendenza in lui chiaramente rintracciabile anche negli affari e naturalmente portata verso il compromesso, fidando in quella medicina che è il tempo; ma al momento delle decisioni e delle scelte le qualità negative del capo si faranno sentire in maniera deleteria nel partito che, eccettuato un piccolo gruppo di cui fa parte il poeta, adotterà una linea incerta e traballante, anche quando sarebbe stato necessario «arrotar l’armi»; e allora dovrà soccombere.

Opposti in tutto i Donati: nobili d’antico stampo e forse addirittura appartenenti al mondo feudale, si erano inurbati per la crescente fortuna del comune; e questo esser fatti cittadini per forza lasciò in loro un profondo disprezzo per il popolo, di cui mai si sentirono parte. Lontani dalle attività economiche, alla fine del Duecento i Donati abbondano, più che di ricchezze, di superbia e tracotanza. Corso, il capo della famiglia e poi anche del partito, è la personificazione vivente di quest’ambiente di guelfi intransigenti, propugnatore di un «reggimento» fatto a sua immagine e somiglianza e avversario accanito della partecipazione al governo degli elementi popolari. Che il Donati fosse un gran spregiatore del popolo, che tenesse pose gonfie di superbia e aspirasse a divenire signore della città, tutte le fonti concordemente l’affermano: si può aggiungere anche che quasi certamente egli nutrì un’invidia profonda per la ricchezza dei Cerchi, mentre lui, cavaliere d’antica prosapia, non nuotava nell’abbondanza. Ma si deve pur dire che Corso era largamente fornito di tutte le qualità personali di cui difettavano gli avversari, Vieri de’ Cerchi specialmente; fu uomo deciso e d’azione, pronto a ogni intrigo e a ogni menzogna per il raggiungimento dei fini personali e del partito; in conclusione, fu l’uomo che le particolari circostanze del momento richiedevano, e così i Neri da lui capeggiati trionfarono.

Seconda Torre di Corso Donati (scorcio). Firenze.
Seconda Torre di Corso Donati (scorcio). Firenze.

La discordia fiorentina, lo ripetiamo, ha origine dalla gara di «grandigia» di queste due famiglie: nata da piccoli principi e da avvenimenti d’importanza limitata (acquisto del palazzo dei conti Guidi da parte dei Cerchi, morte della prima moglie di Corso, una Cerchi, per sospetto avvelenamento del marito, e nuove nozze del Donati con una Ubertini da Gaville) «adagio adagio ingrossando tutti trascinò seco, anche i religiosi, anche le donne» (I. DEL LUNGO, I Bianchi e i Neri, p. 123): da contesa privata si trasforma rapidamente in ardente lotta politica e porta gli animi dei cittadini a un punto tale di passione da mettere in forse finanche la libertà del comune.

Dopo il 1295 la discordia dei grandi ha superato l’ambito familiare e si delineano abbastanza chiaramente i gruppi destinati a dar vita ai due partiti: da un lato i Cerchi, magnati ma guelfi possibilisti, con larghe aperture verso le forze popolari, a cui son legati da una fitta rete di interessi, e propensi alla conservazione degli Ordinamenti di giustizia; dall’altro i Donati, guelfi intransigenti e fierissimi nemici degli Ordinamenti stessi, che coagulano intorno a sé famiglie di magnati, mentre l’ambiente popolare in gran parte è cerchiesco. Le riunioni della Parte mettono in piazza il dissidio.

In un’atmosfera tesa e sempre più avvelenata si passa, quasi senza accorgersene, ad azioni violente; il gruppo magnatizio fiorentino è ormai irrimediabilmente diviso. A cavallo del Trecento le condizioni della città e lo stato d’animo dei cittadini sono potentemente espresse da Ciacco: «La tua città … è piena / d’invidia sì che già trabocca il sacco» (If VI 49-50).

Il Calendimaggio del 1300 in piazza S. Trinita si festeggiava in allegria l’avvento della primavera: assistevano alle danze delle fanciulle, giovani armati dei due partiti. Ma Firenze era ormai avvelenata: dagli scherni si venne alle parole e poi alle spade, Ricoverino de’ Cerchi ebbe mozzo il naso; «Il quale colpo fu la distruzione della nostra città» dirà il Compagni (I 22); e lo stesso accorato concetto, abbiamo visto, espresse il Villani.

L’incidente occorso al giovane Cerchi contribuì in maniera decisiva all’inasprimento dei rapporti fra i due gruppi e alla formazione di due partiti: in questo senso le affermazioni dei cronisti rispondono perfettamente alla verità; ma noi oggi possiamo anche aggiungere che il vero profondo motivo della lotta era la conquista del potere, e anche l’episodio di S. Trinita rientrava in quella dinamica ed era uno degli ultimi anelli della catena che doveva portare rapidamente alla supremazia di Parte nera.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms Chigiano L VIII 296, Nuova Cronica di Giovanni Villani (XIII sec.). «Come la città di Firenze si partì e si sconciò per le dette parti bianca e nera».
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms Chigiano L VIII 296, Nuova Cronica di Giovanni Villani (XIV sec.). «Come la città di Firenze si partì e si sconciò per le dette parti bianca e nera».

La zuffa del Calendimaggio era la testimonianza eloquente di una tensione interna giunta ormai al parossismo: elementi esterni attizzeranno il fuoco del dissidio cittadino. Firenze si intromette nelle lotte interne di Pistoia, esiliando sulle rive dell’Arno i capi delle fazioni di questa città: i Cancellieri bianchi e i Cancellieri neri, che trovano protezione e ospitalità presso gli esponenti dei due partiti fiorentini, i quali assumono ora (primavera del 1300) la loro definitiva denominazione: guelfi bianchi i Cerchieschi e guelfi neri i Donateschi. Abilmente manovrata dai Donati, minacciosa si profila intanto l’ingerenza di Bonifacio VIII nelle cose di Firenze (vedi la condanna del 24 aprile dei tre Fiorentini del banco Spini di Roma accusati di intelligenze col papa in danno del comune), sicché di balzo la discordia fiorentina assume toni e dimensioni internazionali.

Con la primavera-estate del 1300 si delinea chiara la tendenza di fondo dei due partiti, ormai su posizioni inconciliabili: i Donateschi, che sul piano interno si sentono più deboli degli avversari, con fine azione politica riescono a tirare definitivamente al loro fianco Bonifacio VIII propagando ad arte la diceria del ghibellinismo dei Bianchi e, in sostanza, accettando una politica di asservimento verso la curia; i Cerchieschi, invece, pur dichiarandosi strenui difensori della fiorentina libertas, tengono un atteggiamento indeciso e contraddittorio, al quale sono naturalmente portati sia per la difesa degli interessi commerciali, vistosissimi a Roma, nel reame di Napoli e in Francia, e sia anche per la personalità di Vieri, capo riconosciuto del partito. Solo un piccolo gruppo di essi, non influenzato da interessi mercantili, vuole una chiara linea di condotta e chiede che si affronti il pontefice, a viso aperto: fra questi, e certo in posizione di primo piano, Dante. In tale contesto si spiegano perfettamente gli avvenimenti fiorentini della primavera-estate del 1300: di fronte a una larvata supremazia bianca (è il periodo del priorato di Dante, sotto il quale la signoria, imparziale, mandò in esilio le persone più in vista dei due partiti: fra i Bianchi Guido Cavalcanti, per il noto episodio di violenza del 23 giugno), pericolosa pei Donati ma in realtà inconcludente, Bonifacio VIII, su richiesta e in favore di Parte donatesca (Villani, VIII 40), si intromette apertamente nelle discordie fiorentine: si spiega così l’invito, rifiutato, rivolto a Vieri de’ Cerchi di recarsi a Roma e l’invio a Firenze come paciere del Cardinale d’Acquasparta, episodi entrambi finiti nel nulla (giugno-luglio 1300). In questa occasione i Bianchi danno una prima dimostrazione d’indecisione e d’incongruenza: si oppongono ai desideri del pontefice, ma rifiutano una politica netta e decisa nei confronti di lui; e le conseguenze di questo atteggiamento pendolare si faranno sentire molto presto.

Pietro Cavallini. La Vergine col bambino, fra S. Matteo e S. Francesco, con Matteo D'Aquasparta. Affresco, inizi XIV sec. dalla Tomba di Matteo D'Acquasparta. Roma, Chiesa di Aracoeli.
Pietro Cavallini. La Vergine col bambino, fra S. Matteo e S. Francesco, con Matteo D’Aquasparta. Affresco, inizi XIV sec. dalla Tomba di Matteo D’Acquasparta. Roma, Chiesa di Aracoeli.

Il fallimento del tentativo di inserirsi positivamente nelle cose fiorentine spinge Bonifacio VIII alla ricerca di soluzioni radicali, mentre i Neri, abilissimi e spregiudicati, stillano goccia a goccia il veleno del sospetto nell’animo del pontefice diffondendo la voce del ghibellinismo cerchiesco. Da parte loro i Bianchi con una condotta sbagliata e tortuosa fan di tutto per avallare le suggestioni dei Neri: ne è la prova la loro ambiguità nei confronti dei fuorusciti ghibellini, cosa questa che irrita al massimo l’animo di papa Caetani, che avvia allora il problema fiorentino verso la soluzione globale inserendolo in un disegno politico di vaste proporzioni. Matura così l’intervento di Carlo di Valois (trattative condotte nel periodo autunno 1300 – primavera 1301), il cui accordo col pontefice vien di pubblico dominio nel maggio del 1301: accordo stipulato in funzione anti-fiorentina, o meglio contro la Parte bianca che aveva il governo del comune, anche se ufficialmente la venuta del Valois si metteva in relazione con la questione siciliana. I Bianchi, quindi, hanno netta la percezione del pericolo, e sono indotti a prendere misure precauzionali: rientra in questo quadro la cacciata dei Neri da Pistoia (ne furono materialmente autori i rettori fiorentini Cantino Cavalcanti e Andrea Gherardini, maggio 1301). Ma fu il solito inconcludente fuoco di paglia, perché i Bianchi non metteranno a profitto il vantaggio, anche militare, che dava loro l’affermazione pistoiese.

Nello scorcio della primavera del 1301 la posizione interna dei Neri è molto vacillante: per fortuna va loro in aiuto la costante indecisione degli avversari (salvo, come s’è detto, una piccola parte di essi, tra i quali Dante, la quale patrocina misure energiche dal momento che le differenze erano arrivate al punto di rottura e che nessun compromesso era più possibile), mentre i Donateschi cercano di guadagnar tempo con ogni mezzo; si spiega così il noto convegno di S. Trinita (1301, metà giugno circa) che, sotto la falsa apparenza della pacificazione, ebbe appunto lo scopo di passar senza danni quei mesi cruciali. I Bianchi, è vero, si accorsero del tranello, ma invece di assumere una volta per tutte un atteggiamento deciso, si fermarono titubanti a mezza strada condannando all’esilio soltanto alcuni caporioni donateschi, fra cui messer Simone di Iacopo de’ Bardi, marito di Beatrice.

«… e la parte selvaggia / caccerà l’altra con molta offensione» (If VI 65-66) dirà Dante a proposito di questi esili; ma in realtà la misura fu lieve e non certo commisurata al momento, che imponeva decisioni drastiche e radicali. Le condizioni politiche generali (inizio estate 1301) e, aggiungiamo, il buon senso, comandavano l’adozione di una politica coraggiosa nei confronti degli avversari e del papato, ormai in stretto e chiaro connubio fra di loro: la paura degli interessi e la personalità di Vieri, rivelatasi sempre più impari all’altezza dei compiti, furono fra le cause più appariscenti della condotta pendolare dei Cerchieschi; partito di femminucce li dirà Bonifacio VIII, e mai definizione calzerà più a pennello di quella nel definire la condotta dei Bianchi. Siamo ormai alla conclusione e la cronologia dei fatti illustra con chiarezza lo svolgimento e la connessione dei medesimi.

Giotto di Bondone (attribuito), Bonifacio VIII indice il Giubileo. Frammento di affresco, 1300. Roma, San Giovanni in Laterano.
Giotto di Bondone (attribuito), Bonifacio VIII indice il Giubileo. Frammento di affresco, 1300. Roma, San Giovanni in Laterano.

Arrivato infatti alla corte pontificia ai primi di settembre (sembra il 3), il giorno 5 Carlo di Valois riceve ufficialmente dal papa l’incarico di paciere di Firenze: evidentemente ogni aspetto politico del problema era stato sviscerato e concordato in precedenza. Poco dopo la metà del mese – si pensa il 19-20 – il Valese lascia la corte pontificia e si avvia verso la Toscana, ma invece di seguire la via più breve, la Romea, si dirige verso la val Tiberina, avendo l’avvertenza di convocare per il 4 ottobre successivo a città della Pieve i rettori dei comuni amici della Toscana. Qui si trovava anche Corso Donati, col quale Carlo di Valois e i rettori dovevano tradurre in termini militari l’accordo politico col papa: questo il senso della deviazione del Valese, altrimenti incomprensibile.

I Fiorentini, nel frattempo, cercano di correre ai ripari: e poiché non hanno il coraggio di una ferma opposizione militare, tentano di arrivare a una soluzione politica inviando un’ambasceria al pontefice, della quale, com’è noto, Dante fu la figura più importante. Ma anche in quest’occasione i Bianchi fanno mostra della loro indecisione (deliberazione dell’invio, alla metà di settembre circa, e partenza effettiva della stessa nell’ottobre inoltrato), pur dovendosi ammettere che un atteggiamento opposto ormai non avrebbe potuto recare un apprezzabile risultato, dal momento che il piano militare destinato a rovesciare la Parte bianca era scattato con la partenza del Valese.

Accolta bene nella forma, l’ambasceria (Dante, Ruggerino de’ Minerbetti e il Corazza da Signa) non ottiene nulla nella sostanza, e due oratori, pare su consiglio del pontefice stesso, rientrarono subito (fine di ottobre) in sede, mentre Dante, certo non a caso, è trattenuto presso la curia. L’apparente benevolenza di Bonifacio aveva però uno scopo ben preciso: guadagnar tempo; ma non appena giunge a Roma la notizia dell’ingresso del Valese a Firenze, il contegno del papa subisce un brusco cambiamento: «lasciò le lusinghe e usò le minacce» dirà il Compagni (II 11), e questo, se aggiunto ai già numerosi motivi di risentimento che Dante aveva contro il pontefice, riesce a farne comprendere l’accanimento contro «quel d’Alagna» (Pd XXX 148).

La Parte bianca era ormai alla fine: il primo di novembre Carlo di Valois entrava in Firenze senza incontrare una vera opposizione, mentre Corso Donati lo seguiva subito dopo; il giorno 7 cade il Priorato bianco e al suo posto si insedia la signoria nera e Cante de’ Gabrielli da Gubbio, venuto al seguito del Valese, è il nuovo podestà. Il rivolgimento politico priva Dante della carica d’ambasciatore, ed egli allora, come pare, è costretto a lasciar Roma. A Firenze i Bianchi si sentono franare il terreno sotto i piedi: dopo una breve parentesi di calma apparente (ma è il tempo in cui Dante istruisce i processi) cominciano a fioccare le sentenze; la prima è del 18 gennaio 1302 e nella seconda del 27 successivo è compreso anche l’Alighieri.

Arnolfo di Cambio, Carlo d’Angiò. Statua, marmo, fine XIII sec. Roma, Palazzo dei Conservatori.

Le sentenze avvicinano automaticamente i guelfi bianchi e i ghibellini, ma è unione forzata e innaturale, dalla quale nascerà poi la leggenda di un Dante ghibellino. Si arriva così al convegno di Gargonza, avvenuto probabilmente nel periodo fra il 27 gennaio e il 10 marzo, nel quale si pongono le basi per un’alleanza militare vera e propria fra la universitas partis alborum e i ghibellini. Firenze nera risponde con le condanne a morte del 10 marzo, ma la coalizione militare dei fuorusciti mette a mal partito la città (caduta di Figline, poi di Piantravigne, ecc.). In favore dei Neri si muove di nuovo Bonifacio VIII, il quale con falsi allettamenti stacca Arezzo dall’alleanza degli esuli, che così si vedono costretti a spostare la lotta contro Firenze da sud a est avvicinandosi agli Ubaldini, i potenti feudatari ghibellini dell’Appennino tosco-emiliano, ai quali vengono concesse da parte degli esuli le note assicurazioni del convegno di S. Godenzo (8 giugno 1302), cui partecipa anche Dante.

La guerra divampa ora nel Mugello, dove gli Ubaldini commettono saccheggi e ruberie d’ogni sorta (estate-autunno 1302): nella lotta Dante occupa un posto di rilievo, e proprio in questo periodo cadrebbero la sua andata alla corte di Scarpetta Ordelaffi a Forlì, e a Verona presso Bartolomeo della Scala. Ma poi, forse in connessione con la condotta della guerra, cominciano i contrasti fra Dante e la compagnia malvagia e scempia, che la disfatta di Pulicciano (primavera 1303) rende ancora più acuti: si arriva così alla rottura, e il poeta si sente minacciato finanche nella persona, per cui abbandona gli amici di ieri, dando inizio al suo duro peregrinare.

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S. DELLA TOSA, Annali, in Cronichette antiche di vari scrittori del buon secolo della lingua toscana, a c. di D.M. Manni, Firenze 1733, p. 157; P. PIERI, Cronaca delle cose d’Italia dall’anno 1080 fino all’anno 1300, a c. di A.F. ADAMI, Roma 1755, pp. 57, 61, 67; G. VILLANI, Cronica VII 56; VIII 1, 12, 38-40, 45, 49; Dino Compagni e la sua Cronica, a c. di I. DEL LUNGO, Firenze 1879, p. 84 e passim; M. DI COPPO STEFANI, Cronica, a c. di N. RODOLICO, in «Iter. Ital. Script.» XXX, I, rub. 217; I. DEL LUNGO, I Bianchi e i Neri – Pagine di storia fiorentina da Bonifacio viii ad Arrigo vii per la vita di Dante, Milano 19112, pp. 116-119, 123-125, 127-129, 136, 144, 150, 152-153, 161, 163-164, 254; P. VILLARI, I primi due secoli della storia di Firenze, s.d., III ediz., p. 440 passim; G. MASI, Sull’origine dei Bianchi e dei Neri, Firenze 1927, pp. 6, 8, 12, 17, 29; ID., Il nome delle fazioni de’ Bianchi e de’ Neri, Aquila 1927; L. SALVATORELLI, L’Italia comunale dal secolo XI alla metà del secolo XIV, Milano 1940, 734-737; A. PANELLA, Storia di Firenze, Firenze 1949, pp. 76-83; PIATTOLI, Codice 90, 91, 92; DAVIDSOHN, Storia II II, Firenze 1957, pp. 700, 708; III, ibid. 1960, p. 182 passim; IV I 1962, p. 196 passim; IV II, 1965, p. 29 e passim; IV III, 1965, p. 12 e passim; E. SESTAN, Dante e Firenze, in «Arch. Stor. It.» CXIII (1965), pp. 159, 162-163; G. PAMPALONI, I primi anni dell’esilio di Dante, in Conferenze aretine, Arezzo 1966, pp. 134-137.

Ranieri da Perugia

di G. Tamba, s.v. RANIERI da Perugia, DBI 85 (2016)

 

RANIERI da Perugia. – Nacque nell’Isola Polvese del lago Trasimeno poco prima del 1190. Ignota è l’identità dei genitori; la famiglia doveva comunque avere buone disponibilità finanziarie per consentire a Ranieri ancora adolescente di frequentare lo Studio di Bologna.

Qui seguì probabilmente i corsi di arti conseguendo il titolo di magister, ma anche i corsi di diritto (senza tuttavia concluderli con il dottorato). A Bologna fissò la sua residenza e il centro dell’attività professionale. Nominato giudice e notaio dall’imperatore Ottone IV nel 1210, aprì poco dopo una sua scuola di notariato.

Ranieri esercitò anche quale notaio. Il primo documento noto, datato 21 marzo 1212, è nella sua caratteristica scrittura, una minuscola notarile graficamente molto accurata, in evidente evoluzione verso la gotica, con il signum tabellionis, altrettanto caratteristico, ad aprire la sottoscrizione: «Ego Ranerius de Insula Pulvesi auctoritate imperiali iudex et notarius…». Tre anni dopo, il 6 settembre 1215, al termine del testo di una sentenza in una causa di decime, la formula era mutata: «Ego Rainerius Perusinus de Porta Nova Bononie imperiali auctoritate iudex et notarius…». A questa formula si attenne in tutti gli altri documenti redatti da notaio o nei quali fu parte o testimone. Sottolineare il legame con un quartiere della città fu probabilmente la manifestazione dell’acquisita cittadinanza bolognese, stato consono a incarichi ufficiali, testimoniati pochi anni dopo. Il quartiere di Porta Nova, inoltre, fu sempre quello di sua residenza; qui, in un edificio di proprietà dei signori di Monteveglio, erano le sue scuole, come attesta lo stesso Ranieri il 12 maggio 1221; e per abitanti ed enti religiosi del quartiere – la chiesa di S. Tecla, il monastero di S. Salvatore – scrisse in questi anni in qualità di notaio.

Perugia, Biblioteca Comunale Augusta. Ms. Membr. fondo antico (1343-1354), Matricola dei notai di Perugia. Processione dei notai.

Poco si conosce della sua vita privata. Aveva acquisito in proprietà e in enfiteusi diversi appezzamenti di terra con vigna, bosco e arativo sul colle del Remondato (ora di S. Michele in Bosco), ma non pare abbia incrementato tale investimento. Il 5 aprile 1227, a integrare la cessione al monastero di S. Michele in Bosco di una parte di detta terra, la moglie Anastasia rinunciò alla garanzia per dote sui beni ceduti. È il solo cenno di questo legame familiare, né è stato possibile individuare la famiglia d’origine della moglie.

Più ampie sono le notizie della sua attività professionale, specie quella di docente. Tra il 1214 e il 1216 completò il Liber formularius, un testo per la scuola e la pratica notarile molto diverso da quelli all’epoca in uso. Nel proemio Ranieri dichiara il suo debito verso gli autori precedenti, consapevole peraltro di aver composto un’opera sostanzialmente nuova.

Nuova nella struttura: le formule, prima come imbreviatura quindi del relativo instrumento, sono divise in due sole parti, sulla base della distinzione del diritto di proprietà canonizzata dai glossatori. La prima parte raccoglie le formule relative agli atti che modificavano la titolarità del dominio diretto: vendita, donazione, disposizioni di ultima volontà. La seconda parte le formule attinenti al dominio utile e al possesso: enfiteusi, locazioni, contratti d’opera e di società, mutuo, pegno e così via. Nuova nella presenza di un breve trattato teorico, diviso anch’esso in due parti. La prima parte, propedeutica, segue il proemio e definisce, in stretta sintesi e con riferimento al diritto romano, i parametri di una corretta attività notarile. La seconda, in chiusura, raccoglie nozioni e formule relative alla nomina dei notai e alla loro potestà di certificazione. Nuova, infine, la presenza di una traccia essenziale del processo civile, tramite le formule degli atti la cui stesura era compito dei notai.

Il Liber formularius incontrò il favore della scuola. Lo attestano i codici ancora oggi presenti, almeno sei, tre dei quali utilizzati da Augusto Gaudenzi, che nel 1890 ne ha curato la pubblicazione con il titolo, non del tutto appropriato, di Ars notaria. Lo attesta la ripresa quasi integrale di molte parti del Liber in opere di altri maestri di notariato, quali Bencivenne e l’anonimo maestro di Arezzo.

Il rilievo assunto come docente di notariato fu probabilmente il motivo che indusse il Comune di Bologna a coinvolgere Ranieri in incarichi ufficiali. Allo stato della ricerca è solo ipotetica la sua presenza nel gruppo di sapientes che nel 1219 elaborò il provvedimento che dette vita al Liber notariorum, l’elenco dei notai legittimati ad agire in città e nel contado (Ferrara, 1977, pp. 53 s.); nel quale Liber, tra i notai attivi da meno di dieci anni, fu registrato anche «magister Rainerius Perrusinus notarius», in possesso del privilegio di notariato dell’imperatore Ottone (IV). Certo è invece che nello stesso anno, o subito dopo, Ranieri fu chiamato a coordinare il lavoro di nove notai incaricati di trascrivere in un cartulario, il Registro grosso, dai documenti raccolti nell’archivio del Comune, quelli di preminente interesse, specie per la gestione dei beni pubblici. Ranieri curò di persona la copia dei primi documenti, dal 1116 al 1203, modificando per l’occasione la sua usuale scrittura accentuandone i moduli più tipicamente cancellereschi. I criteri da lui adottati – la copia integrale fino ai signa tabellionis, l’ordinamento strettamente cronologico, gli specchi di scrittura – determinarono la struttura unitaria dell’opera, suggellata dalla complessiva cartulazione per quaderni di mano dello stesso Ranieri. Questi scrisse anche l’ultimo documento, la divisione del contado di Bologna fra i quartieri cittadini, deliberata il 30 novembre 1223, data molto prossima, pare, a quella di conclusione dell’opera.

La redazione del Registro grosso mise Ranieri a contatto con la documentazione prodotta da e per il Comune di Bologna in oltre un secolo di vita. Ne venne influenzata la sua attività di docente, sollecitata dai numerosi allievi delle scuole di preparazione al notariato, chiamati in numero crescente a ricoprire incarichi nella struttura amministrativa e soprattutto giudiziaria del Comune.

Già dal 1221 per la registrazione nel Liber notariorum non bastò più il privilegio di notariato, che richiedeva comunque sicure basi professionali, ma occorreva la verifica dell’effettiva preparazione tramite l’esame di un giudice della curia del podestà. E in diversi casi, per entrambi i requisiti – privilegio ed esame – restò traccia dell’attività di Ranieri. Nel 1230 affiancò il giudice incaricato dell’esame di notariato. Tra il 1225 e il 1237 scrisse gli atti di concessione di oltre cinquanta privilegi di notariato da parte dei conti di Panico; e i nuovi notai erano, in gran parte, suoi allievi.

Dal 1237, mentre il possesso del privilegio di notariato veniva sempre meno citato nel Liber notariorum, si faceva più incisiva la verifica della preparazione dei candidati. In questo contesto nasceva nello Studio l’ars notariae, «formula programmatica che intendeva raggiungere la tecnicizzazione (ars) della antica pratica tabellionale applicando ad essa i metodi e le conquiste della scienza prima, che per lo Studio di Bologna era scienza giuridica» (Orlandelli, 1965, p. 2). E Ars notariae è appunto il titolo della seconda opera di Ranieri, composta in gran parte tra il 1226 e il 1233; opera non del tutto rifinita, almeno nei codici rimasti. È ancora una raccolta di formule, articolata in testo e glosse dello stesso Ranieri, ma con una struttura che sviluppa al massimo i criteri innovativi del Liber formularius.

Essa è divisa in tre parti: contratti, atti giudiziari, disposizioni di ultima volontà, con riferimento, spiega lo stesso Ranieri, all’agire dell’uomo, cui soccorre l’attività del notaio quando acquisisce un diritto (paciscendo), lo difende in giudizio (litigando), lo trasmette per successione (disponendo). La prima parte ha un’ampia premessa teorica in cui Ranieri fissa 31 tipi di patti cui riferire tutti i contratti inter vivos e ne definisce i requisiti per persone e per cose. Seguono le formule dei contratti nella espressione del solo instrumento, specchio della sostanziale unificazione del valore di tutte le scritture notarili: una serie di esempi che in qualche caso, come nei patti dotali, è però meno completa di quella del Liber formularius. Nella seconda parte dedicata al processo, Ranieri sviluppa in un vero trattato la traccia del Liber formularius. È l’innovazione più rilevante e anche il riconoscimento del ruolo di ausiliario delle parti in causa, sostenuto sempre più spesso dal notaio, accanto all’avvocato, specie per gli aspetti strettamente procedurali. Questa parte è divisa in due sezioni, un formulario di libelli e un ordo iudiciarius. Il formulario ha in premessa la definizione del processo, di coloro che vi intervengono, dei loro requisiti e delle posizioni assunte. Segue una lunga raccolta di libelli, testi simili, in realtà, alle note di ricezione delle querele orali, compito sempre svolto dai notai. La raccolta è esemplata, avverte lo stesso Ranieri, sul De ordine iudiciario di Roffredo da Benevento, appena pubblicato.

La seconda sezione si apre con il quadro in 22 capitoli del processo civile, successivamente illustrati con frequenti riferimenti alla procedura in uso a Bologna. Chiaro ed essenziale nell’intero testo, Ranieri si sofferma ovviamente sulle fasi in cui prevalente era la funzione dei notai e delle loro scritture. Il colore locale è ancora più evidente nell’ultima rubrica, dedicata al processo penale. La puntuale descrizione, in chiusura, della procedura di bando si conclude ricordando la presenza nella curia di Bologna di numerosi uffici, ordinari e straordinari, e con la promessa di Ranieri di dedicare loro un successivo lavoro. La terza parte ripete il modulo espositivo delle prime due: una densa premessa sul diritto successorio, il quadro delle disposizioni e quindi le formule, integrate da note a guidare la scelta del notaio. La rubrica finale annuncia una sorta di documento generale, ma il contenuto è soprattutto una breve guida per i notai incaricati di registrare le delibere dei consigli comunali, formule che avevano già richiamato l’attenzione dei maestri di ars dictandi: un’ulteriore manifestazione dell’intento di Ranieri di estendere l’ambito dell’ars notariae a tutto il campo delle scritture notarili.

Questa seconda opera di Ranieri, a lungo non conosciuta dagli storici del diritto, è stata pubblicata da Ludwig Wahrmund nel 1917, sulla base essenzialmente di due codici parigini. L’edizione ha reso evidente il ruolo fondamentale sostenuto da Ranieri nell’evoluzione di questo insegnamento e dello stesso notariato. L’Ars notariae, con la sua struttura articolata in contratti, atti giudiziari e di ultima volontà e con lo stringente raccordo tra teoria e pratica, si impose nella scuola e condizionò la normativa comunale. Le opere dei successivi maestri di notariato nello Studio bolognese, Salatiele, Rolandino, Zaccaria di Martino, presero avvio dalla sua impostazione: recepita, interpretata, modificata, ma sempre base delle loro argomentazioni. La tripartizione dell’Ars notariae di Ranieri fu accolta dal Comune: nel 1251 uno statuto stabilì che l’esame di notariato doveva accertare la conoscenza delle formule di contratti, atti giudiziari e ultime volontà.

Nella scuola, volta alla preparazione a questo esame, Ranieri continuò la sua attività di docente. Nel 1249 il Liber notariorum segnalò per la prima volta accanto ai candidati il nome del magister representator che garantiva della loro preparazione. E la formula usata, «magister R.», indica, a mio avviso, proprio la presenza di Ranieri.

Proseguì anche la sua attività di notaio, testimoniata da atti per i monasteri di S. Salvatore e S. Michele in Bosco e per i membri delle famiglie Denari, Lambertini, de Armanno, Tebaldi. L’ultimo documento noto, scritto di sua mano, è datato 31 dicembre 1253. Non fu l’ultimo impegno di Ranieri come notaio, poiché si sa che il 22 luglio 1254 rogò una quietanza per conferimento dotale, rimasta allo stato di imbreviatura.

Morì probabilmente nel 1255. Il 27 dicembre di tale anno le sue imbreviature risultano affidate al notaio Rainerio Zagni, citato come suo nipote.

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Fonti e bibliografia:

 

Archivio di Stato di Bologna, Comune – Governo, Atti enti religiosi, b. 1, n.11; S. Francesco, b. 3/4135, n. 48; b. 5/4137, n. 10; b. 7/4139, nn. 10, 12; b. 335/5078, nn. 4, 5; S. Michele in Bosco, b. 2/2174, nn. 4, 11, 54; b. 3/2175, n. 12; S. Salvatore, b. 16/2463, n. 1; b. 52/2499, nn. 8, 11 bis; archivio Lambertini, b. 1, n. 9; archivio Montanari Bianchini, b. 223, n. 3; Rainerii de Perusio, Ars Notaria, a cura di A. Gaudenzi, Bologna 1890; Die Ars Notariae des Rainerius Perusinus, a cura di L. Wahrmund, in Quellen zur Geschichte des römisch-kanonischen Prozesses im Mittelalter, III, 2, Innsbruck 1917 (rist. Aalen 1962)Liber sive matricula notariorum comunis Bononie (1219-1299), a cura di R. Ferrara – V. Valentini, Roma 1980, pp. 8, 45-87, 119; Commissioni notarili. Registro (1235-1289), a cura di G. Tamba, in Studio bolognese e formazione del notariato, Milano 1992, pp. 383-446 (in partic. pp. 212, 237). Il notariato nella civiltà italiana. Biografie notarili dall’VIII al XX secolo, a cura del Consiglio nazionale del notariato, Milano 1961, pp. 475-477; G. Orlandelli, La scrittura da cartulario di R. da Perugia e la tradizione tabellionale bolognese, in Id., Il sindacato del podestà, Bologna 1963, pp. 131-168; Id., Genesi dell’“ars notariae” nel secolo XIII, StudMed 3 (1965), pp. 329-366; R. Ferrara, «Licentia exercendi» ed esame di notariato a Bologna nel secolo XIII, in Notariato medievale bolognese, II, Atti di un convegno (febbraio 1976), Roma 1977, pp. 47-120; G. Orlandelli, Documento e formulari bolognesi da Irnerio alla “Collectium contractuum” di Rolandino, in Actas del VII Congreso internacional de Diplomatica, II, Valencia 1989, pp. 1009-1036; R. Ferrara, La teorica delle “Publicationes” da R. da Perugia (1214) a Rolandino Passeggeri (1256)ibid., pp. 1053-1090; G. Tamba, Teoria e pratica della «commissione notarile» a Bologna nell’età comunale, Bologna 1991.

Il Regno dei Goti in Italia

di C. Azzara, L’Italia dei barbari, Bologna 2002, pp. 43-91.

 

La regalità di Teoderico

Il regno instaurato in Italia dal goto Teoderico dopo la sua vittoria su Odoacre rappresentò un’esperienza complessa, costituzionalmente inedita per la penisola (ma non per l’Occidente già romano nel suo insieme), in cui gli aspetti innovativi si innestarono su moduli tradizionali; l’esito fu contraddistinto da un elevato tasso di sperimentazione politica, che rende tale realtà difficilmente inquadrabile secondo schemi preordinati e facili classificazioni.

Mappa dell'Europa occidentale nel 534.
Mappa dell’Europa occidentale nel 534.

Nel considerare i fondamenti politici e istituzionali, le forme d’espressione e di rappresentazione, nonché la stessa formula teorica del regno goto in Italia, la moderna critica ha di regola fatto ricorso, per indicare l’aspetto connotante del potere di Teoderico e dei suoi successori, a termini e concetti quali «ambiguità», «duplicità», «ambivalenza», e altri afferenti ai medesimi campi semantici. Questi corrispondono bene a una vicenda contraddistinta da una spiccata eterogeneità di elementi, in relazione a un potere monarchico che affondava le proprie radici nella tradizione di una stirpe barbarica e nella legittimazione da essa derivante, che si espresse però in un territorio già appartenuto all’Impero romano d’Occidente (anzi, nella culla di questo), su gruppi etnici diversi e mantenuti giustapposti e distinti, in un rapporto mai pienamente chiarito con l’Impero di Costantinopoli (di subordinazione ideale, ma di fatto anche di emulazione) e facendo infine ricorso, per definire se stesso, a stilemi «ideologici» di natura differente. Prospettive variegate circa la fisionomia della regalità ostrogota in Italia sono del resto riscontrabili già nelle testimonianze più antiche, basti pensare alle interpretazioni offerte dai principali autori coevi, dall’Anonimo Valesiano a Cassiodoro, da Ennodio a Giordane. Una sostanziale indeterminatezza contraddistingue la regalità teodericiana sin dal momento stesso dell’ingresso dell’Amalo nella penisola e dal primo consolidarsi del suo potere sulla stessa. Quando venne inviato da Zenone a rovesciare il regime di Odoacre, Teoderico univa alla sovranità di carattere militare, di stirpe, ereditata dal padre, i titoli di patricius e di magister militum praesentialis, che gli erano stati concessi dall’imperatore con il consolato e con la cittadinanza romana. È da rammentare che il Goto aveva soggiornato a lungo a Costantinopoli da giovane, potendo così acquisire familiarità, oltre che con la corte imperiale, con le diverse espressioni della civiltà romana, che del resto i Goti da tempo frequentavano in misura superiore ad altre stirpi barbariche. Dopo la vittoria su Odoacre nel 493, come già ricordato, Teoderico si era fatto proclamare rex a Ravenna dal suo exercitus, che nella prospettiva dei Romani era un esercito di foederati. Per governare oltre agli Ostrogoti immigrati con lui anche i Romani, largamente maggioritari per numero nel suo nuovo regno, l’Amalo doveva tuttavia ottenere la legittimazione imperiale, per cui richiese a Costantinopoli la vestis regia, che ricevette nel 498. Una simile legittimazione figurava necessaria in quanto il regno goto era pur sempre, de iure, una pars dell’Impero, unico e indivisibile, sulla quale il monarca barbaro era chiamato a governare per delega imperiale, secondo un modello condiviso da diversi regni sorti in Occidente dopo il 476.

Assedio di Verona. Bassorilievo tratto dall'Arco di Costantino (312 ca.). Fra l'epoca costantiniana e quella di Odoacre nelle armate imperiali il numero dei coscritti barbari era aumentato notevolmente.
Assedio di Verona.
Bassorilievo tratto dall’Arco di Costantino (312 ca.). Fra l’epoca costantiniana e quella di Odoacre nelle armate imperiali il numero dei coscritti barbari era aumentato notevolmente.

Il titolo che consentì a Teoderico di muovere legittimamente contro Odoacre e la stessa valenza della carica di rex conseguita nel 493 sono oggetto delle congetture più disparate, senza che sia possibile giungere ad una soluzione certa. In riferimento al primo punto, ad esempio, si è potuto ipotizzare la creazione ad hoc di un onore di magister militum per Italiam, di cui peraltro non vi è traccia nelle fonti, sia immaginare uno specifico valore, modellato su misura per la circostanza e per la persona, della dignità di patricius, con il senso di «rappresentante dell’imperatore». La proclamazione a rex, d’altro canto, è stata interpretata ora come un «colpo di Stato», segno della volontà di autonomia dall’Impero, ora, in modo più sfumato, come una «mossa ambigua», mirata forse a sollecitare un pronunciamento chiaro di Costantinopoli dopo l’uscita di scena di Odoacre. Si è anche pensato che a Ravenna Teoderico fosse stato proclamato dai suoi thiudans, titolo goto di forte valenza costituzionale, traducibile con il latino rex, mentre in precedenza egli sarebbe stato soltanto un reiks, vale a dire un notabile, un grande della sua stirpe: l’Anonimo Valesiano rende infatti reiks con dux, che nel lessico tardoromano individuava semplicemente un capo militare. Se resta insolubile il problema dell’esatta calibratura di titoli il cui significato preciso continua a sfuggire, non si può non notare come il fatto stesso di aver condotto i Goti alla vittoria militare sul nemico, al termine di una grande impresa che aveva coinvolto l’intera gens, dandole una nuova patria, forniva una giustificazione al governo in Italia di Teoderico, anche se ciò non presupponeva affatto una contrapposizione nei confronti dell’Impero, una rivendicazione di indipendenza dallo stesso; al contrario, tutto ciò contribuiva, per la sua parte, a ribadire una forma di simbolica correlazione subordinata del re barbaro vittorioso all’imperator invictus, l’augusto sempre invitto e invincibile, come di un figlio rispetto al proprio padre. Il rapporto veniva insomma espresso, nel quadro di una gerarchia ideale, come costituito al contempo da dipendenza e da compartecipazione a un medesimo sistema di valori e di prerogative.

Leiden, Universitaire Bibliotheken. Ms. vul. 46, Gesta Theodorici Regis (1177), f. 1v. Teoderico il Grande.
Leiden, Universitaire Bibliotheken. Ms. vul. 46, Gesta Theodorici Regis (1177), f. 1v. Teoderico il Grande.

 

Nella formula adottata dal regno teodericiano rientrava incontestata la subordinazione dell’imperatore, al quale era riconosciuta senza incertezze una preminenza, quantomeno onorifica. Contestualmente trovava peraltro spazio un malcelato sforzo di emulazione nei confronti della stessa carica imperiale, in virtù della pretesa di un rapporto speciale, dal quale discendeva un sentimento di superiorità del re Amalo su tutti gli altri sovrani barbari. Questo appare sintetizzato con efficacia nel testo di una lettera ben nota, databile attorno al 508 e scritta per conto di Teoderico dal suo ministro romano Cassiodoro, con destinatario l’imperatore Anastasio[1]. In essa, il regno dell’ostrogoto era presentato come un’imitazione dell’unico Impero, al cui eccelso esempio dovevano rifarsi indistintamente tutti i regnanti, ma tanto più chi, come Teoderico, era tenuto ad esercitare autorità di governo anche su sudditi romani. Proprio la perfetta rispondenza a un simile modello, favorita dalla compartecipazione a un comune sistema di valori, ereditato dalla tradizione di Roma, giustificava la superiorità del regno teodericiano su quello di tutti gli altri re di stirpe, nella consapevolezza che «regnum nostrum imitatio vestra est, forma boni propositi, unici exemplar imperii: qui quantum vos sequimur, tantum gentes alias anteimus». Insomma, presentandosi come filius del pater imperiale, Teodorico pretendeva di rifletterne la luce, elevandosi di conseguenza su tutti gli altri monarchi. Nell’esercitare in Italia un potere che non si configurava in termini etnici, ma che si estendeva in pari modo sui Goti e sui Romani residenti nella Penisola (e per questo motivo nella titolatura ufficiale si preferì la formula romanizzante di Flavius Theodericus rex a quella di rex Gothorum), l’Amalo, pur senza mai assumerne il titolo, finì per svolgere di fatto funzioni proprie di un imperatore, di un princeps Romanus che rivendicava un rapporto di continuità diretta con gli imperatori romani d’Occidente del passato, considerandosi emulo di costoro. L’interpretazione di Teoderico quale «imperatore senza titolo» risulta corrente nella moderna storiografia e appare suffragata da specifici comportamenti da lui adottati che sono tipici della sovranità romana, carichi di un forte impatto «propagandistico» sul ceto senatorio e sulle masse italiche, dall’allestimento dei giochi nel circo in occasione di un soggiorno nell’Urbe all’ostentata cura dell’edilizia urbana e dei resti monumentali della classicità, fino all’impiego della porpora. Configurata in simili termini, la sovranità di Teoderico presenta un indubbio carattere di complessità, per le molte e diverse componenti che concorrevano alla sua definizione e che appaiono intrecciate tra loro in un modo tale da risultare difficilmente isolabili: sull’originaria connotazione etnica del rex gentis, che fondava il proprio predominio politico sulle armi dei Goti, si erano stratificate, infatti, varie attribuzioni tipiche del principato romano, opportunamente e accuratamente amplificate da un’abile propaganda. Ne risultava un modello della regalità peculiarmente connotato e privo di una definizione costituzionale troppo rigida, segnato – per l’appunto – da un’«ambiguità» alimentata, probabilmente, anche dal desiderio di lasciare in sostanza imprecisato il rapporto con l’imperatore, nei cui riguardi ci si proponeva, al di là del riconoscimento formale di una superiore potestà di quello, come concorrenti di fatto. Ma tale carattere polivalente del potere del re degli Ostrogoti, indeterminato se non addirittura contraddittorio sul piano teorico e costituzionale, deve essere spiegato, piuttosto che con l’ipotesi di una condotta scaltra e «opportunistica», che sembra adagiarsi nello stereotipo romano del barbaro, con l’assoluta singolarità della contingenza storica in cui cadde l’esperienza del Regnum Gothorum in Italia; in un frangente, cioè, in cui fortissimo appare il carattere di sperimentazione di nuove forme di inquadramento politico delle popolazioni occidentali e più intensa la ricerca di diversi assetti istituzionali. A queste realtà senza precedenti risultava difficoltosa l’applicazione di modelli, formule di legittimità e persino di terminologia tradizionali (e lo stesso lessico appare incapace di definire con esattezza i nuovi equilibri, come se si trovasse «in ritardo» sulle loro manifestazioni); ogni formulazione teorica e ogni ordinamento politico del tempo non potevano non tradire un’inevitabile natura empirica, procedendo per approssimazioni e senza necessariamente prefigurare sbocchi bene individuati.

Lo stanziamento dei Goti in Italia e le forme dell’insediamento

Fibula ornitomorfa ostrogota. Oro e cloisonné, V sec. dal Tesoro di Domagnano (Italia settentrionale). British Museum.
Fibula ornitomorfa ostrogota. Oro e cloisonné, V sec. dal Tesoro di Domagnano (Italia settentrionale). British Museum.

Per i Goti l’Italia fu l’ultima tappa di una plurisecolare catena di spostamenti, non facile da ricostruire. Secondo una tradizione raccolta e fissata proprio nell’Italia del VI secolo da Cassiodoro (nel suo lavoro perduto De origine actibusque Getarum) e da Giordane (nell’opera dallo stesso titolo, conservata, che molto trae proprio da Cassiodoro), la remota origine della stirpe dei Goti sarebbe da rintracciarsi nell’isola di Scanzia (in un ambito, cioè, presumibilmente scandinavo). In seguito, in un’epoca imprecisabile, la tribù avrebbe soggiornato sul Baltico, mentre nel I secolo autori romani come Plinio e Tacito individuavano i Goti nella Germania nordorientale, anche se tali fonti sovrappongono e confondono spesso stirpi diverse; in realtà tutti questi differenti stanziamenti restano di fatto indimostrabili, mancando oltretutto sicuri riscontri archeologici. Tra il II e il III secolo i Goti si sarebbero spinti in direzione della steppa pontica, collocandosi sul lato nordoccidentale del Mar Nero; a questa data la loro dominazione si estendeva tra i Carpazi, il Don, la Vistola e il mare d’Azov, avendo come asse centrale la valle inferiore del Dnepr. In un simile bacino essi convivevano con altre, eterogenee, tribù, compresi gli antenati degli Slavi, e subirono una pesantissima influenza culturale da parte dei popoli delle steppe, modificando in modo significativo il proprio costume. I Goti divennero infatti cavalieri seminomadi, dai tratti marcatamente orientali, tanto è vero che gli osservatori greci e romani del tempo erano portati a confonderli con stirpi iraniche, come gli Sciti e gli Avari. È notevole come una stirpe che è stata percepita e presentata dalla cultura moderna, soprattutto ottocentesca e primonovecentesca, come «tipicamente» germanica (e anzi come una sorta di popolo «campione» di presunti valori «germanici») fosse invece ricondotta dagli antichi nel novero delle etnie orientali; ciò ben sottolinea al contempo la fortissima contaminazione culturale – ora riconosciuta dalla storiografia – delle stirpi tardoantiche e altomedievali e, di conseguenza, l’improponibilità delle rigide classificazioni, del tutto convenzionali, cui si è stati per lungo tempo abituati (e dalle quali si fatica ad emanciparsi). Alla famiglia delle gentes germaniche i Goti possono essere ricondotti solo sulla scorta della lingua che essi parlavano e che era di ceppo germanico. A differenza di quanto accade per gli altri idiomi dei barbari, il goto ci è conservato in modo integrale, grazie alla traduzione che in tale lingua venne fatta della Bibbia, per iniziativa del vescovo Ulfila, verso la metà del IV secolo. Al III secolo sembra risalire la bipartizione della gens dei Goti in due gruppi, denominati dapprima Tervingi e Greutingi, e poi Visigoti e Ostrogoti, senza che per questo venisse meno un sentimento di appartenenza comune e l’unità di lingua. L’episodio, riferito da Giordane, viene messo in dubbio, almeno nei termini in cui è riportato, da diversi studiosi, che pensano piuttosto a una razionalizzazione a posteriori, nelle fonti, della differente distribuzione dei Goti all’epoca della migrazione verso Occidente, con quelli che vennero denominati Visigoti, diretti in Gallia e poi in Spagna, e gli Ostrogoti, indirizzati verso l’area balcanica e, infine, in Italia.

Illustrazione ricostruttiva della divisa di un guerriero visigoto (V-VI sec.), di A. Gagelmann.
Illustrazione ricostruttiva della divisa di un guerriero visigoto (V-VI sec.), di A. Gagelmann.

L’exercitus ostrogoto che Teoderico guidò in Italia doveva essere composto da circa venti-venticinquemila guerrieri, per un totale di cento-centoventicinquemila individui (compresi, cioè, coloro che non combattevano: le donne, i minori), in massima parte (ma non in via esclusiva) di stirpe gota. Nell’insieme si trattava di una quantità relativamente modesta e di certo largamente minoritaria rispetto alla copia dei Romani, con cui i Goti si trovarono a convivere, anche se l’impatto dei nuovi immigrati deve essere calcolato in proporzione non tanto alla massa degli abitanti della penisola, quanto, piuttosto, al ceto dei possessores, cioè al ceto dirigente romano, al quale essi si affiancarono per rango e funzioni. Gli Ostrogoti si insediarono sul territorio italico in ragione del criterio dell’hospitalitas, vale a dire dell’acquartieramento militare, tradizionalmente applicato dall’Impero ai propri foederati barbari: per il servizio prestato, essi avevano diritto a un terzo delle terre della penisola, secondo una distribuzione del cui svolgimento fu incaricato il prefetto del pretorio Liberio, che operò con l’aiuto di una rete di delegatores, i quali, eseguiti i calcoli e le opportune ripartizioni, rilasciavano ai beneficiati regolari titoli di possesso, denominati pittacia. Nei casi in cui l’insediamento dei Goti sulle terre loro assegnate secondo l’istituto della tertia non aveva luogo, i proprietari romani pagavano al destinatario goto un fitto per quel terzo reso comunque disponibile, anche se non occupato effettivamente. Secondo una chiave di lettura che si è fatta strada in tempi relativamente recenti, soprattutto in seguito agli studi di Walter Goffart, e che è tuttora fonte di discussione, nel caso dell’acquartieramento in Italia dell’exercitus dell’ostrogoto Teoderico non si sarebbe avuta una reale cessione di un terzo delle terre ai barbari federati, ma piuttosto la concessione a costoro di una quota dell’imposta fondiaria, già versata dai possessores allo Stato romano, corrispondente al terzo teoricamente alienabile per l’hospitalitas. Ciò spiegherebbe, secondo i sostenitori di tale interpretazione, l’assenza nelle fonti del tempo di qualsivoglia lamentela, da parte degli espropriati, che non avrebbero, dunque, dovuto subire una perdita di proprietà, né un aggravio fiscale aggiuntivo, ma che avrebbero semplicemente corrisposto a un diverso percettore il terzo di un’imposta che essi pagavano in ogni caso. La soluzione sarebbe stata vantaggiosa pure per i Goti, i quali avrebbero beneficiato di un provento sicuro senza accollarsi l’onere del versamento dell’imposta fondiaria, cui sarebbero stati tenuti se fossero diventati possessori effettivi di un terzo delle terre italiane. In assenza di argomenti decisivi, che permettano di sciogliere il nodo circa l’autentica configurazione della tertia concessa agli Ostrogoti in Italia, le diverse ipotesi rimangono aperte al vaglio critico; resta un punto fermo che l’insediamento goto nella penisola non si svolse affatto in forme violente e arbitrarie, ma seguì i consolidati e ordinari meccanismi dell’hospitalitas, da tempo familiari sia al mondo romano sia alle stirpi barbare.

Un capo militare goto. Ricostruzione di A. McBride.
Un capo militare goto. Ricostruzione di A. McBride.

Il regno di Teoderico, centrato sull’Italia con la Sicilia, comprendeva pure le due province retiche e quelle noriche, la Pannonia Savia e la Dalmazia; dopo il 505 il monarca goto acquisì il controllo dell’intera Pannonia e, dal 508, cadde in suo potere anche la Provenza. Un’accorta politica diplomatica gli permise inoltre di esercitare un sufficiente grado di autorità – almeno a tratti – perfino su regioni esterne al suo regno, dal Danubio fino ai Pirenei, con particolare riguardo per il regno dei Visigoti, sulla cui massima carica giunse a detenere per un certo periodo un forte ascendente. Lo stanziamento effettivo degli Ostrogoti non si verificò, peraltro, in modo ovunque omogeneo; nella stessa penisola italiana rimasero sostanzialmente estranee alla presenza gota le regioni meridionali, salvo alcuni presidi circoscritti. La testimonianza che proviene dalle fonti letterarie non indica alcun numero apprezzabile di Goti in province quali l’Apulia o la Calabria e, in genere, non è possibile riscontrare l’esistenza di loro insediamenti di una qualche entità a sud della linea Roma-Pescara, se si fa eccezione solo per alcune guarnigioni (non particolarmente nutrite) collocate a tutela di alcuni centri di primario rilievo strategico: Cuma, Napoli, Benevento, Acerenza, Rossano, Siracusa, Palermo. Le città meridionali sede di guarnigione, come quelle elencate, erano dotate di strutture difensive, mentre le altre non avevano fortificazioni. Contingenti di Goti maggiormente numerosi, rispetto al sud, si trovavano nell’Italia centrale, specie in ambito appenninico, nelle odierne regioni dell’Umbria e delle Marche, ma anche più su, lungo la fascia costiera adriatica di particolare rilievo strategico, ma anche di insediamenti estesi. Importante risulta esser stata la presenza gota ad Osimo, che fungeva da porta d’accesso a Ravenna; tale ruolo appare esaltato in chiave strategica, tra l’altro, nelle vicende della guerra tra l’Impero e gli Ostrogoti, scoppiata nel 535 e che, dopo diciotto anni di combattimenti, pose fine al regno di questi ultimi. Un nucleo ostrogoto era sicuramente presente a Rimini e altri sono riscontrabili soprattutto nell’area compresa tra Ascoli Piceno e Ancona. Le zone di massimo popolamento degli Ostrogoti erano però quelle dell’Italia settentrionale, nella pianura del Po e lungo la fascia prealpina compresa tra Brescia e Belluno. L’odierna Lombardia ospitava centri di assoluto rilievo, come Milano e Ticinum-Pavia, nella quale risiedeva il monarca ed era custodita una parte del tesoro regio. Lo stesso re Teoderico aveva ubicato la propria residenza, oltre che a Pavia, a Ravenna, in passato sede imperiale, mentre un’altra città alla quale era legata la sua figura fu Verona (dove egli aveva riportato la prima e determinante vittoria su Odoacre, come sottolineato dal panegirista Ennodio[2]), al punto che nelle leggende fiorite intorno alla sua memoria il re goto divenne – come si dirà – Diderik von Bern, cioè «Teoderico di Verona». Le tre città regie (Pavia, Ravenna e Verona) erano accuratamente collegate fra loro da un sistema viario che faceva perno sul nodo di Ostiglia; per il rifornimento della mensa del re a Ravenna continuava a funzionare anche un vecchio itinerario via mare, che portava le derrate dall’Istria, dapprima lungo la costa altoadriatica e quindi attraverso le lagune che si susseguivano tra Altino e Ravenna.

Fibula ostrogota. Bronzo, VI sec. Cleveland Museum of Art
Fibula ostrogota. Bronzo, VI sec. Cleveland Museum of Art

In generale i Goti privilegiarono città già significative in età romano-imperiale, con minimi aggiustamenti, che potevano dipendere da fenomeni di riassetto degli equilibri territoriali complessivi. Per esempio nel vitale scacchiere nordorientale crebbe l’importanza di un centro come Treviso, non così rilevante in epoca anteriore, che invece acquistò nel regno goto una centralità legata alla sua collocazione di peculiare interesse militare, nel cuore della Venetia e sulla direttrice che conduceva verso il Friuli, e quindi verso il cruciale confine orientale. Treviso (come anche Cividale, Aquileia, Concordia, Trento, Tortona, Pavia, Ravenna) ospitò un horreum, cioè un granaio pubblico, al quale si ricorse tra l’altro per soccorrere le popolazioni colpite dalla carestia negli anni 535-536. La presenza in una città di magazzini pubblici implicava come necessaria conseguenza la dislocazione di guarnigioni e l’esistenza di opere fortificate per la protezione degli stessi, incrementando in tal modo la consistenza delle infrastrutture e della densità demografica del medesimo centro. La continuità sostanziale del sistema produttivo e della rete stradale della tarda romanità non richiese alcuna ricollocazione dei centri urbani di epoca gota: le città che primeggiavano nel basso Impero continuarono dunque ad eccellere (a cominciare da Ravenna), mentre fenomeni di parziale declino – peraltro sempre difficili da apprezzare compiutamente – che sono stati attribuiti al regno goto, sembrano doversi intendere, invece, come avviati in epoca anteriore. Anche sotto il profilo strategico-militare, del resto, i Goti non fecero certo registrare alcuna trasformazione di sostanza, perpetuando il generale orientamento verso nord, con le sue conseguenze sulla trama urbana, che era già in vigore da tempo. Non si deve dimenticare, inoltre, che nel meridione la presenza gota fu scarsissima, e che quindi non ebbe modo di incidere sui vecchi equilibri. La testimonianza delle fonti scritte, in primo luogo (ma non esclusivamente) Cassiodoro, insiste sugli interventi edificatori che Teoderico avrebbe compiuto nelle città, a cominciare da quelle in cui risiedeva, per restaurare gli antichi edifici in rovina, consolidare le difese, procedere a nuove costruzioni. Gli esempi al riguardo sono molteplici. A Ravenna, vengono attribuiti a Teoderico, tra gli altri interventi, l’erezione di una cappella palatina, il restauro della basilica Herculis, il ripristino dell’acquedotto, che alimentava anche i bagni pubblici. A Verona, oltre al potenziamento delle strutture difensive e al ripristino, anche qui, dell’acquedotto, è segnalata la costruzione di un palazzo collegato alle mura da un lungo portico e di nuovi impianti termali. Con una lettera poi raccolta nelle Variae[3], il re incaricò l’architetto Aloiosus di restaurare l’intero centro termale di Abano, splendido in epoca romano-imperiale e al tempo presente ridotto in uno stato di deplorevole abbandono, con palazzi vetusti e trascurati, sterpaglie che invadevano strade e piazze, gli impianti delle terme inutilizzabili per la prolungata carenza di manutenzione.

Maestro di S. Apollinare Nuovo. Mosaico raffigurante il Palatium di Teoderico il Grande. 526 ca. Cappella di S. Apollinare Nuovo, Ravenna.
Maestro di S. Apollinare Nuovo. Mosaico raffigurante il Palatium di Teoderico il Grande. 526 ca. Cappella di S. Apollinare Nuovo, Ravenna.

L’attività edilizia del re riguardava principalmente edifici pubblici, civili ed ecclesiastici, concentrati nelle città più importanti, oltre alle strutture difensive, urbane e non; occasionalmente sono testimoniate pure iniziative riguardanti costruzioni private, come quella di Matasunta e del suo sposo Vitige, che, nel 536, fecero innalzare a Ravenna una residenza in cui abitare. Alla luce delle attuali conoscenze, rimane assai difficile stabilire la portata reale degli interventi edificatori attribuiti a Teoderico. Pur nella difformità delle posizioni critiche, è stato ampiamente e convincentemente fatto notare come le fonti scritte siano condizionate, in merito, da palesi intenti propagandistici, che sollevano dubbi sull’autenticità delle loro informazioni. L’insistenza di autori come Cassiodoro, Ennodio, lo stesso Anonimo Valesiano, sullo zelo edilizio di Teoderico (Cassiodoro giungeva a dire che con il re goto si erano erette città, castelli, palazzi che superavano per bellezza quelli del passato), intendeva far rientrare la figura del monarca goto nel modello ideale del princeps romano, del quale l’evergetismo costituiva uno dei tratti salienti; in tale prospettiva, nel costruire e nel restaurare, Teodorico si uniformava alla condotta degli imperatori e dimostrava ai Romani il proprio rispetto per il patrimonio di monumenti che egli aveva ereditato e di cui voleva essere garante. Insomma le iniziative dichiarate da simili testimonianze sembrano rispondere più a intenti di ostentazione di un ruolo che a realizzazioni effettive, anche se bisogna riscontrare ogni singola attestazione con la controprova archeologica, laddove disponibile. L’identificazione del settentrione quale luogo privilegiato dell’insediamento ostrogoto in Italia trova conferma nelle testimonianze letterarie, come per il passo di Agazia di Mirina che, nel riferire della conclusione della guerra tra i Goti e l’Impero (535-553), narra il rientro alle proprie basi dei Goti sopravvissuti alla sconfitta finale, incassata dal loro ultimo re Teia ai monti Lattari, precisando come «quelli che prima vivevano al di qua del Po fecero ritorno in Tuscia e Liguria […] mentre quelli da oltre il Po attraversarono il fiume e si dispersero verso la Venetia e verso i centri e le città di quella regione, dove avevano vissuto in precedenza[4]». Proprio alcuni particolari legati allo svolgimento del conflitto ribadiscono la peculiare dislocazione del popolamento goto. Allo scoppio delle ostilità il generale imperiale Belisario decise di sferrare l’attacco da sud, sbarcando in Sicilia e risalendo con facilità, in pochi mesi, il Mezzogiorno continentale fino a Napoli, proprio perché il nemico era tutto concentrato nel settentrione (e presidiava piuttosto il confine nordorientale, aspettandosi un’avanzata da Oriente); quando invece nel 540, dopo i primi cinque anni di combattimenti, si ricercò un accordo di pace (che non resse), venne proposto che agli Ostrogoti fosse lasciata l’Italia transpadana, dove erano ammassati, e all’Impero fosse restituito il resto della penisola.

Ricostruzione dell'Edificio IV (una fornace) del Parco Archeologico Monte Barro (Lc). Illustrazione di A. Monteverdi.
Ricostruzione dell’Edificio IV (una fornace) del Parco Archeologico Monte Barro (Lc). Illustrazione di A. Monteverdi.

Le indicazioni che provengono dalle testimonianze scritte circa la distribuzione dei Goti in Italia trovano una conferma di massima nei riscontri archeologici, concentrati nelle regioni padane, in Romagna, nelle Marche, mentre risultano pressoché assenti nel Mezzogiorno continentale e in Sicilia, lungo la fascia tirrenica e anche nel nord-ovest. Il carattere probatorio di tali incroci di documentazione deve pur sempre tener conto della disorganicità della ricerca archeologica sul territorio; tuttavia, è possibile ricostruire una mappa degli insediamenti ostrogoti sufficientemente corretta. Il motivo di una diffusione tanto parziale della gens Gothorum sul suolo della penisola è senz’altro da individuarsi nel numero esiguo dei suoi componenti e quindi nell’ineludibile necessità per costoro di concentrarsi nelle zone di maggior rilievo strategico, piuttosto che rimanere inutilmente dispersi su aree più vaste (che sarebbero rimaste incontrollabili). Per questo si preferì ridurre al minimo la propria presenza nel centro-sud, per coagularsi piuttosto nella pianura Padana e a ridosso della catena alpina, la quale costituiva il limes rispetto alle stirpi che potevano a loro volta far irruzione in Italia, forse con un orientamento privilegiato in direzione nord-est (che potrebbe spiegare il più intenso popolamento della dorsale adriatica rispetto a quella tirrenica), cioè verso quel valico orientale da cui i Goti stessi erano entrati e che da secoli ormai costituiva il corridoio più favorevole per quanti volevano penetrare nella penisola. Da notare, peraltro, che il confine nordorientale fu consolidato con l’acquisizione del successivo controllo della Dalmazia e della Pannonia e che, da quel momento in poi, l’attenzione sembrò spostarsi piuttosto sui settori centrale e occidentale, dove si doveva far fronte alla minaccia rappresentata da stirpi come quelle dei Burgundi, degli Alamanni e, in particolare, dei Franchi. Buona era la presenza gota anche nella fascia appenninica, a controllo delle vie verso il Meridione e del canale di collegamento fra Ravenna e Roma. La salvaguardia del confine alpino rappresentò dunque uno dei principali motivi di polarizzazione della presenza gota nella penisola italiana e ricalcò, nell’opzione strategica generale che postulava, il modello difensivo romano, tutto orientato a nord. Nell’area alpina gli Ostrogoti ereditarono l’impianto difensivo fortificato della romanità, quel Tractus Italiae circa Alpes, destinato a durare anche nelle epoche successive. Teoderico sembra aver potenziato specialmente la trama dei castelli che si collocavano al margine meridionale delle zone alpine, insistendo forse – come s’è detto – soprattutto sullo scacchiere centro-occidentale da una certa data in avanti. Per la gran parte di questi castra e castella si disponevano in corrispondenza delle clausurae alpine, vale a dire degli sbarramenti che erano collocati ai valichi per presidiare le vie d’accesso alla penisola. Le clausurae, già presenti nel tardo Impero e testimoniate ancora in età longobarda e oltre, in aggiunta al ruolo di prima barriera contro eventuali attacchi in forze dei nemici, fungevano pure da elemento di controllo alla frontiera per tutti gli stranieri che si recavano nella penisola, allo scopo di verificare – come ben documentano le posteriori leggi longobarde, ma anche una lettera di Cassiodoro[5] – che non si trattasse di fuorilegge, di spie, o magari di servi fuggitivi. Come già nel tardo Impero, molte fortezze servivano a dare ricetto, in caso di attacco nemico, alle popolazioni distribuite sul territorio circostante, che abitavano in insediamenti rurali aperti e indifesi; le incursioni, infatti, erano spesso mirate a razziare esseri umani, da tenere poi o da vendere come schiavi. Così, ad esempio, in anni compresi tra il 507 e il 511, Teoderico esortava i Goti e i Romani residenti in insediamenti sparsi attorno al castello di Verruca (da individuarsi, probabilmente, con la località di Fragsburg, presso Merano) a riparare entro la fortificazione, per prevenire possibili, imminenti, pericoli. L’erezione di simili strutture protettive in età gota potrebbe essere stata iniziativa anche di privati proprietari, desiderosi di tutelare la loro manodopera, secondo un costume diffuso oltralpe (dove la capacità difensiva pubblica era precocemente venuta meno) sin dal IV secolo. In casi come quello documentato da una direttiva di Teoderico rivolta ai possessores di Feltre e a quelli di Trento, verso il 523-526, è testimoniata l’azione congiunta dell’autorità regia e delle comunità locali: nella circostanza, infatti, il monarca sollecitava i proprietari della zona a procedere concordemente alla realizzazione di una nuova civitas, probabilmente in Valsugana, cioè lungo una direttrice allora esposta alla latente minaccia franca.

Castrum tardoantico. Parco Archeologico di Castelseprio e Torba (Va)
Castrum tardoantico. Parco Archeologico di Castelseprio e Torba (Va)

Teodorico valorizzò, pertanto, l’eredità tardoromana, consolidando le clausurae alpine i castelli allo sbocco delle valli e le antiche città fortificate che sorgevano sulle principali vie che dalle Alpi scendevano alla pianura, come Cividale, Trento, Ivrea, Susa. Rimane tuttavia impossibile stabilire concretamente, alla luce delle attuali conoscenze e in assenza di puntuali riscontri archeologici, quale sia stato il reale grado d’intervento dell’Amalo, cui le fonti scritte attribuiscono propagandisticamente non solo il restauro delle vecchie strutture ma anche la costruzione di nuovi centri fortificati. Come per gli interventi nelle città di pianura sopra ricordate, anche in questo caso le realizzazioni concrete venivano deformate da un’enfasi esaltatrice, che si preoccupava di rinviare Teoderico ai modelli degli imperatori romani, costruttori e difensori; il mascheramento retorico della realtà del regno goto sotto il velo di un’idealizzazione romaneggiante si ricava bene dall’encomio di Cassiodoro per la funzione assolta dai castelli voluti da Teoderico, e da un’intera regione come la Raetia, quali barriere contro le «ferae  et agrestissimae gentes» che premevano al di là delle Alpi[6]; quasi si trattasse di una riproposizione dell’antico limes della romanità. L’entità reale degli interventi teodericiani in questo campo non emerge, dunque, con sufficiente chiarezza dalle ricerche archeologiche condotte negli ultimi decenni, e non si offre quindi l’opportunità di verificare con i dati materiali le impressioni provenienti dai testi scritti. Attività di scavo in relazione a centri fortificati sono state svolte (o si vanno svolgendo) soprattutto nella Lombardia settentrionale (Monte Barro), nella zona del Garda (Gaino e Sirmione), in Friuli, nella Val Belluna, in Piemonte (dove sono stati rintracciati degli abitati fortificati, come Montefallonio e S. Stefano Belbo). Per tutti questi esempi resta in genere assai problematica una corretta datazione: le strutture sono di norma anteriori all’età gota e non è agevole stabilire quale rapporto originale tale epoca vi abbia apportato. Anche le città maggiori erano in genere munite, almeno a nord, di opere difensive; sovente mancavano mura vere e proprie, ma vi erano ridotti fortificati, collocati nella parte più alta del centro, che potevano proporsi come nuclei di resistenza estrema nel caso la città bassa fosse invasa. Tali ridotti si trovavano nelle città che risultano sprovviste all’epoca di cinta muraria, da Tortona ad Asti, da Trento ad Adria, da Padova ad Ancona; ma anche in quelle che le mura le avevano, come Verona, Brescia, Bergamo. Probabili rafforzamenti della cinta muraria in epoca gota, confermati dall’evidenza archeologica, avvennero, oltre che nelle citate Verona, Brescia e Bergamo, almeno anche a Como, Bologna, Aquileia e Altino, sebbene la datazione delle strutture resti pur sempre incerta. La ricordata postazione militare sul Monte Barro, all’estremità meridionale del lago Lario, costituisce l’unico insediamento ostrogoto significativo fino ad oggi ritrovato. Scavi condotti tra il 1986 e il 1997 hanno portato alla luce un complesso fortificato esteso per almeno sei ettari, cinto da una muraglia difesa da tre torri, con un grande edificio residenziale e altre strutture di complemento. L’insediamento, datato alla prima metà del secolo VI, sembra potersi interpretare come un impianto teso a fornire rifugio, in caso di emergenza, alle popolazioni della pianura sottostante, piuttosto che come la sede permanente di un contingente militare numeroso. Per il resto i reperti archeologici trovati in Italia e attribuibili ai Goti provengono quasi esclusivamente da tombe o da tesori.

Fibula ostrogota con svastica. Oro e vetro, VI sec.
Fibula ostrogota con svastica. Oro e vetro, VI sec.

Va tenuto presente che risulta difficile classificare cronologicamente ed etnicamente le varie presenze barbariche in Italia sulla base dei corredi funerari. Prima di Odoacre non c’era nella penisola una presenza significativa di barbari, tranne i gruppi che militavano nell’esercito romano; con il vincitore di Romolo «Augustolo» si coagulò un nucleo barbarico composto per lo più da Sciri, Rugi ed Eruli. Non è tuttavia possibile discernere archeologicamente il seguito di Odoacre da coloro che immigrarono con Teoderico, sia per la cronologia assai ravvicinata delle due migrazioni sia per l’indistinguibilità dei rispettivi corredi. È invece naturalmente possibile separare i singoli barbari, sepolti con il corredo, dai Romani, che non seguivano tale uso. In generale fattori quali la scarsa distinguibilità dei manufatti goti rispetto a quelli di altre stirpi presenti in Italia in periodi vicini, la prassi presto adottata dai Goti di non seppellire più con il corredo, confondendosi così con i Romani, la difficoltà di datare con sicurezza gli edifici loro attribuiti, tenendo anche conto del fatto che il peridio goto della storia italiana durò appena sessant’anni, rendono problematica l’esistenza stessa di un’archeologica «gota» per la penisola. I corredi goti antichi sono ascrivibili alla tipologia delle stirpi germano-orientali, alla cui categoria i Goti sono rinviabili. Si trattava di culture pesantemente influenzate dai popoli delle steppe e diverse perciò dalle gentes germaniche occidentali, quali ad esempio i Franchi. Il costume femminile tipico delle stirpi germano-orientali (tra cui dunque i Goti) prevedeva la presenza di una coppia di fibule sulle spalle, per fissare al vestito un mantello, e di una grande fibbia alla cintura. Tale costume, formatosi già intorno alla fine del IV secolo, venne mantenuto in tutte le regioni in cui i Goti si diffusero, tra il V e il VII secolo, e si ritrova anche presso i Visigoti della penisola iberica; esso distingueva le donne gote da quelle delle stirpi occidentali. Le fibule e la fibbia da cintura erano decorate e talora impreziosite da pietre; le donne gote portavano anche orecchini e bracciali. Nel corredo funebre goto mancavano altri oggetti d’uso quotidiano, come pettini o recipienti per cibi e bevande, che erano presenti invece in altre culture barbariche. Il noto tesoro scoperto casualmente nel 1893 a Domagnano, nella Repubblica di San Marino, composto di ventidue pezzi tra oreficeria e suppellettili, e considerato uno dei più importanti ritrovamenti archeologici dell’Italia gota, offre l’esempio di un corredo di lusso, che contraddistingueva un individuo di sesso femminile di alto lignaggio. L’esatta interpretazione del tesoro resta difficoltosa, per il mistero che circonda le vicende del ritrovamento e i successivi itinerari dei reperti, a lungo trattati da antiquari e commercianti poco sensibili al dato scientifico; si ritiene comunque assai probabile la provenienza dei pezzi conservati da un unico ritrovamento isolato, databile al V o forse agli inizi del VI secolo. Gli accessori, tutti in oro, comprendono due tipiche fibule a forma di aquila, una fibula ad ape, due spilli per l’acconciatura (per reggere una cuffia o un velo), una parure composta da un largo pettorale, da una coppia di pendenti e da un anello, più una borsa con applicazioni in oro cloisonné e un astuccio per coltello con la punta in oro. Sia l’impiego della cuffia, o del velo, sia la particolare decorazione dei gioielli rinviano palesemente a usi e stili del mondo mediterraneo, sottolineando un forte grado di acculturazione.

Spagenhelme ostrogoto. Ferro e cuoio, VI secolo, da Ravenna.
Spangenhelm ostrogoto. Ferro e cuoio, VI secolo, da Ravenna.

Il corredo maschile goto tipico, invece, si era fissato sin dal I secolo; piuttosto povero, esso era composto da fibbie da cintura e da fibule (tra cui quelle caratteristiche ad aquila), mentre era privo di armi, che sono invece presenti nelle sepolture di altre stirpi (per l’Italia si pensi ai Longobardi). Le armi gote che sono giunte a noi, come l’elmo «a fasce» (Spangenhelm) di Montepagano (Teramo), o quello di Torricella Peligna (Chieti), non sono state dunque ritrovate in tombe, bensì in tesori. La rarefazione dei siti archeologici dei Goti in Italia, rispetto a quelli presenti al di fuori della penisola e databili fra il I e il IV secolo, è conseguenza del fatto che almeno dalla fine del IV secolo, e poi durante tutto il V, mutarono gli usi funebri della stirpe: solo pochi individui, appartenenti ai ceti più elevati, continuarono a trovare sepoltura in tombe isolate, o raggruppate in piccole necropoli a parte, con l’abito e gli accessori, anche se senza il corredo di stoviglie, pettini e altri utensili. Gli individui meno eminenti vennero invece sepolti separatamente e senza corredo, divenendo perciò indistinguibili per l’archeologo. Questa tendenza appare già ben consolidata al momento dell’arrivo in Italia e fu ulteriormente esasperata dalle disposizioni di Teoderico, databili agli anni 507-511 e interpretabili come la probabile sanzione normativa di meccanismi già da tempo in atto; con tali leggi, si vietava l’uso di qualsiasi corredo funebre, condannandolo quale retaggio di credenze pagane circa l’aldilà (che necessita di oggetti di uso quotidiano, in quanto percepita come prosecuzione della vita terrena). Gli usi funerari goti venivano così definitivamente uniformati a quelli della popolazione romana, come ribadito pure dall’invito di Teoderico a ornare, piuttosto, le sepolture con mausolei, alla moda dei Romani.

Fibula ostrogota a forma di aquila. Oro e gemme, fine V sec. d.C. Germanisches Nationalmuseum, Nürnberg.
Fibula ostrogota a forma di aquila. Oro e gemme, fine V sec. d.C. Germanisches Nationalmuseum, Nürnberg.

Le tombe gote presenti in Italia divennero, pertanto, non identificabili; la loro stessa ubicazione non sembra rispondere ad alcun criterio specifico, trovandosi esse, indifferentemente, in gruppi autonomi o all’interno di un cimitero romano e, in questo secondo caso, un poco discoste dalle altre sepolture o anche frammiste a quelle diverse tombe identificate come gote sono state ritrovate in cimiteri romani suburbani, oltre che in porzioni abbandonate di edifici: per esempio nella grande necropoli paleocristiana extra moenia di porta Vercellina, a Milano, è stata scoperta una sepoltura femminile contenente una fibula ad aquila, quindi interpretata come gota. In assenza di corredi etnici o di dislocazioni particolari, le sepolture di Goti possono essere ricercate attraverso altri indicatori, come le iscrizioni funerarie, che riportino nomi goti: è questo il caso, soprattutto, di sepolture ubicate in rilevanti centri urbani (Milano, Pavia, Ravenna, Roma), contrassegnate da nomi di membri della classe dirigente gota: il comes Tzita, il vir sublimissimus Seda, tale Viliaris, nipote del magister militum Trasaric, o Agate, figlia del comes Gattila. L’onomastica va comunque sfruttata con cautela, in quanto un nome, da solo, non identifica con assoluta certezza l’origine etnica di chi lo portava: con la convivenza di scambi di nomi divennero fenomeno tutt’altro che raro. Allo stesso modo, non si deve escludere in via di principio che gli stessi Romani potessero all’occasione adottare elementi culturali dei barbari, percepiti come distintivi di un ceto dominante; questa considerazione potrebbe adattarsi a ritrovamenti come quello, per restare a un caso citato, di Porta Vercellina, inducendo a chiedersi se la presenza di una sola fibula «etnica» in una tomba, collocata in un contesto romano, debba essere per forza un elemento sufficiente a individuare come gota la sua portatrice, senza porsi per niente il dubbio che si potesse anche trattare di una donna romana, che aveva adottato un modulo ornamentale proprio di un’élite sociale.

Gli ordinamenti del «regnum Gothorum»

Il regno di Teoderico sostanzialmente conservò inalterata l’impalcatura burocratica e amministrativa di tradizione romana, giustapponendo ad essa un organigramma goto, che si riservò in via esclusiva la competenza militare. D’altra parte l’alternativa che si pose agli Ostrogoti all’atto del loro ingresso in Italia era quella tra il venire a patti con il ceto politico romano, l’aristocrazia senatoria, oppure il produrre una rottura traumatica e un’eversione radicale degli ordinamenti vigenti attraverso la distruzione fisica di tale ceto, secondo l’esempio fornito in Africa dai Vandali, autori di persecuzioni su vasta scala dei possessores romani e della Chiesa cattolica, nonché di confische sistematiche dei loro beni (così come nella stessa Italia avrebbero fatto più tardi i Longobardi). I Goti, che si erano portati nella penisola non per iniziativa autonoma ma su delega dell’imperatore, optarono per la soluzione già adottata da Odoacre, vale a dire per una convivenza tra l’elemento barbaro di nuova immigrazione, che si proponeva come detentore esclusivo della forza militare, e i quadri eminenti della società romano-italica, nelle cui mani erano concentrati il potere politico-amministrativo e quello economico. La convivenza tra Romani e Goti si poneva, peraltro, in termini di coesistenza sullo stesso territorio di due organismi mantenuti distinti, nelle funzioni (rispettivamente, civili e militari), nel diritto (ius imperiale per gli uni, consuetudini nazionali per gli altri), nel credo religioso, che costituiva un fondamentale elemento d’identità (cattolici i Romani, ariani i barbari), senza alcuno sforzo apprezzabile di assimilazione e di fusione reciproca. Per questo si è potuto parlare di «dualismo», di «bipolarismo», a proposito dei modi di espressione politico-istituzionale (ma anche sociale e culturale) di tale convivenza tra due popoli che restarono separati, anche se indotti alla collaborazione. Soprattutto in raffronto al caso vandalo in Africa, o alla futura soluzione longobarda in Italia, l’età teodericiana ha quindi potuto essere letta come caratterizzata da una sostanziale continuità con gli assetti antichi, come il tratto finale di un’esperienza anteriore, una sua evoluzione, anziché come l’inizio di un ordine radicalmente nuovo. Tale impressione, condivisibile nel suo complesso, non deve però indurre ad accettare supinamente l’immagine di una continuità indistinta e generalizzata tra l’Italia tardoimperiale e quella teodericiana, che avvenga per pura «inerzia»; sembra opportuno parlare piuttosto di «mutamenti nella continuità», della ricerca cioè di nuovi equilibri e di nuove soluzioni all’interno di un quadro di riferimento tradizionale e di valori consolidati.

La corte del re germanico. Illustrazione di A. McBride
La corte del re germanico. Illustrazione di A. McBride

Il voler inserire il regno di Teoderico nel solco di una continuità sostanziale con la tradizione antica ha generalmente portato a sottolineare tutti gli aspetti di più evidente analogia con l’assetto politico-amministrativo tardoromano. Sono stati così rimarcati, accanto all’ossequio dimostrato dal re ostrogoto per il Senato e al mantenimento della struttura burocratico-amministrativa romana (cui si aggiunsero ufficiali goti con proprie mansioni specifiche), anche la continuità nel campo fiscale e giuridico e persino in settori particolarissimi e connessi con le prerogative di un princeps romano, quali quello dell’impegno per la cura del cursus publicus, dell’impulso dato all’agricoltura, dell’attività edilizia pubblica, direttamente promossa dal monarca. La particolare insistenza con cui le fonti coeve, spesso di carattere apertamente encomiastico (dall’esplicito Panegirico di Ennodio, alle stesse Variae di Cassiodoro), riportano gli interventi di Teoderico in questi ambiti induce a ritenere di trovarsi di fronte, in buona sostanza, a una deliberata ripresa e sottolineatura da parte della stessa corte ostrogota e dei suoi canali di propaganda di connotazioni peculiari della sovranità tardoromana, cioè all’assunzione e alla proiezione a opera del medesimo regime teodericiano di modelli della regalità (implicanti precise funzioni e comportamenti del sovrano) capaci di suscitare echi a lui favorevoli presso la popolazione romana e il suo ceto dirigente. Di una simile ricerca di consenso offre un buon esempio la condotta dell’Amalo in occasione della sua visita a Roma nell’anno 500, dopo che lo stesso monarca aveva assecondato le richieste dei romano-cattolici di farsi arbitro nella contesa fra il papa Simmaco e l’antipapa Lorenzo, promuovendo la convocazione di un sinodo che sanasse la frattura. Dopo l’esito del concilio, favorevole a Simmaco (sebbene la polemica fosse destinata a riaccendersi un paio di anni più tardi), Teoderico fu accolto trionfalmente nella città di Pietro dal papa, dai senatori e dal popolo. Nella circostanza, egli si preoccupò di recarsi in Senato, promettendo di conservare intatto quanto gli imperatori romani del passato aveva costruito, come informa puntualmente l’Anonimo Valesiano[7]; presa quindi residenza nel palazzo imperiale, il monarca barbaro celebrò un trionfo di un mese, offrendo ai Romani spettacoli circensi, stabilendo elargizioni annue di cibo ai poveri e stanziando delle somme, tratte dal gettito fiscale, per il restauro dello stesso palazzo imperiale e per il rafforzamento delle mura cittadine. Riassetti anche significativi, pur nella continuità di fondo rispetto al passato tardoimperiale, si possono riscontrare nell’ordinamento delle province. Queste furono sempre affidate a consolari romani e a governatori di rango inferiore, ma essi vennero affiancati da Goti, allo stesso modo in cui, nel governo centrale, vicino al re operavano assieme a romani come Cassiodoro anche ufficiali goti. Il monarca era infatti assistito non solo da funzionari civili romani, ma anche da una «casa» barbarica, composta dai cosiddetti maiores domus regiae. Nelle province, accanto al governatore civile, la cui corte amministrava la giustizia della popolazione romana, agivano comites goti, con funzioni precipuamente militari, non disgiunte da compiti giudiziari. In quanto foederati, ai Goti era riconosciuta la facoltà di conservare le loro consuetudini nazionali a titolo di ius singulare, ma essi avevano contestualmente l’obbligo di garantire alla popolazione romana la facoltà di vivere secondo il diritto imperiale. Teoderico mantenne perciò l’impegno di far osservare lo ius romano; gli editti che emanò per i Romani del suo regno restarono entro i limiti dei poteri di un magistrato imperiale (quale egli figurava in quanto magister militum praesentialis), cui spettava il compito di dare esecuzione alle leggi imperiali e di farle osservare. Gli Ostrogoti continuavano a regolarsi in virtù delle antiche consuetudini nazionali orali, le cosiddette bilagines. A lungo gli studiosi hanno ritenuto che nel regno teodericiano vi fosse anche un codice scritto di diritto goto, il cosiddetto Edictum Theodorici regis, che, invece, viene ora dai più attribuito ad un altro monarca, omonimo dell’Amalo, il re dei Visigoti di Tolosa Teodorico II. L’Edictum Theodorici regis sarebbe pertanto da datarsi al 460-461 e, prodotto in tutt’altro contesto, naturalmente non avrebbe avuto vigore in Italia.

Teoderico (in nome di Anastasio I). Solidus, Roma 493-526. Au 4,15gr – Recto: Vittoria alata stante, verso sinistra con lunga croce.
Teoderico (in nome di Anastasio I). Solidus, Roma 493-526. Au 4,15gr – Recto: Vittoria alata stante, verso sinistra con lunga croce.

Così come erano due, nel regno ostrogoto d’Italia, i sistemi normativi, due erano pure le giurisdizioni: lo iudex romano e il comes goto. Le liti tra Goti e Romani venivano sottoposte al comes, coadiuvato per l’occasione da un Romano esperto del proprio diritto. In questo modo Teodorico rovesciava la norma imperiale, secondo la quale il cittadino romano in lite con un militare (tali erano infatti tecnicamente gli Ostrogoti nella penisola) doveva essere giudicato sempre da un giudice civile assistito da un comes (cioè da un comandante militare). Un Goto era sempre giudicato, invece, da un suo connazionale. Dopo la fine del regno ostrogoto, l’imperatore Giustiniano interverrà per annullare tale disposizione teodericiana, riconducendo i cives sotto la giurisdizione civile. Casi di violazione dell’equilibrio giuridico sono testimoniati in modo sporadico dalle fonti, soprattutto dopo la morte di Teoderico. Cassiodoro ricorda, ad esempio, come durante il regno del giovanissimo Atalarico, sottoposto alla tutela della madre Amalasunta, il comes Gothorum di Siracusa, oltre a rendersi protagonista di diverse vessazioni soprattutto nella riscossione dei tributi, avesse preteso di giudicare impropriamente le liti tra Romani[8]. Un altro re, Baduila, meglio noto come Totila nelle fonti imperiali e nella moderna storiografia, violò apertamente il diritto ufficiale negli anni della guerra, proclamando la liberazione degli schiavi di padroni romani che accettassero di combattere a fianco dei Goti e rendendo legittimi i matrimoni tra individui liberi e schiavi. Tutti questi provvedimenti furono dichiarati nulli da Giustiniano con la Pragmatica sanctio de reformanda Italia del 554, che ripristinò la situazione anteriore agli stravolgimenti operati da Totila. Notevole appare, da ultimo, un ulteriore fenomeno giuridico, riscontrabile nella testimonianza dello stesso Cassiodoro: quello di un progressivo allontanamento della prassi dal diritto ufficiale, soprattutto in sfere quali quella dei reati sessuali o quella della dipendenza servile. Sebbene il re goto si facesse dunque garante del diritto ufficiale, era la prassi che tendeva spontaneamente a discostarsi da quello, per una spinta «spontanea» in atto da tempo, mentre le autorità stesse, in più di un caso, trascuravano di applicarlo correttamente. I sopraccitati comites goti possono essere suddivisi, in linea di massima, in almeno tre livelli (anche se non si devono immaginare piramidi gerarchiche troppo rigide). Al più alto grado si collocavano i comites provinciarum, presenti solo in alcune province, con compiti vari, prevalentemente di polizia, per il mantenimento dell’ordine pubblico. A costoro facevano seguito per dignità i comites civitatum, posti a capo delle guarnigioni cittadine, oltre che gravati di funzioni amministrative e giudiziarie; e, infine, vi erano i comites Gothorum per singulas civitates, con mansioni prevalentemente giudiziarie. Nei rapporti con le istituzioni provinciali il re si avvaleva non solo di ufficiali romani (i comitiaci), ma anche dei saiones, i «seguaci» del sovrano in senso barbarico del termine, che operavano in qualità di suoi messaggeri e agenti personali: comitiaci e saiones venivano in sostanza a svolgere funzioni che nel tardo Impero erano state proprie degli agentes in rebus. In genere i saiones avevano però anche significativi doveri militari: curavano, ad esempio, la leva e i rifornimenti delle truppe. La bipartizione tra magistrature civili e magistrature militari si definiva su base etnica, coerentemente con il carattere di esercito federato applicato alla gens Gothorum stanziata nella penisola.

Mosaico raffigurante un dominus. IV-VI sec. ca. Villa del Casale (Piazza Armerina).
Mosaico raffigurante un dominus. IV-VI sec. ca. Villa del Casale (Piazza Armerina).

Durante il tardo Impero una linea di tendenza piuttosto netta, almeno in Occidente, era stata quella di un progressivo sviluppo del particolarismo provinciale, a fronte dell’indebolirsi del centro politico, con una scelta sempre più frequente dei funzionari all’interno dei ceti eminenti locali e con una spinta all’isolamento economico delle singole province. Con Teoderico, pur partendo da tale situazione, ci fu il tentativo di correggerla, aumentando il peso dell’intervento regio negli ambiti locali: i funzionari centrali erano messi in condizione di intervenire nella vita delle province con ampia discrezionalità, ancorché in modo legittimo, mentre la stessa carica di rector delle singole province, pur venendo definita in termini tradizionali, conobbe un funzionamento irregolare, anche con un’occasionale ampliamento della sfera di competenza territoriale, che poteva trascendere i confini della provincia per coprire un’area più estesa, a giudizio del governo centrale. Veniva inoltre acquistando un ruolo sempre più rilevante nella vita provinciale il cancellarius, ennesimo caso di funzionario nominato dal centro, dotato di poteri assai ampi. Nel regno ostrogoto d’Italia, dunque, a fronte di una continuità dell’ordinamento amministrativo e dell’organizzazione provinciale, che ci fu anche se appare talora volutamente ostentata e amplificata, vennero quindi a realizzarsi, per vie come quelle descritte, trasformazioni di fatto destinate a mutare in modo tutt’altro che secondario il funzionamento interno delle province stesse, il tenore dei loro rapporti con l’autorità centrale e quindi, in definitiva, gli assetti generali del regno.

Società ed economia

L’insediamento della gens degli Ostrogoti in Italia e la conseguente introduzione di un nuovo regime politico non sembra abbia inciso in modo apprezzabile sui meccanismi della società e dell’economia rurali e sugli assetti della proprietà. Il modello produttivo di quest’epoca fece registrare una sostanziale continuità rispetto agli assetti del tardo Impero, proseguendo nello sviluppo di fenomeni già ben avviati: il decentramento della produzione, la preferenza per la gestione fondiaria indiretta, che divenne prevalente, l’accentramento della rendita nelle mani dei possessores. Tali dinamiche acuirono la subordinazione dei contadini, con gradi di sfruttamento che aumentavano quanto più nutrito era il numero degli intermediari fra il proprietario e i lavoratori. La larga maggioranza della popolazione rurale coltivava terra non propria, in qualità di affittuaria; persisteva anche l’impiego di schiavi, i quali, alla luce di recenti stime quantitative (che restano comunque sempre assai precarie), dovevano essere più numerosi di quanto tradizionalmente non si credesse, aggirandosi forse attorno a una percentuale del 15% sul totale dei lavoratori della campagna. Le fonti, se documentano abbastanza bene le aziende di maggiori dimensioni, coltivate da affittuari o da schiavi mantenuti dal proprietario, lasciano invece più in ombra il ceto dei contadini proprietari, dei quali sfuggono pertanto l’esatta fisionomia e la quantità complessiva. La struttura dei latifondi, di cui c’è buona testimonianza, prevedeva una suddivisione degli stessi in massae, amministrate da actores, e lavorate, per l’appunto, da contadini dipendenti.

Giuseppe presiede al controllo del grano. Placca d’avorio, 552, dal Trono dell’arcivescovo Massimiano, Ravenna.
Giuseppe presiede al controllo del grano. Placca d’avorio, 552, dal Trono dell’arcivescovo Massimiano, Ravenna.

La stratificazione dei rustici, secondo criteri sociali ed economici, risulta esser stata molto accentuata, al di là dell’immediata distinzione giuridica tra gli individui che godevano dello status di libero e quelli che invece ne erano esclusi. Sul piano giuridico, contadini liberi e schiavi rimanevano ovviamente ben separati, ma dal punto di vista della percezione del loro ruolo sociale ed economico una simile differenziazione si affievoliva; una fortunata formula del noto giurista Ulpiano, «servus quasi colonus est», portava ad intendere che il lavoro fornito da un colono e quello prestato da un servo fossero in buona sostanza identici dal punto di vista del padrone, con la conseguenza che le due figure tendevano a sovrapporsi. Inoltre una quantità crescente di liberi era spinta a decadere nello status servile, dal momento che l’estrema indigenza di molti contadini li costringeva a vendere come schiavi i propri figli per sopravvivere, oppure a dare se stessi in servitù a un qualche padrone, che assicurasse loro il soddisfacimento dei bisogni primari e li soccorresse nelle emergenze. Meno frequente risultava un passaggio di condizione in senso opposto, con l’affrancamento di soggetti schiavi. Questo poteva verificarsi per istanze individuali, piuttosto che per meccanismi strutturali della società e dell’economia, nei casi, cioè, di ascesa di singoli individui non liberi particolarmente intraprendenti, ovvero per scelte dei padroni condizionate dalla morale cristiana (un servo affrancato costituiva un’offerta a Dio e poteva essere impegnato a pregare per l’anima dell’ex padrone); oppure, ancora, per interventi delle autorità ecclesiastiche, spalleggiate dall’autorità pubblica, come nella manomissione di schiavi cristiani sottratti a padroni ebrei. Si trattava comunque di esiti difficili da raggiungere e, oltretutto, non necessariamente desiderabili, poiché la tutela padronale insita nella condizione servile poteva addirittura essere preferita a una libertà esposta alla miseria.

Codex Vaticanus lat. 3225 – Vergilius Vaticanus, f. 7v (400 ca.). Scena di vita agreste.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Vat. Lat. 3225, Vergilius Vaticanus (V sec.), f. 7v. Scena di vita agreste.

Come negli usi tardoimperiali, lo sfruttamento dei lavoratori rurali era massimo ed eventuali elementi di moderazione in tale sfruttamento potevano scaturire non tanto da scrupoli umanitari, quanto da una percezione del tutto empirica che vi era un limite invalicabile di sopportazione della fatica. Insomma si capiva che era meglio non gravare di lavoro oltre una certa soglia un contadino, perché altrimenti questo si ammalava, o magari moriva, arrecando un danno economico al proprietario. L’estrema fragilità dei ceti rurali risultava drammaticamente evidente in occasione di calamità, quali le carestie. Nel modello economico tardoromano, perpetuato nell’Italia gota, era fisiologica la sottrazione ai contadini dell’eventuale surplus di produzione, negando così la possibilità a costoro di costituirsi delle riserve per fronteggiare la crisi. A fronte di una produzione agricola che rimaneva sempre fluttuante, la domanda dello Stato, e delle città, era inelastica: la fiscalità prescindeva dalle variazioni della produzione agricola e in occasione delle crisi alimentari si aggiungevano interventi speculativi e tentativi di espansione della grande proprietà a danno dei più deboli ed esposti. Gli episodi di carestia sono ripetutamente attestati: particolarmente severa fu, per esempio, la penuria alimentare che colpì l’Italia settentrionale negli anni trenta del VI secolo, costringendo le autorità a prendere misure di emergenza, con il ricorso ai granai pubblici per sfamare le popolazioni colpite. La stessa percezione culturale dei rustici da parte dei ceti proprietari, cittadini e colti, era contraddistinta da una connotazione fortemente spregiativa nei riguardi dei primi (peraltro non nuova, e destinata a ulteriori evoluzioni), che ben si evince dalle principali fonti del tempo, le quali ovviamente riflettevano il pensiero delle élite dominanti. In autori quali Ennodio o Cassiodoro il rusticus appare raffigurato come un individuo non soltanto rozzo e ignorante, ma anche ostile verso le persone per bene, nei riguardi delle quali, con biasimevole impudenza, egli si dimostra minaccioso e aggressivo, giungendo, in taluni casi, perfino all’attacco fisico, magari in banda organizzata. Le mura delle città erano perciò salutate come un provvidenziale elemento di cesura tra il mondo della civilitas urbana e la violenta grossolanità dei lavoratori dei campi, così come si auspicava che pure i costumi di vita – persino la dieta alimentare – di contadini e cittadini non avessero giammai modo di confondersi. Nel ceto dei proprietari, accanto alle grandi famiglie romane, si inserirono anche Goti, che adottarono i modelli di gestione fondiaria propri dell’aristocrazia romana. Le acquisizioni di terre da parte degli Ostrogoti (fatto salvo quanto s’è detto sulla tertia) avevano luogo tramite acquisti privati, magari non senza l’occasionale ricorso a forme di pressione violenta (almeno in taluni casi). Procopio ricorda come Teodato, figlio della sorella del re Teoderico, Amalafrida, e destinato a divenire egli stesso re (oltre che assassino della regina Amalasunta, che aveva sposato), malgrado fosse divenuto «padrone della maggior parte delle terre di Toscana», cionondimeno «si dava un gran da fare per strappare con la forza anche il resto ai legittimi proprietari», dal momento che per lui «avere un vicino era una disgrazia»[9]. Il goto Teodato era dunque uno dei principali latifondisti del regno, e il suo non doveva essere un caso isolato; naturalmente sulle terre detenute in proprietà anche i possessores ostrogoti pagavano l’imposta. Ampie assegnazioni di terre furono poi garantite a beneficio della famiglia reale e dalla chiesa ariana, ma questi appezzamenti erano tratti dal demanio e non sottratti a privati proprietari. Che il trasferimento di proprietà dai Romani ai Goti si fosse verificato in forme complessivamente ordinate e legittime si ricava anche dal fatto che, nel momento in cui procedette al riordino dell’Italia reintegrata nell’Impero, nel 554, Giustiniano non fu costretto ad adottare misure drastiche (con l’eccezione di ciò che riguardava gli atti compiuti da Totila), a differenza di quanto dovette invece fare nell’Africa strappata ai Vandali.

Mosaico raffigurante il Trionfo di Nettuno sulla quadriga. Dettaglio - La raccolta dei frutti. Da Chebba (Sfax), III secolo d.C. Musée du Bardo.
Mosaico raffigurante il Trionfo di Nettuno sulla quadriga. Dettaglio – La raccolta dei frutti. Da Chebba (Sfax), III secolo d.C. Musée du Bardo.

L’equilibrio economico complessivo tra i possessores romani e i nuovi proprietari goti, sostanzialmente mantenutosi per tutto il regno di Teoderico (ma, com’è verosimile, non senza graduali alterazioni), potrebbe forse essersi spezzato in modo definitivo e irreparabile negli anni immediatamente successivi, a causa dell’incapacità, sul lungo periodo, di un sistema che restava strutturalmente debole (anche se poteva apparire congiuntamente florido) di sostenere i costi sempre più onerosi dell’apparato goto e della politica regia. La propaganda alimentata dal regime teodericiano, tanto ben modulata nello stile della miglior retorica classica da un Ennodio o da un Cassiodoro, fu tesa a proporre e diffondere l’immagine del regno dell’Amalo come un’epoca di felicitas: un’età non solo di concordia e pace, ma anche di prosperità per l’economia. Fatte salve le intenzionali esagerazioni delle fonti, si deve tener presente che con il re goto si ebbe un significativo mutamento rispetto agli equilibri del tardoimpero: nel mondo romano vi era una forte polarizzazione tra le aree che pagavano tributo (come la penisola Iberica o l’Africa) e le aree consumatrici (quelle che ospitavano il grosso dell’esercito, come la regione renano-danubiana, o quella che dovevano sostentare il comitatus imperiale, come l’Italia). L’Italia ostrogota sembra essersi invece proposta come una provincia che, al medesimo tempo, versava i tributi e consumava: lo stesso esercito goto, stanziato nella penisola, reinvestiva qui i suoi proventi, dando stimolo alla produzione manifatturiera e ai commerci. Insomma finché l’equilibrio si mantenne, ossia fintanto che i costi della macchina politico-militare ostrogota non si fecero eccessivi per le risorse italiane, si può pensare a una congiuntura accolta in modo positivo dalle parti in causa. La sostanziale continuità in campo economico e produttivo fatta registrare dal periodo goto rispetto all’età anteriore appare confermata anche dalle fonti materiali, che mostrano, a loro volta, il perdurare degli assetti antichi, individuando un momento di parziale trasformazione, semmai, in precedenza, cioè attorno all’inizio del V secolo: si tratta, peraltro, di fenomeni complessi e in buona parte ancora sfuggenti. In alcuni casi il dato archeologico rischia addirittura, se non viene ben interpretato e confrontato con altri riscontri, di offrire prospettive ingannevoli (ma la stessa avvertenza vale, beninteso, per la testimonianza scritta): per esempio l’archeologia mostra un declino edilizio delle ville, nel corso del V secolo, che sfocia nel tendenziale superamento di un simile modello abitativo alla fine del VI secolo (fatte salve le specificità regionali). A tale apparente decadenza delle strutture materiali, che va comunque letta in tutta la sua complessa articolazione (si tratta, cioè, non di mera rovina generalizzata, ma piuttosto di ristrutturazioni, suddivisioni, abbandono selettivo di alcuni settori), non corrisponde alcuna crisi parallela dei ceti proprietari, né alcuno stravolgimento dei moduli produttivi, per cui bisogna immaginare, semmai, processi di ricollocazione dei centri gestionali e amministrativi nelle campagne, che sono ancora tutti da approfondire. Poco probandi anche le notizie sui villaggi, dal momento che gli esempi conosciuti sono troppo scarsi per suggerire indicazioni generali (tali casi lascerebbero intendere una tendenza alla contrazione dell’abitato, dal V secolo). Possibili spie archeologiche di una crisi della trama insediativa di tradizione romana, dal secolo V, quali l’apparente declino delle ville o il restringimento dei villaggi, sono poi contrastate da indicatori di segno opposto, come il proliferare di luoghi di culto, anche in ambito rurale, che insistono sovente su strutture preesistenti, a ribadire una continuità dei bacini insediativi e una persistente disponibilità di capitali da investire in simili realizzazioni. Insomma le testimonianze archeologiche e quelle scritte, da sole potenzialmente ingannevoli, si possono compensare e «correggere» nel reciproco incrocio, lasciando emergere un quadro, per l’Italia rurale d’età gota, di sostanziale tenuta rispetto agli ultimi tempi dell’Impero d’Occidente, facendo spostare semmai in avanti eventuali cesure e lasciando intendere, comunque, come i processi di trasformazione si siano dipanati su tempi molto lunghi. Tali conclusioni sembrano corroborate anche da ulteriori specialismi, quali la zooarcheologia, che nello studiare i resti degli animali d’allevamento indica il permanere, ancora nel VI secolo, degli antichi usi zootecnici e del tradizionale equilibrio fra il pascolo e il coltivo.

La parabola politica del regno

La cooperazione fra Teoderico e il ceto dirigente romano nell’opera di governo dell’Italia comportò anche lo svolgersi di un rapporto diretto tra il re goto, ariano, e la Chiesa cattolica. Come detto, la diversità di confessione religiosa venne mantenuta quale tratto di identità etnica dell’exercitus barbaro stanziato nella penisola e di distinzione rispetto alla maggioritaria popolazione autoctona. La Chiesa ariana aveva i propri edifici di culto, il proprio clero, le sue proprietà; nei medesimi centri urbani in cui Goti e Romani coabitavano, coesistevano le chiese ariane per i primi e quelle cattoliche (ben più numerose), rivolte ai secondi. A Ravenna, per esempio, vi era una grande cattedrale urbana con un battistero, oltre a una cappella palatina, consacrata al medesimo culto. Pur nel rispetto di una simile separatezza, Teoderico fu chiamato a intervenire in questioni, anche assai rilevanti, che concernevano i cattolici, in quanto dovere connaturato alla responsabilità di governo di sudditi romani che gli era stata affidata; allo stesso tempo ricercò il sostegno delle élite ecclesiastiche cattoliche, perché ciò poteva costituire un ulteriore elemento di legittimazione dalla sua carica agli occhi dei Romani. Dal suo canto la Chiesa doveva vedere nel monarca Amalo non solo un motivo di stabilità istituzionale comunque vantaggiosa in generale, ma anche, data la sua appartenenza a un’altra confessione cristiana, una garanzia di non ingerenza nel delicato ambito della definizione del dogma: a differenza di quanto invece aveva dimostrato di voler fare l’imperatore di Costantinopoli, sin dall’emanazione dell’Henotikon con Zenone nel 482, per congelare il dibattito anti-monofisita in termini risultati sgraditi a Roma.

Battistero degli Ariani (VI sec.). Ravenna.
Battistero degli Ariani (VI sec.). Ravenna.

Sin dai primi anni di regno è attestato un cordiale rapporto di Teoderico con il papa Gelasio I, di cui restano alcune lettere al monarca ostrogoto e una a sua madre, Ereleuva, nelle quali il pontefice, chiedendo agli interlocutori piccoli favori (come il sostegno di ecclesiastici incaricati di sbrigare affari urgenti), si dichiarava certo della benevolenza di Teoderico per la Chiesa cattolica e per la sede petrina, in quanto erede di tutte le prerogative degli imperatori romani d’Occidente e attento custode delle leggi da loro emanate, anche in materia religiosa[10]. Un coinvolgimento ben più impegnativo di Teoderico nelle vicende della Chiesa di Roma si ebbe in occasione del cosiddetto scisma laurenziano, allorquando, alla morte di papa Anastasio II, nel 498, vennero eletti contemporaneamente, in veste di suoi successori, il diacono Simmaco e l’arciprete Lorenzo, sostenuti da opposte fazioni dell’aristocrazia romana. Per sciogliere il nodo le parti chiamarono in causa il re, il quale, in conformità con le norme ecclesiastiche, rinviò il giudizio a un concilio, indicando che si doveva riconoscere come papa colui che fosse stato ordinato per primo, ovvero chi potesse contare sulla maggioranza dei consensi. Solo la testimonianza della fonte che rispecchia il pensiero dei partigiani di Lorenzo, il quale uscì sconfitto, vale a dire il cosiddetto Frammento laurenziano contenuto nel Liber Pontificalis, biasima la condotta dell’Amalo, accusato di essersi lasciato corrompere dai simmachiani. In realtà Teoderico mantenne nella circostanza un contegno di assoluta correttezza costituzionale, assai opportuno anche sotto il profilo politico, dal momento che gli permise di conservare una posizione equilibrata al cospetto dell’Impero e delle élite romano-cattoliche: trascinato in una vicenda delicatissima, in cui, in quanto re barbaro e ariano, rischiava facilmente di apparire un intruso e un prevaricatore, egli si comportò nel pieno rispetto del diritto, eseguendo quanto ci si sarebbe aspettati da un princeps romano. I padri, riuniti nel sinodo che, nel marzo del 499, rimosso Lorenzo, poterono così acclamare Teoderico nel nome di Cristo, mentre l’anno seguente il Goto fu accolto trionfalmente a Roma dal papa e dal Senato, durante una visita – già ricordata – tutta intrisa di simbolismo imperiale. La contesa tra Simmaco e Lorenzo non si esaurì con il pronunciamento del 499, poiché presto i laurenziani ebbero modo di accusare il pontefice di irregolarità liturgiche nella datazione della Pasqua e, contestualmente, di tenere una condotta scandalosa. Nuovamente il re fu sollecitato ad intervenire: rifiutandosi Simmaco di rispondere a una convocazione a Ravenna, Teoderico inviò a Roma, considerata a quel punto sede vacante, un visitator, il vescovo di Altino, Pietro, uniformandosi a quanto già fatto, ad esempio, dall’imperatore Onorio nel 418-419, all’epoca del contrasto fra Bonifacio I e l’antipapa Eulalio. Un intervento tanto risoluto fu suggerito al monarca, supremo responsabile dell’ordine pubblico in Italia, dalla preoccupazione che potessero scoppiare dei tumulti tra le due fazioni in campo; peraltro egli si astenne ancora una volta dal formulare giudizi di merito, di natura dottrinale o disciplinare, rimettendo ogni decisione a un apposito concilio, convocato nel 502. A questo, nel sollecitare una pronta risoluzione del caso, Teoderico dichiarava apertamente di essere stato costretto alle azioni che aveva intrapreso per il dovere di reintegrare la pax, l’unitas e la tranquillitas della Chiesa, di fronte alla drammatica confusio in cui essa versava, in ossequio alla tradizione degli imperatori romani cristiani e allo stesso dettato evangelico, investendo il concilio di quei compiti che non rientravano nelle legittime competenze del monarca.

Mosaico raffigurante papa Simmaco (484-514) trionfante su Lorenzo. Sant'Agnese fuori le Mura, Roma
Mosaico raffigurante papa Simmaco (484-514) trionfante su Lorenzo. Sant’Agnese fuori le Mura, Roma

Solo nel 506 la complessa questione fu risolta in via definitiva a favore di Simmaco, che il Senato reintegrò nelle sue chiese e proprietà su precisa richiesta del re. Teoderico si sforzò, dunque, in tutta la lunga vicenda, di mantenersi super partes, consolidando la propria delicata posizione con la forza del diritto, scrupolosamente osservato, e legittimandosi agli occhi dei sudditi romani con una condotta che rispondeva alle loro attese, in qualità di «facente funzione» dell’imperatore. Appaiono meno facilmente dimostrabili, invece, calcoli politici da parte sua, pure intravisti da alcuni studiosi, legati a una pretesa polarizzazione degli schieramenti a favore dei due candidati al soglio papale (filo-costantinopolitani i partigiani di Lorenzo, su posizioni più «occidentali» i simmachiani), su cui Teoderico avrebbe giocato, nella sua complessa dialettica con Costantinopoli. L’equilibrio politico che per la maggior parte del regno di Teoderico si era conservato, tra i Goti e i Romani all’interno del regno e tra il regno e l’Impero sul piano internazionale, si incrinò drammaticamente a partire dal decennio 520-530, aprendo la strada a un processo che portò rapidamente alla guerra e alla fine dell’esperienza politica ostrogota nella penisola, oltre che alla scomparsa degli Ostrogoti in quanto gruppo etnico con una propria specifica identità. I fattori che condussero a un simile esito furono molteplici: al fondo vi era senza dubbio il nodo della mancata fusione tra Goti e Romani, con il mantenimento di una società bipartita, in cui alla forzata cooperazione si accompagnava pur sempre una sostanziale estraneità, se non un latente antagonismo. Gli Ostrogoti, ragionando nei termini classici di un esercito di foederati, si erano affiancati alla popolazione italica senza volersi mischiare a questa, svolgendo prerogative loro esclusive (quelle militari) e serbando la propria identità di gruppo; i Romani avevano accettato i Goti in quanto situazione ineludibile in quel frangente, cercando di trarre i vantaggi (di stabilità politica, istituzionale, militare) che dalla loro presenza poteva derivare, ma senza percepirli  come una scelta né ottimale né irreversibile. L’iniziale collaborazione si era probabilmente trasformata ben presto in competizione, con il ceto dirigente romano che si vedeva incalzato dai Goti sia nelle responsabilità amministrative (malgrado la teorica suddivisione dei compiti, le sovrapposizioni di fatto, o anche gli espliciti arbitrii, non mancavano certo), sia nel controllo della ricchezza, mano a mano che i notabili goti andavano acquisendo proprietà e il potere su uomini e cose che da quelle discendeva. Per quanto sia impossibile scrivere la Storia sulla scorta delle ipotesi, si può anche pensare che simili difficoltà avrebbero potuto essere superate con il tempo, portando alla lunga ad una fusione tra barbari e Romani, e quindi alla nascita di una nuova società e di un nuovo assetto istituzionale, come accadde, in momenti diversi, in Gallia con i Franchi o in Spagna, con i Visigoti, oltre che con gli stessi Longobardi in Italia. Invece, ogni possibile processo di integrazione venne stroncato dal volgere del quadro politico internazionale, in seguito alla determinazione dell’imperatore Giustiniano, salito al potere nel 527, di procedere al recupero dei territori occidentali detenuti da re barbari (l’Africa vandala, la Spagna visigota, l’Italia ostrogota), per ripristinare l’unità dell’Impero. Il disegno giustinianeo, ispirato da una chiara visione politico-ideologica e reso possibile anche dalle capacità di investire in Occidente risorse umane e finanziarie, in genere immobilizzate sul fronte persiano, fornì alle élite italiche una validissima sponda cui appoggiarsi per superare la necessità della presenza ostrogota nella penisola, intravedendo la chance del reintegro di un governo imperiale diretto. Va tenuto pure presente che, nel medesimo momento, la speranza di Teoderico di crearsi una forte base d’appoggio presso gli altri capi barbari occidentali, attraverso un’accorta politica di alleanze perseguita anche con matrimoni mirati, per raccogliere attorno a sé una solidarietà e un concreto sostegno militare che irrobustissero la sua posizione, fu spezzata dal rapido e prepotente emergere del re franco Clodoveo, il quale, negli ultimi anni del V secolo, riuscì a conquistare quasi tutta la Gallia (in buona parte a danno dei Visigoti, alleati di Teoderico), guadagnandosi l’appoggio delle aristocrazie galloromane anche in virtù della sua conversione al cattolicesimo. La nascita di un forte regno franco, in cui barbari e galloromani andavano rapidamente avvicinandosi, nel segno di una fede religiosa e di un sistema di valori condivisi, e alleato con l’Impero, fece saltare la pretesa di leadership occidentale del re ostrogoto, indebolendolo anche di fronte alle nuove mire giustinianee.

Il cosiddetto Avorio Barberini (prima metà del VI secolo). Raffigurazione a rilievo (al centro) di un imperatore romano vittorioso. Musée du Louvre. Secondo alcuni si tratterebbe di Anastasio I; secondo altri di Giustiniano I.
Il cosiddetto Avorio Barberini (prima metà del VI secolo). Raffigurazione a rilievo (al centro) di un imperatore romano vittorioso. Musée du Louvre. Secondo alcuni si tratterebbe di Anastasio I; secondo altri di Giustiniano I.

La crisi era precipitata in conseguenza dell’avvio di una persecuzione da parte di Giustino (518-527), il predecessore di Giustiniano, degli ariani residenti nelle regioni dell’Impero; a costoro venivano sottratte coattivamente le chiese, le quali erano consegnate ai cattolici, per essere da loro riconsacrate e riutilizzate. L’azione assunta da Giustino rientrava in un quadro di ricerca dell’uniformità religiosa, proseguita e anzi intensificata dal suo successore e tesa a porre termine a una lunga stagione di controversie teologiche (principalmente, intorno alla natura di Cristo) e dottrinali, oltre che corrispondente a una più generale pretesa di uniformità culturale e «ideologica» della res publica. L’unità e l’univocità della fede si identificavano, infatti, con l’unicità dell’Impero e del suo reggente, e, quindi, ogni forma di dissenso religioso finiva con il coincidere con il dissenso politico contro la potestà imperiale. Dopo gli ariani, con Giustiniano furono duramente perseguitati i seguaci di altre espressioni ereticali del Cristianesimo e i fedeli di religioni diverse, dai montanisti ai samaritani, dagli Ebrei ai pagani (molti dei quali si potevano ancora rintracciare tra i ceti più elevati e colti della società imperiale, come per i professori della scuola neoplatonica di Atene, che fu allora chiusa con la forza). Le misure intraprese contro i non cattolici andavano alla chiusura dei loro luoghi di culto all’espulsioni dalle funzioni pubbliche da molte professioni, dalla limitazione dei diritti giuridici alle confische patrimoniali, fino al carcere e alla pena di morte. Teoderico rispose alle iniziative orientali con analoghi provvedimenti a danno dei cattolici, molte delle cui chiese in Italia vennero chiuse, espropriate o distrutte. In questo modo, il re si faceva garante della causa ariana, suscitando il favore della componente gota del suo regno, alla quale egli era ora indotto ad appoggiarsi in modo più esplicito, e tendenzialmente esclusivo, a fronte di una palese crisi del legame con i Romani. In una tale frattura sfociavano tutte le contraddizioni irrisolte dalla forza coesistenza nella penisola di Romani e barbari, mai condotti a una reale fusione, e le diffidenze derivanti dalle nuove opzioni politiche possibili. I Goti erano evidentemente allarmati per il riavvicinamento in atto fra l’imperatore e le élite romane, sempre più fiduciose in una disponibilità del princeps a un intervento diretto in Italia, alla luce delle rinnovate mire sull’Occidente da costui manifestate, e avvertivano, perciò, l’impossibilità di proseguire nella collaborazione politica con quelle. Romani eminenti, come il filosofo Severino Boezio e suo suocero Simmaco, già valenti collaboratori del regime teodericiano (il primo era stato console e magister officiorum), furono accusati di tradimento, per collusione con quello che ormai si percepiva e indicava come un nemico, vale a dire l’Impero, e vennero condannati a morte. Boezio scrisse la sua opera più celebre, la Consolatio philosophiae, in carcere, dove era stato gettato per aver preso le difese del Senato e di Albino, vittima di accuse ingiuste, nell’anno 524, lo stesso del suo assassinio.

Mosaico della cupola del Battistero degli Ariani (VI sec.). Ravenna.
Mosaico della cupola del Battistero degli Ariani (VI sec.). Ravenna.

Per convincere Giustino ad arrestare la persecuzione degli ariani, in uno scenario quale quello sopra descritto, nel quale erano saltati tutti gli equilibri politici e istituzionali fra Goti e Romani, Teoderico costrinse a recarsi in missione per suo conto a Costantinopoli lo stesso papa Giovanni I, paradossalmente chiamato a farsi portavoce e scudo degli eretici. L’episodio, che viene tramandato da fonti sostanzialmente avverse ai Goti, come la biografia del pontefice riportata nel Liber Pontificalis, è stato diversamente interpretato dalla critica moderna quale atto di deliberata umiliazione del papa ad opera di Teoderico, nella sua aperta sfida ai romano-cattolici del regno; oppure, al contrario, come un tratto di continuità nel rapporto di cooperazione, consueto e sperimentato, fra il re e il vescovo di Roma, il quale, soprattutto a partire dal pontificato di Ormisda (514-523), si sarebbe offerto in veste di canale privilegiato delle relazioni tra Ravenna e Costantinopoli, facendosi preferire allo stesso Senato, la cui fedeltà appariva, in quei frangenti, meno certa. Che i contatti fra Teoderico e l’Impero, circa le cruciali questioni religiose, non prive di riflessi più ampiamente politici, si svolgessero per il tramite dei pontefici, sembra confermato da notizie quali quelle, sempre desunte dal Liber Pontificalis, che si riferiscono alle missioni a Costantinopoli dei vescovi di Pavia, Ennodio, e di Capua, Germano, tese a sanare lo scisma acaciano e decise, secondo la fonte, da papa Ormisda in accordo con Teoderico[11]. Se ancora negli anni di Ormisda poteva funzionare un equilibrio politico-istituzionale che vedeva svolgersi attraverso la naturale mediazione pontificia il dialogo fra l’Impero e il re dei Goti d’Italia, specie in materia religiosa, la vicenda di Giovanni I appare costituire, invece, un momento di drammatica e irreversibile rottura di tale equilibrio; questa è almeno l’interpretazione della vicenda che risulta codificata nella testimonianza delle fonti papali, ma anche nell’Anonimo Valesiano, e che si fissò, dunque, come memoria «ufficiale» dell’evento per i Romani, sancendo la definitiva condanna di Teoderico, ora respinto nella dimensione, quasi uno stereotipo, del re barbaro, eretico e persecutore. Giunto a Costantinopoli con un seguito di prelati e di senatori, Giovanni sarebbe stato accolto con il massimo onore dall’imperatore, che lo ricevette con rispetto e devozione, inchinandosi davanti a lui, tanto da indurre l’estensore della biografia del pontefice nel Liber Pontificalis a rievocare l’atteggiamento di Costantino I per papa Silvestro, vale a dire lo stereotipo, l’idealizzazione, del rapporto fra l’imperatore cristiano e il vescovo di Roma[12]. Con toni volutamente opposti viene dipinto, nel medesimo testo, il ritorno in Italia del papa: Teoderico, convinto del tradimento di Giovanni che da Giustino aveva ottenuto la cessazione delle persecuzioni contro gli ariani ma non la facoltà di ritornare all’arianesimo per chi nel frattempo era stato costretto ad abbracciare l’ortodossia, e ricavandone la conferma della nuova sintonia che i ceti dirigenti romani del regno andavano instaurando con il princeps, a minaccia per i Goti, lo gettò in carcere, sottoponendolo a violenze fisiche e morali che lo portarono presto alla morte per stenti, nel maggio del 526.

August Vogel, Il vescovo Ulfila. Marmo, 1894.
August Vogel, Il vescovo Ulfila. Marmo, 1894.

La violenza compiuta contro il papa Giovanni I si accompagnava agli assassinii di Simmaco e di Boezio, alle accuse di tradimento mosse al ceto senatorio e alle confische delle chiese cattoliche nel rendere evidente una secca svolta della politica teodericiana, maturata nel tratto finale del suo regno, che, come s’è detto, era frutto del fallimento di un assetto dell’equilibrio sempre precario, all’interno e sul piano internazionale, messo infine in crisi dall’evolvere della situazione generale; e che venne invece dipinta nelle testimonianze coeve, come si vedrà anche più sotto, nei termini di una sorta di crisi improvvisa di follia, o perfino di possessione diabolica, di un re che fino ad allora aveva mantenuto un comportamento accettabile dal punto di vista dei Romani. Teoderico non sopravvisse a lungo alle sue vittime, morendo egli stesso nel corso dell’anno 526. A succedergli fu chiamato il nipote Atalarico, che però era ancora un bambino, costringendo la madre Amalasunta (da tempo rimasta vedova) ad assumere la reggenza in suo nome. Dopo la prematura scomparsa dello stesso Atalarico, nel 534, Amalasunta associò al trono, sposandolo, il cugino Teodato, uno dei più insigni e ricchi esponenti dell’aristocrazia gota. Non più giovane, Teodato s’era sino a quel momento distinto soprattutto per la propria abilità negli affari, dotandosi, come s’è visto, di vastissime proprietà in Tuscia; in grado di parlare latino e dirozzato nella filosofia platonica, ma poco esperto delle cose di guerra, dimostrava una fisionomia più prossima a quella di un aristocratico romano che non a quella di un guerriero di stirpe gota. L’aristocrazia gota si trovò, allora, di fronte a un bivio: cercare di ricucire il rapporto con i Romani e con l’Impero, superando la crisi emersa negli ultimi anni del regno di Teoderico, oppure completare lo strappo, esasperando la tensione, perseguendo il predominio sui Romani del regno e sfidando militarmente l’Impero, di cui, forse, si dubitava della capacità effettiva di intervenire in armi in Italia in modo massiccio. Secondo quanto si apprende dalle fonti, Amalasunta avrebbe preferito il primo indirizzo e si sarebbe fatta perciò scrupolo di contrastare ogni prevaricazione a danno dei Romani, fino a risarcire gli eredi di Simmaco e Boezio, mantenendo aperto il dialogo con il ceto senatorio. Teodato, invece, al di là di un atteggiamento ambiguo nel momento della salita al trono, si dimostrò in sintonia con la parte dell’aristocrazia di stirpe che caldeggiava lo scontro, esaltando i valori tradizionali goti, motivo di identità dell’exercitus Gothorum quale gruppo separato e dominante, e verosimilmente allettata dalla prospettiva di rapidi arricchimenti attraverso più facili appropriazioni e confische di beni.

Ms. Hunter 374, V 1, 11, f. 4r (1384-1385). Pagina manoscritta e miniata dal De Consolatione Philosophiae cum Commento di Boezio.
Ms. Hunter 374, V 1, 11, f. 4r (1384-1385). Pagina manoscritta e miniata dal De Consolatione Philosophiae cum Commento di Boezio.

L’alternativa politica sembrava esprimersi, dunque, in un’alternativa anche culturale: di ciò è evocatore (fatte salve le deformazioni dovute alla stilizzazione letteraria e alla prospettiva tutta imperiale dell’autore) il resoconto che offre Procopio circa il contrasto che si verificò per l’educazione del piccolo Atalarico[13]. La madre, aspirando a rendere il figlio un emulo dei principes romani, lo affidò a tre vecchi pedagoghi goti che dovevano istruirlo nelle lettere, mentre gli aristocratici di corte volevano per lui un’educazione tradizionale di stirpe, che trascurasse l’apprendimento delle scienze umane, per essere piuttosto rivolta all’esercizio fisico e all’addestramento militare. Procopio dipinge secondo stereotipi romani la contrapposizione, opponendo la raffinatezza dell’istruzione ricercata da Amalasunta alla rozzezza barbara del modello goto, che spinse Atalarico ad abbandonare i libri e i saggi maestri per vivere selvaggiamente con suoi coetanei, tra bevute smodate, commerci carnali con donne e giochi violenti, fino a morirne. L’episodio, pur nelle sue convenzioni, rende comunque l’idea dello scontro in atto all’interno del ceto dirigente ostrogoto, con la parte che si riconosceva in Amalasunta messa ben presto in minoranza. La regina, vieppiù isolata, cercò dapprima di indebolire il partito avverso spedendo lontano dalla corte alcuni suoi esponenti di punta, con incarichi di vario genere; quindi, per irrobustire il potere regio, si risolse a sposare Teodato, che forse pensava (erroneamente, come risultò dai fatti) vicino alle proprie posizioni. Soprattutto, però, ella si era preoccupata di richiedere, ottenendola, la protezione di Giustiniano, preparandosi anche a una fuga a Costantinopoli, in caso di necessità. L’esplicitarsi del legame tra la figlia di Teoderico e l’imperatore, insieme alla palese inconciliabilità di posizioni politiche ormai radicalizzate, alimentate anche da moduli ideologico-culturali antitetici, precipitò gli eventi: nel 535 Teodato depose la consorte, facendola relegare prigioniera in un’isola del lago di Bolsena, dove ella, poco dopo, venne fatta strangolare. L’omicidio offrì a Giustiniano, in forza della protezione che egli aveva accordato alla regina gota a lui commendatasi, il motivo formale per muovere guerra al regno ostrogoto, allestendo, in quello stesso anno, una spedizione agli ordini del comandante Belisario (che aveva già condotto con successo la campagna contro i Vandali in Africa), diretta a rovesciare la dominazione barbara in Italia e a reintegrare la penisola nell’Impero.

La guerra

Mausoleo di Teoderico il Grande. Pietra d'Istria, 520 ca. Ravenna.
Mausoleo di Teoderico il Grande. Pietra d’Istria, 520 ca. Ravenna.

La consapevolezza che l’esercito ostrogoto era ammassato nelle regioni centro-settentrionali della penisola italiana convinse l’Impero a sferrare l’attacco contro l’Italia muovendo da sud. Nel mese di giugno del 535 circa diecimila soldati, guidati direttamente da Belisario, sbarcarono in Sicilia e conquistarono rapidamente l’isola, mentre un altro esercito imperiale, condotto dal magister militum Mundo, occupava la Dalmazia. L’irresolutezza del re goto Teodato, sorpreso dal precipitare degli eventi, convinse Belisario a insistere nell’offensiva, attraversando lo stretto di Messina e proseguendo senza ostacolo fino a Napoli; quest’ultima città, che ospitava un presidio goto, oppose invece una strenua resistenza e fu presa solo dopo un assedio, cui seguì un duro saccheggio, primo episodio delle ripetute violenze che le popolazioni dell’Italia dovettero subire nel corso del lunghissimo conflitto per mano di entrambi i contendenti. Teodato fu accusato dai suoi di non aver saputo contrastare con efficacia il nemico, e venne perciò assassinato e sostituito con Vitige. Fu a Roma che, nel corso del 537, si svolse uno dei fatti d’arme più significativi della guerra. La città, presa senza fatica dagli imperiali dopo che i Goti l’avevano evacuata, fu sottoposta a un infruttuoso, prolungato, assedio ad opera di Vitige; mentre il grosso delle forze ostrogote restava impegnato attorno all’Urbe, gli imperiali si spinsero nelle Marche, in Romagna, in Emilia, espugnando numerose piazzeforti, e riuscirono temporaneamente ad occupare anche Milano, presto riconquistata, però, dai Goti, che la devastarono per punizione, accusando i milanesi di essere in combutta con i nemici. Nel maggio del 540 Belisario riuscì ad entrare a Ravenna, dopo trattative che avevano previsto una spartizione della penisola italiana tra l’Impero (cui sarebbe dovuta andare tutta la porzione a sud del Po) e gli Ostrogoti (che sarebbero rimasti nelle regioni a nord del fiume). Vitige fu condotto, con molti aristocratici della sua stirpe, a Costantinopoli, mentre Belisario si spostava a combattere sul fronte persiano.

Maestro si S. Vitale in Ravenna. Mosaico raffigurante il generale Belisario (dettaglio), 547. Basilica di S. Vitale, Ravenna.
Maestro si S. Vitale in Ravenna. Mosaico raffigurante il generale Belisario (dettaglio), 547. Basilica di S. Vitale, Ravenna.

Il conflitto si era solo apparentemente così risolto. Le difficoltà sopravvenute nell’esercito imperiale, per l’inadeguatezza del comando e l’irregolarità della paga, e il malcontento degli Italici verso l’esosità del fisco fecero intravedere ai Goti i margini per una riscossa politica e militare, che si concretizzò, dopo i brevi regni di Ildibado e di Erarico, nell’elezione a re di Totila, già comandante del presidio di Treviso, nel 541. Totila innanzitutto riorganizzò le sue truppe, irrobustendo la propria flotta (in precedenza pressoché inesistente) e adottando una strategia che evitava di impegnarsi in lunghi e faticosi assedi delle città, per ottenerne piuttosto la resa attraverso trattative; nei centri in tal modo conquistati si abbatteva la cinta muraria, per scongiurare l’eventualità che i nemici potessero in futuro tornare a servirsene. Inoltre egli colpì sul piano economico la grande aristocrazia romana, fedele all’Impero, espropriandola dei suoi latifondi (il fisco regio si fece percettore non solo delle imposte ordinarie, ma anche delle rendite) ed affrancando gli schiavi, che vennero convinti, in cambio della libertà, a combattere a fianco dei Goti. In breve volgere di tempo Totila trascinò i suoi a ripetuti successi, che gli consentirono di spostare il fronte nel Mezzogiorno, procedendo alla presa di importanti città, quali Benevento o Napoli. Per qualche mese, tra la fine del 546 e la primavera del 547, i Goti rioccuparono pure Roma, teatro in seguito di contese dall’esito alterno, nel mentre la popolazione era ridotta ai minimi termini, per numero e per condizioni di vita. Solo nel 550, dopo che i Goti erano sbarcati in Sicilia, l’imperatore Giustiniano si decise a produrre il massimo sforzo per risolvere la guerra in Italia, laddove in precedenza le risorse erano state impegnate prevalentemente sul fronte persiano. Allontanato definitivamente dal teatro italiano Belisario, il comando dell’esercito imperiale fu affidato al praepositus sacri cubiculi e sacellarius Narsete, privo di grande esperienza militare, ma abile politico; al suo fianco il generale Giovanni detto il Sanguinario, provato combattente. L’esercito guidato da Narsete, forte di trentamila uomini, in gran parte ausiliari barbari, ben equipaggiato e finanziato, mosse dalla Dalmazia nella primavera del 552 ed entrò in Italia attraverso il suo confine nordorientale, scendendo lungo l’arco altoadriatico, per puntare allo scontro risolutore con il grosso delle truppe nemiche, che erano concentrate nelle regioni centrali della penisola. La battaglia decisiva avvenne in località Busta Gallorum, presso Gualdo Tadino (Taginae), dove i Goti furono sbaragliati e lo stesso Totila cadde ucciso; il suo successore, Teia, cercò un’estrema riscossa, portandosi da Pavia ai monti Lattari (Mons Lactarius), ma fu a sua volta battuto; con la sua morte l’esercito goto si dissolse, i superstiti ripararono disordinatamente nelle proprie sedi di provenienza e il regno ostrogoto in Italia ebbe la propria conclusione. I Goti sopravvissuti «scomparvero» tra le fila della popolazione della penisola, confondendosi del tutto con essa e quindi perdendo da quel momento, anche agli occhi dello studioso moderno, ogni connotazione identitaria di gruppo a sé stante.

Gli Ostrogoti attaccano il Mausoleo di Adriano, difeso da Romani e Bizantini, 537 d.C. Illustrazione di A. McBride.
Gli Ostrogoti attaccano il Mausoleo di Adriano, difeso da Romani e Bizantini, 537 d.C. Illustrazione di A. McBride.

Il 13 agosto del 554 Giustiniano, emanando il testo di legge noto come Prammatica Sanzione, poté sancire il reintegro formale dell’Italia nell’Impero, annullando, tra l’altro, tutti i provvedimenti adottati da Totila contro la proprietà. Fatti d’arme proseguirono nella penisola almeno fino al 561, sia per la disperata resistenza di qualche ultima piazzaforte gota (come Brescia o Verona) sia per la permanenza nella penisola di bande di altre stirpi, che erano intervenute nel conflitto come truppe mercenarie, ma che avevano finito con l’approfittare del disordine complessivo per condurre razzie a proprio esclusivo vantaggio. Già attorno al 539 guerrieri franchi, guidati dal loro re Teodeberto, avevano scorrazzato per l’Emilia e per la Liguria, saccheggiando anche Genova, ed erano infine stati debellati più dalla carenza di viveri e dall’esplodere di un’epidemia che dal contrasto di qualcuno. Teodeberto cercò anche di rivendicare, infruttuosamente, di fronte all’imperatore, un proprio diritto a governare l’Italia del nord, per averla sottratta ai Goti e come ricompensa per il suo intervento militare a favore della causa imperiale. Nell’estate del 553, gruppi di Franchi e di Alamanni, alla cui testa erano due fratelli, Butilino e Leutari, percorsero la penisola fino allo stretto di Messina, depredando tutto ciò che capitava loro a tiro, prima che le truppe imperiali riuscissero a sconfiggerli (Volturnus) e un’epidemia falcidiasse i superstiti, riparati nella loro roccaforte di Ceneda, nella Venetia. Alla restaurazione del potere imperiale sull’Italia si accompagnava la pretesa di ripristinare lo status quo politico, amministrativo, sociale, economico, anteriore all’esperienza teodericiana; ma la penisola usciva da un ventennio di guerra stravolta in modo irreparabile, tanto che il conflitto tra gli Ostrogoti e l’Impero, con tutte le sue implicazioni e conseguenze, può in qualche misura essere assunto come un significativo momento di cesura tra gli assetti dell’Italia tardoromana e quelli che il paese doveva conoscere nell’età medievale. La Prammatica Sanzione aveva annullato gli espropri e le manomissioni di schiavi di cui era stato artefice Totila, rendendo all’aristocrazia senatoria la propria ricchezza e il proprio predominio sociale; tuttavia, questo ceto risultava decimato dal lungo conflitto e molti dei suoi beni erano comunque spogliati e in rovina. Narsete, investito di ampi poteri per la ricostruzione, si sforzò di restaurare le città, fece erigere nuovi castelli per meglio proteggere il confine alpino, riordinò i comandi militari, ristabilì l’antico ordinamento amministrativo, anche se ora furono amputate all’Italia la Sicilia (posta alle dirette dipendenze di Costantinopoli), la Sardegna e la Corsica (entrambe assegnate all’Africa) e la Dalmazia (attribuita all’Illirico). Malgrado simili interventi, l’aspetto complessivo del paese restava miserevole rispetto a un passato non troppo remoto: la popolazione era drasticamente ridotta (anche se calcoli precisi rimangono impossibili), esposta a carestie ed epidemie, e vaste regioni erano interamente disabitate. I campi coltivati erano di conseguenza arretrati di fronte all’incolto, con l’estendersi di boschi e acquitrini, che modificavano profondamente il paesaggio modellato nei secoli dell’Impero romano per opera dell’uomo, alterando le condizioni generali di vita. Molte delle grandi strade romane caddero in disuso, per lo svuotamento dei territori che attraversavano; nei centri urbani, la scarsità dei residenti comportò una ridefinizione degli spazi, con cambi d’utilizzo per interi quartieri, non più necessari a fini abitativi, e perciò reimpiegati, volta per volta, come serbatoi di materiali da costruzione, tratti degli antichi edifici in rovina, o magari come discariche, come aree di attività manifatturiere, o, ancora, come spazi destinati alla coltivazione o all’allevamento. Accanto alle trasformazioni degli aspetti materiali (poco documentabili dall’archeologia, per l’eccessiva ristrettezza dell’arco cronologico in questione), si registrarono anche profondi mutamenti nelle istituzioni. Ogni concreta autonomia amministrativa della penisola rispetto a Costantinopoli venne di fatto annullata: la carica di prefetto del pretorio, che era sempre stata di un Romano, fu ora riservata a un funzionario orientale, così come di provenienza orientale furono molti burocrati. Tale tendenziale estromissione degli Italici dai gradi più rilevanti dell’amministrazione concorse con altri eterogenei fattori, quali l’onerosa fiscalità o, più in generale, la crescente divaricazione culturale tra le antiche parti occidentale e orientale dell’Impero romano, a far sentire la restaurazione giustinianea da parte degli abitanti dell’Italia più come l’imposizione di un governo esterno, se non palesemente «straniero», che come l’effettiva rinascita di una perduta unità politica «romana». Un simile scollamento di intenti, e di sentimenti, unito allo stato di debolezza sociale, economica e militare in cui versava la penisola, lasciò campo aperto all’invasione longobarda, che ebbe luogo appena quindici anni più tardi.

La memoria di Teoderico

Teodorico (in mone di Giustino). Quarto di siliqua, Roma 518-525. Ar. 0,73gr. – Dritto, D.N.IVSTINVS.AVG. Testa diademata di Giustino I.
Teodorico (in nome di Giustino). Quarto di siliqua, Roma 518-525. Ar. 0,73gr. – Dritto, D.N.IVSTINVS.AVG. Testa diademata di Giustino I.

Se nel suo complesso l’esperienza del regnum Gothorum, durata un sessantennio, non ha lasciato una traccia particolarmente incisiva nella memoria storica dell’Italia, né negli assetti sociali, economici, istituzionali di questa, ben altra fortuna ha conosciuto, non solo nella penisola, la figura individuale del re Teoderico. Costui ha infatti perpetuato un ricordo di sé che è durato nel tempo e che ancora non si è del tutto spento, almeno nella forza suggestiva del nome; tuttavia il Teoderico tramandato ha poco a che fare con il personaggio storico, dal momento che è il frutto di pesanti deformazioni e trasfigurazioni, siano esse d’intento polemico oppure di semplice elaborazione letteraria. Per un verso Teoderico appare presente nella tradizione delle ballate danesi, svedesi e norvegesi, giunte fino a noi per lo più in manoscritti del XVI secolo, e nelle saghe svedesi e norvegesi, redatte soprattutto a partire dal XIII secolo, sulla base di materiali anteriori. Non è immediato percepire come la fama di un re divenuto famoso in Italia, tra V e VI secolo, abbia potuto giungere a radicarsi nell’estremo nord del continente europeo, a tale distanza di tempo. È plausibile che racconto su Teoderico, di aperta esaltazione della sua figura, si siano diffusi dall’Italia nelle regioni immediatamente oltre le Alpi all’indomani della caduta del regno ostrogoto, mediante i Goti superstiti trasferitisi in nuovi paesi o i diversi canali di parentela e amicizia fra le aristocrazie gote e quelle di altre stirpi barbare. Dalle regioni transalpine, nel corso dei secoli, i canti su Teoderico, continuamente rielaborati, sarebbero risaliti, grazie a cantori itineranti, fino alle corti scandinave, dove avrebbero trovato una codificazione scritta. Nelle ballate e saghe nordiche Teoderico diventa Diderik af Bern, «Teodorico di Verona», signore di quella città cui, come si è visto, già gli autori antichi lo avevano strettamente associato, perché lì aveva ottenuto il successo decisivo su Odoacre che gli aveva assicurato il governo sull’Italia. Nei diversi testi Diderik è reso protagonista di vicende mirabolanti, di pura fantasia, in cui si mischiano differenti narrazioni e personaggi letterari. In una famiglia di ballate, egli guida una spedizione contro il paese di Birtingsland (forse la Bretagna di Artù?) e si batte con il re Isak, che è difeso da un gigante, Risker, contro il quale Diderik impiega il proprio campione Vidrik Verlandsson, identificabile con il Wittrich, o Witke, di varie saghe tedesche. In un altro racconto Diderik combatte addirittura a fianco di un leone contro un drago, che piega in virtù di uno stratagemma; invece in un ultimo canto egli invade lo Jutland del ribelle Holger, che rifiuta di sottomettersi al suo potere, finendo però, questa volta, con l’essere sconfitto rovinosamente, visto che il suo esercito viene interamente distrutto.

Codex Pal. germ. 359, f. 1v (1420 ca.). Duello fra Diderik e Sigfrid dal Rosengarten zu Worms.
Codex Pal. germ. 359, f. 1v (1420 ca.). Duello fra Diderik e Sigfrid dal Rosengarten zu Worms.

In un caso come quello rappresentato da quest’ultima ballata, molto tarda, sembra evidente la trasposizione in un’epoca immaginaria e pregna di echi letterari di vicende contemporanee, dal momento che la lotta di Holger (una figura tratta dal ciclo di Carlo Magno) pare proprio simboleggiare le guerre dinastiche della Danimarca del XVI secolo; Diderik è qui ridotto a emblema del re straniero e oppressore, senza alcuna correlazione superstite non solo con la figura storica del re ostrogoto, ma nemmeno con la sua trasfigurazione eroica, propria delle saghe anteriori. In opere precedenti, pur senza poter negare la fondamentale rielaborazione letteraria avvenuta, alcuni critici vedono invece il permanere di tracce di vicende storiche reali legate al vero Teoderico: se così, si dovrebbe allora pensare che i cantari più risalenti abbiano tramandato imprese autentiche dell’Amalo, e che solo in seguito esse siano state trasformate poeticamente, contaminandosi con altre tradizioni. In tale prospettiva, ad esempio, la spedizione in Birtingsland sarebbe il calco della spedizione condotta da Teoderico in Asia Minore nel 484, su ordine dell’imperatore Zenone, per stroncare l’insurrezione dell’Isauria; lo scontro finale con Isak rappresenterebbe la battaglia di Cherreos, che vide Teoderico assediare il rivoltoso Illus e Verina, suocera dello stesso Zenone. Nella ballata, Verina potrebbe essere rappresentata da una strega, presente nella narrazione. Alla rivolta di costei contro il potere imperiale legittimo potrebbe riferirsi allegoricamente anche la storia della lotta tra il drago e il leone, partecipe Diderik/Teoderico, visto che Verina era vedova dell’imperatore Leone e aveva cercato di condurre al trono l’usurpatore Basilisco («il drago», in lingua greca), contro il legittimo erede Zenone. Allo stesso tempo, però, non si può omettere di segnalare come la lotta con il drago/serpente sia una costante in contesti culturali diversissimi, dai gveda indiani all’Avestā persiano, fino alle saghe germaniche di Beowulf o di Sigfrid e alla Bibbia. Anche prescindendo dalla plausibilità di simili derivazioni e richiami, che restano ben difficili da dimostrare, rimane la constatazione di quanto poco abbia a che fare, nel complesso, Diderik con Teoderico. Uno stravolgimento, anche se di natura totalmente diversa, della figura dell’Amalo si riscontra pure nella tradizione generatasi in seno all’ambiente romano-cattolico, dove Teoderico e gli altri re degli Ostrogoti divennero una sorta di emblema del re barbaro eretico e persecutore, nemico della cattolicità e dei valori romani. Nelle fonti di origine pontificia, in particolare nel Liber Pontificalis, l’intera epoca dei Goti in Italia viene bollata come un periodo di arbitrio e di persecuzione, anche se è in particolare Totila, il più pericoloso eversore della proprietà e del diritto agli occhi del ceto senatorio, ad attirare i maggiori strali. Totila diventa l’espressione migliore della crudeltà e dell’empietà barbariche, il tyrannus che spregia il diritto e al quale i Dialoghi di papa Gregorio Magno attribuiscono, a posteriori (l’opera venne redatta tra il 593 e il 594), svariati episodi di soprusi contro la proprietà della Chiesa e la vita degli ecclesiastici, da lui umiliati, torturati, assassinati. Connotazione fortemente negativa assume anche la figura di Teodato, non solo perché omicida di Amalasunta, ma anche per aver voluto nel 536 come papa, Silverio, sgradito a Costantinopoli.

Codice Chigi L VIII 296, f. 36r (XIII sec.). Giovanni Villani, Cronica Nuova. Totila distrugge le mura di Firenze.
Codice Chigi L VIII 296, f. 36r (XIII sec.). Giovanni Villani, Cronica Nuova. Totila distrugge le mura di Firenze.

Il giudizio su Teoderico resta meno netto, rispetto alla condanna irrimediabile e perpetua che si poté pronunciare su Totila. In fondo ciò che non tornava nel bilancio sull’Amalo era, come detto, lo scarto tra una prima parte della sua attività di governo sostanzialmente accettabile dai Romani e dalla Chiesa (come durante lo scisma laurenziano) e una «svolta» successiva, di segno ostile; colpiva soprattutto l’apparente repentinità di tale mutamento, tanto che l’Anonimo Valesiano poteva ben fare riferimento alla possessione diabolica per spiegare le «improvvise» misure contro i cattolici assunte da Teoderico, a cominciare dalla distruzione di una chiesa a Verona, ma anche dalla protezione accordata agli Ebrei. Il racconto che in modo più efficace fissò per i posteri l’immagine di Teoderico dal punto di vista della Chiesa, suggellandone la memoria, è però il noto brano contenuto nei Dialoghi di Gregorio Magno, altrimenti, come s’è visto, accaniti soprattutto contro Totila. Nella narrazione gregoriana, si riferisce la testimonianza, che lo stesso papa dichiarava di aver ricevuto da tale Giuliano, secundus defensor della Chiesa di Roma, circa la visione profetica avuta, molti anni prima, da un santo eremita nell’isola di Lipari; a questi, proprio nell’istante in cui il re goto moriva a molti chilometri di distanza, Teoderico era apparso scalzo e poveramente vestito, con le mani legate e scortato dalle sue vittime Simmaco e papa Giovanni I, per essere infine gettato dentro il cratere di un vulcano, dove lo attendeva il fuoco eterno[14]. Tale immagine, d’immediato impatto visivo nella sua drammatica plasticità, sintetizzò al meglio il bilancio ultimo stilato dai ceti dirigenti romani e cattolici (di cui Gregorio Magno era ottimo esponente) sull’esperienza teodericiana, consegnando in via definitiva il barbaro persecutore della Chiesa e del Senato al biasimo perpetuo di quanti continuano a riconoscersi nei valori della tradizione romano-imperiale.

 

Note all’articolo

[1] Magni Aurelii Cassiodori Variarum libri XII, ed. A.J. Fridh, Turnholti 1973 (Corpus Christianorum, Series Latina, 96), I, 1 (d’ora in avanti, Cass. Variae).

[2] Magni Felicis Ennodi Panegyricus dictus clementissimo regi Theoderico, in Eiusd. Opera omnia, ed. W. Hartel, Vindobonae 1882 (ristampa anastatica New York-London 1968) (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 6), pp. 262-286, alle pp. 271-272: rivolgendosi a Teoderico, gli indica come «tua» la città di Verona, perché fortunato teatro di successo su Odoacre.

[3] Cass. Variae, II, 39.

[4] Agathiae Myrinaei Historiarum libri quinque, ed. R. Keydell, I-II, Berolini 1967 (Corpus Fontium Historiae Byzantinae, 2), I, 1, 6.

[5] Cass. Variae, II, 19.

[6] Cass. Variae, VII, 4.

[7] Fragmenta historica ab Henrico et Hadriano Valesio primum edita (Anonymus Valesianus), ed. R. Cessi, in Rerum Italicarum Scriptores, nuova edizione, XXIV/4, Città di Castello 1912-1913, 17 (d’ora in avanti, Anonymus Valesianus).

[8] Cass. Variae, IX, 14.

[9] Procopii Caesariensis De bello Gothico, in Eiusd. Opera omnia, II edd. J. Haury – G. Wirth, Lipsiae 1963 (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana), I, 3 (d’ora in avanti, Proc. Bell. Goth.).

[10] Epistolae Theodericianae variae, ed. T. Mommsen, in Monumenta Germaniae Historica, Auctores antiquissimi, XII, Berolini 1894, pp. 387-392: 1, 3, 6 (a Teoderico); 4, 5 (a Ereleuva).

[11] Le Liber Pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1955, pp. 269-270.

[12] Ivi, p. 276. Si veda anche Anonymus Valesianus, pp. 20-21.

[13] Proc. Bell. Goth. I, 2.

[14] Grégoire le Grand, Dialogues, ed. A. De Vogué, Paris 1980, IV, 31.

I Mercenari

di D. Nicolle, Italian Medieval Armies, 1300-1500, London 1983.

Un’Europa diversa.

Simone Martini, Guidoriccio da Fogliano all'assedio di Montemassi. Affresco, 1328. Siena, Palazzo Pubblico.
Simone Martini, Guidoriccio da Fogliano all’assedio di Montemassi. Affresco, 1328. Siena, Palazzo Pubblico.

I mercenari furono un elemento caratteristico dell’Europa del XIV e del XV secolo, sebbene li si conoscesse già da tempo. Tuttavia, in Italia si sviluppò un sistema di arruolamento, retribuzione e organizzazione particolarmente sofisticato. Esso divenne noto come il sistema dei condottieri, e fu il prodotto delle peculiari condizioni politiche, economiche e sociali italiane.
Il Paese era frammentato in numerosi Stati indipendenti, molti dei quali erano più urbanizzati e maggiormente sviluppati economicamente rispetto ai territori a nord delle Alpi. Inoltre, il cosiddetto sistema feudale, che regolava il possesso della terra e i rapporti di potere, in pochi casi si era radicato in Italia, eccetto che nel profondo Sud e in alcune periferiche regioni di montagna al Nord. Le milizie cittadine, nelle quali i poveri costituivano la fanteria e i ricchi prestavano servizio come cavalleria, fino al XIV secolo erano state guidate da un’aristocrazia avente la propria base nelle città. Nel periodo compreso tra l’XI e il XIII secolo, tali forze avevano permesso ai centri urbani di dominare le campagne circostanti. Protessero anche l’Italia dalla dominazione dell’imperatore tedesco, il quale reclamava l’autorità sulla maggior parte della penisola. Frattanto le campagne fornivano le reclute ed erano punteggiate di castelli, la maggior parte dei quali dipendevano dalle città o erano di proprietà dei signori che per lo più vivevano in città.
L’importanza del soldato mercenario sorgeva col declinare in termini di efficacia delle milizie cittadine, o allorché l’aggressività politica di una città richiedeva un esercito permanente, o ancora quando le tensioni politiche creavano spaccature in seno alla milizia. Era raro che i mercenari venissero assoldati perché gli abitanti delle città, sempre più ricchi, intendevano pagare altri che assolvessero in loro vece gli impopolari obblighi militari.
Il risultato fu la nascita della figura del condottiero, il capo dei mercenari il cui nome derivava dalla condotta, ovvero il contratto tra questi e colui che lo assoldava, anche se il termine finì per indicare tutte le analoghe figure di mercenario. Che fosse un comandante o un umile soldato di truppa, il condottiero italiano del XIV secolo era un professionista scrupoloso le cui capacità non sono mai state messe in dubbio, a differenza di quanto è spesso avvenuto per quanto riguarda la sua lealtà. Nei secoli successivi, la cattiva reputazione dei condottieri, fatto piuttosto ironico, fu un prodotto delle critiche provenienti dall’Italia stessa. Il più famoso tra questi critici fu Niccolò Machiavelli, il commentatore politico del XVI secolo, che però non fu l’unico stratega da salotto a lanciare un’ingiustificata accusa del sistema dei condottieri. Per quanto un mercenario non ambisse, com’è ovvio, a una morte da eroe, era pur sempre un uomo d’affari la cui sopravvivenza dipendeva da una buona reputazione e da risultati militari soddisfacenti.
Il fatto che il sistema sia durato tanto a lungo dovrebbe far presumere un discreto successo, e sembra che la guerra nell’Italia medievale – un’area di notevoli tensioni sociali, economiche, politiche e perfino religiose – sia stata in generale non meno distruttiva che in altre parti d’Europa. Anche il venir meno del sistema dei condottieri di fronte alle invasioni straniere all’inizio del XVI secolo non fu tanto l’effetto delle sue debolezze, quanto il risultato di un cambiamento nei modelli di conduzione della guerra. Per risposta, la leadership mercenaria medievale si trasformò in qualcosa d’altro: alla fine, forse, nella classe ufficiali proveniente da quella stessa aristocrazia minore.

Donatello, Monumento equestre al Gattamelata. Bronzo, 1446-1453. Padova, Piazza del Santo.
Donatello, Monumento equestre al Gattamelata. Bronzo, 1446-1453. Padova, Piazza del Santo.

Il mercenario medievale.

I mercenari avevano giocato un ruolo fondamentale nelle guerre italiane del XII e del XIII secolo, anche se le milizie locali rimasero più importanti. La tradizione che prevedeva il servizio militare universale per i maschi di città e villaggi, imposto dai re longobardi nell’VIII secolo, fu estesa alle campagne allorché le città estesero il proprio controllo. Le milizie che ne risultavano erano organizzate attorno ai quartieri cittadini e a città subordinate, mentre il servizio prestato era di norma a carattere difensivo e di rado si prolungava per più di una settimana. Inoltre, l’orgoglio campanilistico così caratteristico in Italia faceva sì che il servizio militare venisse accettato come un dovere civico e scatenasse raramente dei risentimenti.
Dato il ruolo commerciale e militare dell’Italia durante le Crociate, e il successo degli arcieri di fanteria mussulmani provenienti dalla Sicilia, non sorprende che le tradizioni islamiche nel campo dell’arcieria si riflettessero ben presto nelle tattiche italiane. Questo si tradusse, tuttavia, nell’entusiastica adozione della balestra da fanteria anziché nello stile orientale caratterizzato dal tiro a cavallo con archi compositi. A sua volta, ciò portò ad un aumento nel peso delle armature per la cavalleria, in scudi più grandi per la fanteria, e nel bisogno di un maggiore coordinamento tra la cavalleria e la fanteria – seguite da mercenari ben equipaggiati e validamente addestrati che si incaricavano di affrontare gran parte dei combattimenti. Per esempio, Genova e Pisa, che per tradizione avevano stretto contatti commerciali con il mondo islamico, produssero i primi balestrieri professionisti d’Europa.
Molti altri soldati di fanteria misero allora da parte la lancia corta, la spada e il piccolo scudo in cambio di una lunga picca e uno scudo di tipo ampio che poggiava sul terreno, talvolta tenuto da un militare incaricato di reggerlo. I cavalieri adottarono forme più estese di armature a piastre, armature da cavallo e cavalli di riserva, equipaggiamenti che comportavano spese e addestramento assai maggiori. Queste furono le origini della lancia, termine indicante la più piccola unità di cavalleria che, per sua natura, tendeva a essere professionale e pertanto mercenaria.
Le circostanze politiche inducevano di solito chi assoldava mercenari a preferire stranieri o uomini originari di altre parti d’Italia. In effetti, molti stranieri erano giunti in Italia con gli eserciti invasori dalla Germania imperiale o dalla Francia angioina, oppure per combattere a favore del Papa contro i suoi avversari locali. Sebbene venissero inizialmente reclutate su base individuale, le unità mercenarie divennero caratteristiche permanenti di diverse città. E alcune furono ben presto arruolate come piccoli gruppi pronti agli ordini dei propri comandanti.
Le milizie comunali continuarono a dominare in Italia settentrionale, ma anche qui le cose stavano cambiando. La ragione principale del declino delle milizie settentrionali fu la frantumazione politica in fazioni anziché l’imporsi del potere di oligarchie o di signorie aristocratiche. Nel frattempo, i mercenari erano ormai facilmente disponibili, abili ed economici. L’idea di affidarsi a elementi esterni, in teoria estranei alla politica locale, aveva già dimostrato la sua validità nella figura dei podestà, massimi magistrati assoldati da fuori, che avevano già portato la pace in diverse città italiane spaccate dalle fazioni. Talvolta, agli inizi del XIV secolo, le guardie del podestà diventarono il nucleo di una compagnia mercenaria. Al contempo simili forze permanenti occorrevano non per sorvegliare le mura cittadine, compito che rimaneva responsabilità delle milizie locali, ma per tenere sotto controllo le frontiere dei contadini circostanti o per attaccare città rivali.
Questo periodo vide analogamente alcune città affidare la propria difesa a un capo mercenario e al suo esercito già pronto. Tale personaggio veniva chiamato capitano generale, e veniva stipulata una condotta. Frattanto i cittadini del posto potevano concentrarsi sulla gestione dei loro affari o commerci, pagando tasse per il mantenimento dell’esercito dei condottieri e, fin troppo spesso, riservando le proprie energie marziali per spietate lotte politiche.

Verrocchio, Monumento equestre a Bartolomeo Colleoni. Venezia, Campo Santo dei SS. Giovanni e Paolo.
Verrocchio, Monumento equestre a Bartolomeo Colleoni. Venezia, Campo Santo dei SS. Giovanni e Paolo.

Le compagnie.

L’anno 1300 segna l’emergere dei mercenari come forza dominante nell’arte della guerra dell’Italia medievale, ma gruppi di soldati con capacità specialistiche venivano reclutati da lungo tempo in unità identificabili come tali. Questi comprendevano i cavalieri francesi e i balestrieri pisani. In questo modo si semplificavano le cose per gli addetti alle paghe, mentre l’efficienza di tali unità era accresciuta dal momento che i suoi componenti conoscevano il proprio capo e avevano esperienza delle proprie tattiche.
Il materiale documentario si concentra sui comandanti assai noti, ma le compagnie guidate dai primi condottieri rimasero di piccole dimensioni. Guglielmo della Torre, per esempio, assurse dai ranghi dei mercenari per comparire nel libro paga dei Senesi nel 1285 a capo di 114 cavalieri. Una compagnia d’inizio XIV secolo era forte di circa 800 uomini, compresi sia quelli a cavallo, sia quelli a piedi, ma era un’eccezione. Così come lo erano le enormi bande di saccheggiatori vagabondi che attiravano l’attenzione dei cronisti dell’epoca.
La natura stagionale e a breve termine delle guerre italiane rendeva incerte le prospettive di un mercenario tipico, e quando i tempi si facevano duri questi era spesso costretto a divenire un bandito per procacciarsi il pane. Molti mercenari erano stranieri e scoprirono che le loro possibilità di successo erano maggiori se si univano in bande. La maggioranza delle compagnie più grandi degli inizi del XIV secolo era, infatti, nata dalla fusione di unità più piccole raccoltesi assieme per superare un periodo di magra. Forse per questo motivo erano tanto democratiche. Il comandante in capo veniva eletto, le decisioni erano precedute da ampie consultazioni, e i consiglieri che rappresentavano la truppa partecipavano alla stipula dei contratti, mentre il bottino veniva diviso sulla base del grado e dell’anzianità di servizio.

Konrad Wirtinger von Landau (noto come Conte Lando). Lastra murale, marmo, 1363. Avane (PI), Chiesa parrocchiale.

Tra queste prime compagnie libere ci fu la Compagnia di Siena, che operò in Umbria (1322-1323), la Compagnia del Cerruglio, che operò nell’area di Lucca (1329-1330) e i Cavalieri della Colomba, che furono attivi in Lombardia e in Toscana (1334). In queste prime formazioni predominavano i cavalieri tedeschi, ma anche i Catalani giocarono un ruolo essenziale, in particolare alcuni leader come Guglielmo della Torre e Diego de Rat. La Grande Compagnia Catalana, che devastò l’Impero bizantino più o meno in questo periodo, traeva le sue origini dalle truppe catalane portate nell’Italia meridionale da re Federico d’Aragona. Il loro capo era un italiano di origine tedesca, Ruggero de Flor, definito «il padre di tutti li condottieri» da cronista fiorentino Villani. Diversi eminenti condottieri italiani avevano anche ambizioni territoriali. Castruccio Castracani, per esempio, servì molti principi prima di assumere il controllo di Lucca, sua città natale (1314-1328). Al contrario, Guidoriccio da Fogliano rimase un soldato di professione che servì fedelmente Siena (1327-1334) prima di combattere per Mastino della Scala di Verona.
Il numero dei mercenari non Italiani in Italia all’inizio del XIV secolo era considerevole: almeno 10000 cavalieri tedeschi solo tra il 1320 e il 1360. Svizzeri, Catalani, Provenzali, Fiamminghi, Castigliani, Francesi e Inglesi erano tutti presenti, mentre gli Ungheresi fecero la loro apparizione dopo il 1347. Le grandi compagnie da loro formate rappresentavano adesso contingenti militari significativi. La prima delle temute compagnie libere fu la Compagnia di San Giorgio, costituita da Lodrisio Visconti con veterani smobilitati nella vana speranza di assumere il controllo della natìa Milano nel 1339-1340.
Werner von Ürslingen, un condottiero tedesco di spicco, era un superstite di quella compagnia e fu il fondatore della più efficace Grande Compagnia due anni più tardi. Nel 1342, un’altra Grande Compagnia contava a quanto pare 3000 cavalieri più un egual numero di uomini al seguito. Circa dieci anni più tardi, a quel che sembra, era cresciuta notevolmente, e consisteva ora di 10000 combattenti, comprendenti 7000 cavalieri e 2000 balestrieri, più altri 20000 civili al seguito. La sua organizzazione era parimenti impressionante, con un commissario stabile e un sistema giudiziario interno, che includeva delle forche mobili.

Giovanni di Rigino (o Bonino da Campione?), Cangrande della Scala. Statua equestre, marmo, 1340-1350. Verona, Museo di Castelvecchio.

La Grande Compagnia si trasferiva di città in città in cerca di denaro e offrendo in cambio protezione, o richiedendo paga in sovrappiù prima di lasciare il servizio di una città. La spietatezza di queste prime compagnie di condottieri era spaventosa. Nondimeno i loro atteggiamenti erano tipici del XIV secolo, un periodo di inquietudine, rivolte sociali e di temute epidemie di Peste Nera, la peste bubbonica che spazzò via un terzo della popolazione italiana.
Eppure anche la Grande Compagnia ebbe dei fallimenti. Nel 1342 una linea di pali appuntiti difesa dalla determinata milizia di Bologna negò alle truppe di Werner von Ürslingen il passaggio lungo la Val di Lamone per due mesi, fino a che non fu raggiunto un accordo. Nel 1358, agli ordini di Konrad von Landau, la Grande Compagnia fu messa in rotta da balestrieri e contadini coscritti della milizia di Firenze, sempre in una stretta vallata. In cerca di vendetta, l’anno seguente la Grande Compagnia fu sconfitta perfino su un terreno di propria scelta. Stavolta i vincitori consistevano in un esercito di mercenari italiani, tedeschi e ungheresi agli ordini di Pandolfo Malatesta, il primo rappresentante di questa famiglia a farsi una reputazione come mercenario. Pandolfo era anche l’esponente di una nuova tipologia, il principe mercenario che offriva i suoi servigi e la sua esperienza militare in cambio del benessere negatogli dal proprio patrimonio nella regione povera della Romagna.

Paolo Uccello, Monumento equestre a Giovanni Acuto. Affresco, 1436. Firenze, Cattedrale di S. Maria del Fiore.
Paolo Uccello, Monumento equestre a Giovanni Acuto. Affresco, 1436. Firenze, Cattedrale di S. Maria del Fiore.

Gli avventurieri inglesi.

Quando tra Inghilterra e Francia fu concordata una pace temporanea nel 1360, ponendo fine alla prima fase della Guerra dei Cent’anni, molti soldati inglesi si ritrovarono in difficoltà. Dopo aver devastato la valle del Rodano nella Francia orientale, circa 6000 di loro accettarono di porsi agli ordini di Albert Sterz, un cavaliere tedesco, e andarono a combattere per il duca di Savoia. Qui furono chiamati la Compagnia Bianca, e anche se gli Italiani si riferivano a loro come agli “Inglesi”, comprendevano Tedeschi, Francesi, Scozzesi e Gallesi. Si dice che il nome di Compagnia Bianca rispecchiasse la gran quantità di armature a piastre da loro indossate, che non venivano celate dagli abiti com’era in voga in Italia.
Il vistoso successo di questa compagnia dipese dalla sua disciplina superiore, anche se tutt’altro che perfetta, oltre che dalle tattiche apprese durante la Guerra dei Cent’anni, nonché dalla sua nota ferocia.
Gli uomini d’arme della Compagnia Bianca erano suddivisi in lance di due soldati, un caporale e il suo scudiero, anche se non era necessario che il primo fosse fatto cavaliere, oltre a un ragazzo, o valletto. Per quanto combattessero anche a cavallo, i componenti della Compagnia Bianca confondevano i loro avversari con tattiche di fanteria nelle quali i due uomini d’arme tenevano un’unica pesante lancia a mo’ di picca. Potevano perfino passare all’offensiva a piedi avanzando a ranghi serrati, mentre i paggi recavano i loro cavalli in caso di un inseguimento o di una ritirata improvvisa. Cinque lance formavano una posta, cinque poste formavano una bandiera.
Un’innovazione ancor più devastante per l’arte della guerra italiana fu l’arco lungo. Quest’ultimo non aveva la portata degli archi compositi e delle balestre, ma combinava la celerità di tiro dei primi con la potenza delle seconde. Gli archi lungi si potevano anche trovare in Italia, ma tendevano a essere utilizzati per andare a caccia più che per la guerra. Nondimeno, i rapidi sviluppi nel settore delle balestre, che richiedevano minore addestramento e minore forza, la crescente diffusione delle armi da fuoco portatili, e l’influenza delle nuove e più potenti tipologie turche di arco composito, resero gli archi lunghi della Compagnia Bianca un fenomeno effimero nel panorama bellico italiano.

[…]

Nascita del ceto medio

di A. Poloni, Potere al popolo. Conflitti sociali e lotte politiche nell’Italia comunale del Duecento, Milano-Torino 2010, pp. 9-20.

Venti di rivolta

Tra il 1199 e il 1200 la vita di Reggio Emilia fu improvvisamente sconvolta da una sollevazione popolare. I nobili definirono sprezzantemente gli insorti “Mazzaperlini”, “Ammazzapidocchi”, un’allusione, non proprio velata, alla bassa estrazione sociale della maggior parte di loro. Sempre nel 1200 il popolo di Brescia con un colpo di mano elesse un nuovo podestà. Nello stesso anno a Padova i popolari privarono i nobili dei poteri che esercitavano a vario titolo nelle campagne attorno alla città. Nel 1203 il popolo di Lucca, guidato da Ingherrame da Porcari, esponente di un’importante famiglia signorile del territorio lucchese, si ribellò ai nobili e li affrontò in diversi scontri militari fuori dalle mura cittadine. Anche il popolo di Milano si sollevò contro i nobili in quello stesso 1203. Nel 1206 a Vicenza i popolani, esasperati dalle lotte tra le fazioni aristocratiche, che impedivano il regolare funzionamento delle istituzioni cittadine, irruppero nel palazzo del Comune e nominarono podestà il milanese Guglielmo da Pusterla, che già altrove si era dimostrato sensibile alle istanze del populus. Sempre nel 1206 a Bergamo la potente famiglia dei Suardi tentò di impedire al podestà di convocare un’assemblea di cittadini nella chiesa di Santa Maria Maggiore; questo sopruso provocò la violenta reazione del popolo.
Negli stessi anni e in quelli immediatamente successivi in molte altre città dell’Italia centro-settentrionale si registrano avvenimenti simili. Ma qual è questo “popolo” che irrompe sulla scena comunale all’inizio del Duecento? Chi sono i populares, i popolari? Per ora è sufficiente dire che con il termine “popolo” le fonti duecentesche non indicano genericamente la popolazione cittadina, l’insieme degli abitanti della città, ma fanno riferimento a un movimento politico organizzato, i cui affiliati prendono appunto il nome di “popolari”. Si tratta di un movimento della forza trascinante, capace di coinvolgere migliaia di persone di ogni estrazione sociale in clamorose azioni di protesta.
Il popolo era un movimento di opposizione, e i suoi nemici, i suoi bersagli polemici, erano i potenti, i privilegiati, che nel linguaggio dell’epoca venivano chiamati nobiles, “nobili” o, più comunemente, milites, “cavalieri”. Il vertice della società cittadina era infatti occupato da un numero variabile di famiglie – da alcune decine nelle città più piccole ad alcune centinaia in quelle più grandi – che consideravano come proprio tratto distintivo la possibilità e la capacità di combattere a cavallo. Dall’inizio del Duecento il termine milites venne utilizzato sempre più spesso per indicare l’aristocrazia cittadina nel suo complesso in opposizione ai populares. In effetti l’immagine del cavaliere si prestava bene a riassumere la superiorità prima di tutto economica, ma anche sociale e politica di questo ceto rispetto al resto della società. Il combattimento a cavallo richiedeva innanzitutto notevoli risorse economiche: acquistare una lancia, una spada, un pugnale, un’armatura, ma soprattutto comprare e mantenere uno o, meglio, più cavalli non era certo alla portata di tutti. I cavalieri, inoltre, erano il corpo d’élite militare, un forte impatto scenografico capace di rappresentare visivamente il prestigio, la potenza, l’alterigia della classe alla quale appartenevano. Questa aristocrazia militare controllava le istituzioni e occupava praticamente tutte le cariche politiche del Comune.
L’improvvisa capacità di iniziativa dimostrata dal popolo all’inizio del Duecento diede inizio a decenni di lotte, di accordi precari, di tensioni controllate a fatica, di rivolte violente e di infiniti dibattiti nelle grandi sale dei palazzi comunali. Non che la vita che prima di allora si svolgeva all’ombra delle mura cittadine si possa definire pacifica, almeno non nel senso che attribuiamo oggi a questo aggettivo. I milites avevano costruito la loro identità di gruppo sulla guerra, sull’abilità nel combattimento, ed era inevitabile che l’ideologia e il linguaggio che facevano da sfondo alla loro preminenza influenzassero il loro comportamento anche in tempo di pace. Uno sgarbo, un’offesa, un qualunque atto che potesse essere interpretato come una mancanza di rispetto dava luogo a conflitti che dilagavano rapidamente, coinvolgevano prima nuclei familiari, poi lignaggi interi e infine gruppi di famiglie alleate tra loro. Le inimicizie familiari si tramandavano di padre in figlio e riesplodevano periodicamente in faide, guerricciole, agguati. I conflitti non rimanevano relegati nel privato – ammesso che per il XII secolo si possa davvero parlare di una sfera privata separata da quella pubblica. Le guerre tra famiglie e tra gruppi di famiglie si intrecciavano e si sovrapponevano alla lotta per il potere, gli odi personali irrompevano immancabilmente nelle assemblee dove si decideva la politica cittadina.

Ambrogio Lorenzetti, Allegoria degli Effetti del Cattivo Governo in Campagna. Affresco, 1338-1339, sulla parete di sinistra della Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Siena.

Anche prima della repentina comparsa del popolo, dunque, la vita nelle città non scorreva certo tranquilla; possiamo dire anzi che il conflitto e lo scontro, verbale e fisico, erano connaturati all’esistenza stessa del Comune, non costituivano l’eccezione, il momento di trasgressione, ma piuttosto una regola con la quale a lungo si convisse senza troppi problemi. Il conflitto, inoltre, non rimaneva confinato all’interno del ceto dei milites. I lignaggi aristocratici disponevano di un’ampia rete di alleati, amici, supporters e clienti che affondava in tutti gli strati della società e che comprendeva – oltre a un numero variabile di pari in grado – ricchi mercanti che a volte, magari in cambio di prestiti o sovvenzioni, si erano visti concedere l’onore di un matrimonio con una fanciulla blasonata, piccoli proprietari terrieri e artigiani bisognosi di protezione, contadini dipendenti che lavoravano sulle terre dei milites. La società comunale era, a tutti i livelli, una società turbolenta e per molti versi violenta.
Ciò non significa che l’ingresso del popolo sulla scena pubblica abbia semplicemente aggiunto un ulteriore elemento di complicazione a un quadro già di per sé piuttosto mosso. Il nuovo protagonismo del popolo rappresentò, all’inizio del Duecento, un fenomeno del tutto inedito. Per la prima volta a prendere autonomamente l’iniziativa di dar vita a un movimento di opposizione furono i gruppi sociali esclusi dal potere, estranei alla cerchia privilegiata dei milites, coloro che, se pure in passato avevano preso parte alla vita politica del Comune, lo avevano fatto in modo del tutto marginale e subordinato alle esigenze dei potenti.
Certo in molti casi, soprattutto in questa prima fase, il popolo si scelse una guida militare e carismatica all’interno dello stesso ceto dei milites o tra gli esponenti più irrequieti delle grandi famiglie di signori rurali che proprio a cavallo tra il XII e il XIII secolo stavano scegliendo in gran numero di abbandonare i castelli e le fortezze sparsi per le campagne per godersi gli agi della vita di città. È innegabile che i nobili che accettavano di appoggiare le rivendicazioni popolari fossero spesso mossi da un calcolo politico, e che intendessero giocare questa nuova carta nell’ambito della tradizionale competizione tra famiglie aristocratiche.
Tutto ciò non cambia però nella sostanza i termini della questione. Fino a quel momento i mercanti, i bottegai, gli artigiani, i piccoli proprietari terrieri avevano preso parte al conflitto, che era allo stesso tempo economico, sociale e politico, soltanto all’interno dei seguiti armati e delle reti clientelari che facevano capo alle famiglie aristocratiche. Dall’inizio del Duecento essi tentarono di conquistarsi uno spazio nella vita pubblica puntando non più sulle relazioni verticali con i potenti, ma sulla solidarietà orizzontale che li legava agli altri esclusi, a tutti coloro che, al di là delle differenze, spesso notevoli, di status e di condizione economica, erano accomunati dal fatto di essere dei non milites. Di essere cioè dei pedites, gente che combatte a piedi, un’altra etichetta che i nuovi protagonisti scelsero spesso per sé in aggiunta a quella di populares, o al posto di essa.
Il conflitto tra milites e populus ha inoltre una natura e un contenuto profondamente diversi dalle lotte tra i lignaggi aristocratici. Certo, il popolo desiderava una maggiore partecipazione alla vita politica del Comune e, bisogna ammetterlo, era anche animato da una certa ostilità di classe nei confronti dei milites. Ma la vera novità è che il popolo, a differenza delle fazioni nobiliari che da sempre si scontravano per le strade della città, aveva, come vedremo, qualcosa di molto simile a un programma politico. Esso non intendeva semplicemente prendere parte all’accaparramento delle cariche comunali, alla spartizione delle risorse economiche legate al controllo delle istituzioni – anche se questo aspetto non era certo assente – ma intendeva affermare una sua concezione della politica, una sua precisa idea di come dovesse funzionare il Comune, di quale dovesse essere il comportamento della classe dirigente, di quale dovesse essere il rapporto tra governanti e governati.

Miniatura raffigurante la cattura, il processo e il supplizio di un villano.

Lotta di classe senza la classe

La lotta del popolo era quindi qualcosa di simile a una lotta di classe. Il problema è che il popolo non può in alcun modo essere considerato una classe. In effetti populus, populares, pedites erano contenitori politici molto capienti riempiti con gli oggetti più disparati. Dentro il popolo si incontravano gruppi sociali, interessi economici, sensibilità politiche profondamente diverse tra loro.
In prima linea nel populus troviamo spesso mercanti di una certa levatura. Nelle città economicamente più dinamiche – come Lucca, Siena, Firenze, Asti – si tratta anche di uomini d’affari impegnati nei traffici internazionali e in attività finanziarie di alto livello, spesso in rapporto con le principali corti europee. A un gradino inferiore, un po’ in tutte le città dell’Italia centro-settentrionale, non mancano i mercanti di medio rango, che hanno saputo conquistarsi un certo benessere grazie agli scambi a livello locale, regionale o sovraregionale e lucrando, attraverso la concessione di prestiti, in genere su pegno, sulle difficoltà economiche di monasteri, enti ecclesiastici e persino famiglie aristocratiche in decadenza.
I mercanti di alto e medio rango solo a fatica possono essere fatti rientrare nella categoria, del resto tutt’altro che ben definita, degli esclusi dalla politica. I membri più intraprendenti di questo gruppo già all’inizio del Duecento mettevano a disposizione del Comune le loro peculiari competenze nella gestione del denaro ricoprendo incarichi di carattere amministrativo e fiscale. Non è raro trovare mercanti, anche provenienti da famiglie di origine recente, nella veste di tesorieri del Comune, o responsabili della riscossione di qualche imposta.
Le famiglie benestanti avevano inoltre un’altra possibilità di avvicinarsi alle stanze del potere: avviare i loro rampolli alle professioni giuridiche. Proprio negli anni a cavallo tra il XII e il XIII secolo in tutti i Comuni si andava definendo, per andare incontro alle esigenze di una società resa sempre più complessa e stratificata dall’incremento demografico e dalla crescita economica, un sistema giudiziario articolato in una serie di tribunali (curie) con diverse competenze. C’era dunque bisogno di giudici, e in questo campo la cultura personale e la preparazione professionale erano spesso determinanti, al di là dell’origine familiare. Come in altre epoche, in sostanza, i cittadini che ne avevano le possibilità economiche puntavano anche sull’istruzione come fattore di mobilità sociale. Bisogna inoltre considerare che all’inizio del Duecento molti esperti del diritto provenivano ancora dalle fila della militia, e che dunque avere un giudice in famiglia consentiva di stringere relazioni con personaggi molto influenti. Il denaro, in pratica, permetteva ai mercanti di maggior successo di entrare in contatto con gli ambienti più esclusivi e di frequentare i luoghi dove si prendevano le decisioni che riguardavano la città.
L’attività mercantile non era comunque, tra XII e XIII secolo, l’unica strada per raggiungere una certa agiatezza e nutrire fondate ambizioni di ascesa sociale. Il XII secolo, in particolare la seconda metà, fu caratterizzato da un forte aumento della popolazione delle città comunali. All’incremento demografico che caratterizzò nello stesso periodo tutta l’Europa si aggiunse infatti il fenomeno dell’inurbamento degli abitanti delle campagne. Attratti dalle tante opportunità economiche offerte dall’ambiente urbano, piccoli e medi proprietari rurali, artigiani che lavoravano nei villaggi, ma anche contadini senza terra che non riuscivano più a sfamare la famiglia con gli appezzamenti presi in affitto si spostavano dentro le mura della città o nei borghi che si sviluppavano rapidamente a ridosso di esse. Tutta questa gente però doveva essere nutrita. Il mercato cittadino assorbiva gran parte della produzione delle campagne, ma spesso per soddisfare le necessità di una popolazione sempre più numerosa e sempre più esigente si era costretti a ricorrere all’importazione di prodotti alimentari da altre aree. Inevitabilmente si innescavano fenomeni inflazionistici: si è calcolato, per esempio, che a Lucca nel periodo compreso tra il 1160 e il 1200 i prezzi aumentarono del 150%, con un picco negli anni novanta.
I proprietari terrieri, almeno quelli che per vivere non erano costretti a coltivare direttamente la loro terra, ma la davano in affitto ai contadini, non se la passavano affatto male. I prodotti dei loro campi si vendevano molto bene. Certo l’inflazione provocava una rapida perdita di valore degli affitti percepiti in denaro, ma esisteva una soluzione. Quasi ovunque, tra il XII e il XIII secolo, i canoni in denaro vennero sostituiti da affitti in natura, che potevano essere proficuamente commercializzati sul mercato cittadino. I proprietari più intraprendenti ricontrattarono gli affitti con i contadini e imposero loro condizioni più pesanti e il versamento di una quota maggiore dei raccolti.
Insomma, all’inizio del Duecento non erano pochi i piccoli e medi proprietari residenti in città che si possono definire benestanti. La città offriva loro anche possibilità per far fruttare il denaro. Essi potevano per esempio finanziare le attività di qualche mercante, oppure investire in prestiti su pegno a chiese e monasteri in difficoltà. Spesso gli enti religiosi non riuscivano a restituire il muto e il prestatore si teneva il pegno, in genere costituito da un appezzamento di terra. In questo periodo di forte crescita economica perciò anche i medi e persino i piccoli proprietari terrieri riuscivano in alcuni casi a dare un’istruzione superiore ad almeno uno dei loro figli e a vederlo inserito nell’ambiente prestigioso dei giudici che prestavano servizio nei tribunali cittadini.
Tra il XII e il XIII secolo, in tutti i Comuni italiani erano tante le famiglie impegnate in una faticosa scalata sociale. Un esempio può essere utile per rendere un po’ meno anonima questa folla che forse non ha ancora ricevuto dagli storici tutta l’attenzione che meriterebbe. Gli Onesti furono nella seconda metà del Duecento una tra le famiglie più in vista del nuovo gruppo dirigente formatosi a Lucca dopo l’affermazione del popolo. Onesto, il capostipite eponimo della famiglia, visse nella seconda metà del XII secolo. Di lui non sappiamo praticamente nulla; negli archivi di Lucca non si è conservato un solo documento che lo riguardi direttamente. L’unica cosa che sappiamo è che ebbe cinque figli, e tutti ricevettero dal padre il sostegno economico e morale necessario per farsi strada ai livelli più alti della società cittadina. Onesto doveva quindi essere benestante: si trattava con ogni probabilità di un piccolo proprietario terriero che riuscì ad approfittare del trend economico fortemente positivo della seconda metà del XII secolo. Forse era immigrato dal contado; quello che è certo è che viveva nel Borgo di San Frediano, la parte della città esterna al “centro storico” circondato dalle mura altomedievali dove si concentravano le residenze dei milites. San Frediano, alla fine del XII secolo, era un po’ la “periferia” di Lucca, dove vivevano le famiglie di più recente immigrazione, gli artigiani e tutti gli addetti alle attività produttive, gli “uomini nuovi” che cercavano di approfittare delle opportunità offerte dallo stimolante ambiente cittadino.
Tancredo, uno dei figli di Onesto, divenne un esperto di diritto, e nelle fonti compare come causidicus. Tale qualifica indicava una formazione bolognese, al contrario del titolo di iudex, che era conseguibile attraverso una preparazione interamente locale. Questa circostanza è indicativa dell’ambiente di Onesto e delle sue notevoli possibilità economiche. Tancredo ebbe una carriera ben avviata e fin dagli anni novanta del XII secolo mise le sue competenze a disposizione dei vari tribunali cittadini. Noradino, un altro figlio di Onesto, sfruttò al meglio l’estesa rete di contatti nella quale il fratello era in grado di introdurlo e s’impegnò in politica, riuscendo in breve tempo a diventare uno dei leaders del nascente movimento popolare. Gli ultimi tre fratelli, Benetto, Gualterio e Ughetto, scelsero invece la mercatura.
Nei primissimi anni del Duecento l’economia lucchese stava cambiando volto sotto gli effetti di quel fenomeno che gli storici definiscono “rivoluzione commerciale”, paragonabile, per la portata delle trasformazioni che produsse, alla “rivoluzione industriale” che apre l’età contemporanea. Da secoli gli artigiani lucchesi si erano fatti una certa fama per la loro abilità nella lavorazione della seta. Si trattava però di una piccola produzione locale, che non era in grado di rivaleggiare con la ben più sviluppata industria serica del mondo bizantino. Dall’inizio del XIII secolo, tuttavia, la manifattura serica lucchese subì un forte sviluppo e cominciò a esportare i suoi prodotti soprattutto in Francia e, più tardi, in Inghilterra. Nel giro di pochi decenni Lucca, l’unica città del mondo occidentale specializzata nella lavorazione della seta, ottenne il monopolio di fatto della fornitura di tessuti serici alle corti reali e principesche e alle aristocrazie del nord Europa.
Benetto, Gualterio e Ughetto, i tre figli di Onesto, furono tra i Lucchesi artefici di questo fondamentale salto di qualità. Dai primissimi anni del Duecento i fratelli si dedicarono all’affare, sempre più redditizio, dell’importazione a Lucca della seta greggia che veniva utilizzata nelle botteghe cittadine per la produzione degli zendali, i leggerissimi tessuti di seta per i quali Lucca divenne presto celebre in tutta Europa. Benetto, Gualterio e Ughetto acquistavano la materia prima a Genova; fin dal XII secolo infatti i Lucchesi, che avevano un pessimo rapporto con la vicina Pisa, si servivano del porto genovese per tutte le loro esigenze di contatto con l’esterno.
Il popolo però non era composto soltanto da mercanti di successo e proprietari benestanti alla ricerca del loro posto al sole. Al di sotto di questo livello superiore c’era un ampio strato medio dai contorni indefiniti, composto da piccoli mercanti locali, bottegai e artigiani specializzati nelle diverse fasi nelle quali si articolavano le produzioni di punta delle città comunali, in particolare le manifatture tessili. Anche in questo caso si trattava spesso di famiglie non prive di ambizione, anch’esse beneficiate dal lungo ciclo economico positivo che si aprì tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. Bisogna ammettere tuttavia che di questa folla di tessitori, tintori, filatori, lanaioli, commercianti di panni con la bottega nel centro cittadino sappiamo poco. Più si scende la scala sociale più le tracce documentarie si rarefanno e diventa difficile ricostruire storie personali e familiari con la ricchezza di particolari consentita, per esempio, per i figli di Onesto.
Molti dei mercanti e dei proprietari terrieri dei quali abbiamo parlato nelle pagine precedenti, infatti, hanno dato vita a famiglie che, grazie anche al successo politico legato all’affermazione del popolo alla metà del Duecento, hanno mantenuto un poso centrale nella società cittadina per decenni o addirittura per secoli. La lunga sopravvivenza di queste famiglie, molto interessate alla perpetuazione della propria memoria familiare e, più materialmente, alla custodia degli atti notarili che comprendevano i loro diritti patrimoniali ed economici – che potevano essere contestati a distanza di generazioni – , ha fortemente aumentato la chance di conservazione dei documenti che le riguardavano direttamente. È invece più raro che gli artigiani e i bottegai che componevano il livello medio del popolo riuscissero a fondare dinastie familiari della storia plurisecolare. Insieme alla memoria familiare si sono perciò dispersi anche gli atti notarili che hanno scandito le diverse fasi della loro esistenza.
Tanto più sono condannati all’anonimato i cittadini che facevano parte del livello inferiore del popolo, ovvero soprattutto gli artigiani dediti alle attività che, pur essendo indispensabili per far fronte alle esigenze di una popolazione cittadina in continua crescita, non erano legate al commercio internazionale, interregionale o almeno regionale: calzolai, fabbri, macellai, fornai, mugnai, maestri muratori e falegnami ecc. Per la verità questo gruppo non è sempre facilmente distinguibile da quello precedente. In effetti all’interno dell’ampio ed eterogeneo mondo artigiano esisteva un’estrema varietà di condizioni economiche. Non tutti i calzolai, per esempio, erano uguali; alcuni di essi, grazie alla loro particolare abilità professionale, riuscivano a farsi una clientela altolocata e giungevano a livelli di benessere che nulla avevano da invidiare a quelli dei più apprezzati tintori che operavano i tessuti destinati all’esportazione, o addirittura a quelli di molti mercanti di piccolo calibro. Sarebbe dunque forse più corretto inserire nello strato medio tutti gli artigiani che, al di là della loro specifica professione e del fatto che fossero legati o meno al commercio extra-cittadino, erano riusciti a farsi un nome e avevano raggiunto livelli di ricchezza decisamente superiori alle medie dei loro “colleghi”. Nello strato inferiore rimarrebbero dunque gli altri artigiani, che vivevano dignitosamente del loro lavoro, e i lavoranti e gli apprendisti che prestavano servizio nelle botteghe artigiane.
Del resto non ha alcuna importanza fissare partizioni precise tra i diversi livelli sociali ed economici degli appartenenti al popolo. Questo tentativo anzi, a voler ben vedere, è piuttosto insensato se si considerano le caratteristiche peculiari della realtà comunale dell’inizio del Duecento. Si trattava di una società in movimento e in trasformazione, estremamente fluida, nella quale per i cittadini più intraprendenti, qualunque fosse la loro origine, i passaggi da un livello all’altro non erano affatto impossibili, e neppure tanto rari. Ci furono anche casi di artigiani che riuscirono ad accumulare un capitale sufficiente per dedicarsi con profitto alle attività commerciali e inserirsi a pieno titolo nel ceto dei grandi mercanti, o che misero in atto una scaltra politica di acquisti fondiari e si integrarono nel gruppo dei proprietari terrieri. Quello che si è tentato di fare nelle pagine precedenti non è tanto descrivere in maniera soddisfacente le articolazioni della società comunale – ammesso che ciò sia possibile – , ma piuttosto dare un’idea, anche approssimativa, della complessità e dell’eterogeneità del raggruppamento che definiva se stesso populus.
In ogni modo una cosa deve essere chiara. Il confine inferiore del popolo era rappresentato da piccoli artigiani e lavoranti, gente comunque che viveva dignitosamente. Nel popolo non c’erano veri poveri, indigenti che non riuscivano a guadagnarsi il pane, disperati che non avevano nemmeno un tetto sopra la testa. Semplificando, potremmo dire che il popolo rappresentava la parte produttiva della città: esso raccoglieva tutti coloro che improvvisamente si erano resi conto di costituire la componente più vitale e avanzata dell’economia e della società, e che pensavano che questo fatto incontrovertibile desse loro diritto a un più ampio spazio politico.

Miniatura raffigurante un gruppo di mercanti in riunione (XIV sec.).

Il popolo, in conclusione, non era una classe sociale preesistente, definita da particolari caratteristiche economiche e dotata di una precisa identità collettiva, che a un certo punto entrò in conflitto con la classe dominante dei milites. Esso era invece un’organizzazione costruita interamente ex novo a cavallo tra il XII e il XIII secolo, attraverso la scomposizione di legami sociali preesistenti e la ricomposizione di forme di solidarietà del tutto nuove, che avvicinavano gruppi sociali che in apparenza avevano ben poco in comune. Questo processo, eccezionalmente rapido, di costruzione di nuove forme di aggregazione e di identità sociale rende a mio parere questa fase una delle più importanti – o forse la più importante – della storia dei Comuni dell’Italia centro-settentrionale.
[…]

Lucca nel Duecento

di A. Poloni, in S.M. Pagano – P. Piatti (a cura di), Il patrimonio documentario della Chiesa di Lucca: prospettive di ricerca: atti del Convegno internazionale di studi, Lucca, Archivio arcivescovile, 14-15 novembre 2008, SISMEL Edizioni del Galluzzo, 2010, pp. 131-156.
Le immagini araldiche delle famiglie lucchesi sono tratte dal sito www.heraldrysinstitute.com

Lucca, Chiesa di San Frediano. Facciata con mosaico bizantino (XI sec.).

1. Una società in trasformazione: Lucca nei primi decenni del Duecento.

A Lucca nella prima metà del Duecento le istituzioni religiose potevano agire da canali di mobilità sociale in due modi. Il primo consisteva nell’accesso diretto di membri di famiglie in ascesa nel clero cittadino, nel capitolo della cattedrale e nei capitoli delle altre collegiate, nei monasteri urbani ed extraurbani. Il secondo consisteva invece nell’ingresso di tali famiglie nelle ramificate clientele di questi stessi enti religiosi.
Il primo aspetto solleva interrogativi ai quali è molto difficile rispondere. Raffaele Savigni ha sottolineato che per gran parte del XIII secolo è praticamente impossibile condurre uno studio prosopografico sistematico sulla composizione delle comunità monastiche lucchesi, soprattutto a causa dell’abitudine a non riportare il cognome di monaci e monache negli atti notarili. Poco di più si può dire, per gran parte del Duecento, sui vertici della chiesa cittadina, che a Lucca erano costituiti, oltre che dal vescovo, dal capitolo della cattedrale e dalle cosiddette chiese sedales, anch’esse officiate da comunità di canonici – S. Frediano, S. Reparata, S. Michele in Foro, S. Maria Forisportam, S. Pietro Maggiore, S. Donato – , le quali costituivano i cardini dell’organizzazione ecclesiastica cittadina. Sembra comunque che fino agli ultimi decenni del secolo la Chiesa lucchese mantenesse una notevole autonomia rispetto alle dinamiche di formazione, ricompensazione e trasformazione dei gruppi dirigenti comunali, che rimanesse cioè poco permeabile ai progetti di potere delle famiglie che dominavano la politica cittadina.
È vero infatti che dalla fine del XII secolo i vertici della Chiesa cittadina si aprirono ai membri di alcuni lignaggi dell’aristocrazia signorile del territorio e anche della militia urbana che proprio allora si stava definendo come ceto dotato di una propria fisionomia sociale e di una forte identità di gruppo. È anche vero però che fino agli ultimi decenni del Duecento non ci fu, da parte delle famiglie eminenti, alcuna corsa all’accaparramento delle cariche ecclesiastiche, e che queste ultime non furono utilizzate strumentalmente per ratificare un’egemonia ottenuta con altri mezzi, in particolare attraverso la lotta politica. Nei primi decenni del XIII secolo le istituzioni ecclesiastiche cittadine godevano di un’autonoma autorevolezza morale e culturale che, semmai, poteva aggiungere prestigio alle – più che derivare prestigio dalle – famiglie dei livelli più elevati della società comunale che riuscissero a stringere legami con esse. Alle stesse conclusioni sembrano del resto giungere gli studi relativi ad altre realtà cittadine, per esempio il recente lavoro di Michele Pellegrini su Siena (Chiesa e città. Uomini, comunità e istituzioni nella società senese del XII e del XIII secolo, Roma 2004).

[…] È sufficiente concludere che nella prima metà del Duecento l’ingresso nei capitoli della cattedrale e delle collegiate, e probabilmente anche nelle comunità monastiche, non era alla portata degli “uomini nuovi” che cominciavano il loro percorso di affermazione nella società cittadina, e che, dunque, da questo punto di vista, le istituzioni religiose non fungevano da canali di mobilità sociale. Può darsi invece che l’accesso al clero delle cappelle – le quali, proprio […] dall’inizio del XIII secolo, stavano acquisendo un’importanza sempre maggiore nell’organizzazione ecclesiastica cittadina – fosse più aperto a Lucchesi di estrazione sociale non particolarmente elevata. Questo problema, tuttavia, non è stato oggetto di indagini specifiche, e del resto la documentazione disponibile probabilmente non le consentirebbe […].
Del tutto diverso è il discorso relativo alla seconda strada attraverso la quale le istituzioni religiose potevano funzionare da canali di mobilità sociale, ovvero l’ingresso delle famiglie di origine recente nelle clientele del capitolo della cattedrale, delle chiese sedales e dei monasteri urbani ed extraurbani. L’appartenenza di un individuo o di una famiglia alla rete clientelare facente capo a un ente religioso è segnalata nelle fonti documentarie da una serie di indicatori. Il più importante è la concessione di terre, da parte dell’ente al gruppo familiare in questione, attraverso contratti di livello o di feudo, o più raramente di tenimentum. Un altro indicatore può essere considerato la frequente presenza di uno o più membri di una famiglia tra i testimoni convocati in occasione di atti conclusi dall’ente, o, in caso di legami particolarmente stretti, l’impegno diretto di una persona al servizio dell’ente stesso, nella veste di notaio, procuratore, rappresentante, o addirittura advocatus.

Arme della Respublica Lucensis.

Nel XII secolo l’integrazione nelle reti clientelari del capitolo, delle principali chiese cittadine e dei monasteri era fondamentale tanto per rafforzare e consolidare la posizione di famiglie già affermate, quanto come vero e proprio canale di mobilità sociale, per sostenere cioè l’ascesa di gruppi familiari provenienti da livelli sociali inferiori. Questa considerazione non è vera soltanto per la città, ma anche per le campagne intorno ad essa, come dimostrano le ricostruzioni prosopografiche proposte da Chris Wickham nel suo libro sulle Sei miglia lucchesi (Roma 1995).
Qualcosa cambiò tuttavia tra la fine del XII secolo e i primi decenni del XIII. Nell’ambito di una ricerca di recente pubblicazione, ho ricostruito i percorsi di affermazione sociale di un certo numero di famiglie che compaiono nelle fonti lucchesi a partire dall’ultimo ventennio del XII secolo: […] alcune di queste famiglie – comunque la minoranza – continuarono a perseguire anche nella prima metà del Duecento l’integrazione nelle strutture clientelari dei principali enti religiosi e a coltivare relazioni con essi. Si tratta di gruppi familiari come i Volpelli, i Guidiccioni, gli Incalocchiati, i Guerci e non molti altri.
Altre famiglie tuttavia – a quanto sembra, anzi, la maggioranza delle famiglie di origine recente –, più o meno dall’inizio del Duecento, cessarono di coltivare relazioni con le principali istituzioni religiose cittadine e, in pratica, uscirono dalle loro reti clientelari. Si tratta di gruppi familiari destinati ad avere un ruolo di primo piano nella vita politica della seconda metà del secolo: Onesti, Martini, Carincioni, Terizendi – questi ultimi un ramo dei Carincioni – , Peri, Rapondi, Fornari, Sartori e molte altre. Tra gli ultimi anni del XII secolo e i primi del XIII un numero crescente di “uomini nuovi” smise di puntare, per il miglioramento della propria posizione sociale, sull’integrazione nelle clientele dei più importanti enti ecclesiastici e monastici cittadini, e anche dei più influenti lignaggi della militia, per concentrarsi invece sul rafforzamento delle relazioni orizzontali. Molte famiglie cioè che avevano a disposizione risorse umane ed economiche per intraprendere percorsi di ascesa sociale cominciarono a impiegare queste risorse non per favorire il proprio ingresso nelle strutture clientelari dei potenti laici ed ecclesiastici, ma per consolidare, allargare e rendere più efficaci le reti di solidarietà e cooperazione orizzontale.

Arme della famiglia Carincioni.

L’esistenza di vincoli di solidarietà derivanti dalla convivenza in una vicinia, dalla frequentazione di una cappella, dall’abitudine a prestare servizio militare in una stessa unità operativa di pedites non è un fenomeno duecentesco, così come non può essere considerata una novità l’esistenza di veri e propri spazi d’azione collettiva. Si pensi per esempio alla partecipazione attiva dei vicini alla vita della propria chiesa rionale, attestata fin dal XII secolo, o alla proliferazione delle confraternite. Tra gli ultimissimi anni del XII secolo e i primi del XIII, tuttavia, alcuni Lucchesi, con una scelta veramente di rottura rispetto al passato, decisero per la prima volta di puntare su questa trama ampia ma fragile di relazioni per conquistarsi un posto di rilievo nella società cittadina.
È difficile esagerare la portata di quella che può essere considerata una vera e propria reinvenzione di queste reti di cooperazione, una ridefinizione totale del loro significato e delle loro finalità. Questo processo ebbe il suo momento principale nell’istituzione delle societates peditum, avvenuta a Lucca, secondo il cronista Tolomeo, nel 1197. Le società imposero una forma più compiutamente organizzata e una struttura gerarchica ai fluidi coordinamenti orizzontali di vicinia, trasformandoli in quadri di mobilitazione militare e strumenti di pressione politica.
Nei primissimi anni del Duecento le società dei peditum si confederarono nella cosiddetta “società della concordia dei pedites”, la prima organizzazione di Popolo lucchese. Possiamo dire quindi che la variazione delle strategie di affermazione sociale che si riscontra negli anni a cavallo tra XII e XIII secolo spinse famiglie come gli Onesti, i Martini, i Peri, i Carincioni, i Rapondi, i Sartori a porsi a capo del movimento di Popolo che proprio allora faceva la sua comparsa sulla scena politica cittadina. O, per meglio dire, tale variazione portò quelle famiglie ad assumersi l’iniziativa e la responsabilità di convogliare il malcontento diffuso presso ampi strati della cittadinanza in forme più strutturare di azione politica e militare.

La scelta di investire sulle relazioni orizzontali non si rifletteva però soltanto nell’appoggio al nascente movimento popolare. All’inizio del XIII secolo le famiglie di cui ci stiamo occupando tendevano a ricercare alleanze matrimoniali quasi esclusivamente all’interno del proprio ambiente sociale. Per fare soltanto qualche esempio, Bonagiunta di Fornario, figlio dell’eponimo dei Fornari, sposò Teodora, figlia di Guido Martini, l’iniziatore delle fortune dei Martini; Benetto di Onesto, figlio del capostipite degli Onesti, sposò Benvenuta figlia di Rapondo, capostipite dei Rapondi. Queste tendenze endogamiche rappresentano probabilmente la prova che queste famiglie stavano sviluppando una forte identità sociale di gruppo, ulteriormente rafforzata dalla co-residenza. Le due opzioni strategiche che abbiamo individuato sembrerebbero davvero alternative. Nessuno, a quanto pare, le praticò contemporaneamente: i Lucchesi che scommisero sul successo del Popolo non coltivarono le relazioni con gli ambienti ecclesiastici, mentre quelli che preferirono l’integrazione nelle clientele di chiese e monasteri non fecero carriera nelle organizzazioni popolari. La ragione è del resto facilmente intuibile: i primi due decenni del Duecento furono caratterizzati a Lucca da una forte tensione interna, da una vera e propria guerra aperta tra milites e Popolo, che conobbe episodi clamorosi come l’abbandono della città da parte dei nobili per ben due volte, nel 1203 e nel 1214. In questa fase le più potenti istituzioni religiose, il capitolo della cattedrale, le chiese collegiate, i grandi monasteri si schierarono a fianco dell’aristocrazia cittadina e rurale. In un contesto così conflittuale le scelte personali avevano conseguenze pesanti che potevano condizionare il futuro di chi le compiva e della sua famiglia.
Per dare maggiore concretezza a quanto fin qui detto, possiamo mettere a confronto i percorsi sociali di due famiglie che fecero scelte opposte: i Martini, che puntarono su quella che potremmo definire l’“opzione orizzontale”, cioè sul Popolo, e i Volpelli, che scommisero invece sull’“opzione verticale”, cioè sull’inserimento nelle clientele dei potenti.
I Martini discendevano probabilmente da un Guido del fu Martino che nel 1184 insieme al fratello ricevette in concessione libellario nomine dalla chiesa di S. Reparata un appezzamento non lontano dalla città di Lucca, «ubi dicitur via mediana». L’atto del 1184 si poneva al di fuori di una logica strettamente economica. Il canone che Guido e il fratello erano tenuti a versare annualmente non solo era molto basso (4 soldi), ma oltretutto era in denaro, circostanza eccezionale nella lucchesìa della fine del XII secolo, quando la forte inflazione aveva ulteriormente accelerato la tendenza, rilevabile fin dall’inizio del secolo, a convertire i canoni in denaro in rendite in natura. La concessione era probabilmente uno strumento per attirare due medi proprietari terrieri all’interno del sistema di relazioni che faceva capo all’importante ente ecclesiastico cittadino.

Lucca, Cattedrale di San Martino (XI sec.).

Negli ultimi decenni del XII secolo, dunque, i Martini avevano intrapreso un percorso di affermazione sociale del tutto tradizionale, che passava attraverso l’integrazione nelle clientele dei principali enti religiosi. Dall’inizio del Duecento, tuttavia, questo percorso fu totalmente abbandonato. Bonaccorso, probabilmente figlio di Guido, fu tra i protagonisti del movimento popolare, che nel primo ventennio del Duecento, grazie all’appoggio interessato della potente famiglia dei da Porcari, pareva destinato a sicuro successo. Quella stagione si chiuse nel 1219 con l’arbitrato del legato apostolico Ugolino da Ostia, che tentava di ripristinare lo status quo antecedente allo scoppio delle ostilità tra milites e populares. Tuttavia gli equilibri di potere erano ormai irreversibilmente mutati, e nel primo consiglio generale attestato dopo il 1219, quello del 1224, compaiono numerosi esponenti di famiglie in ascesa estranee al gruppo dirigente consolare, tra i quali Arrigo, fratello di Bonaccorso, e suo figlio Guido, che portava il nome del nonno.
Guido era destinato a una carriera politica folgorante, che coronò con un successo forse perfino inaspettato le ambizioni del padre e dello zio. Il figlio di Arrigo fu infatti console maggiore – la più alta carica cittadina – per due anni di seguito, nel 1236 e nel 1237. È probabile tuttavia che questo exploit fosse legato ancora alla scelta dei Martini di puntare sul Popolo. Dall’inizio degli anni ’30, infatti, si assistette a una ripresa dell’iniziativa popolare, che sfruttava un momento di indebolimento del gruppo dirigente cittadino causato da un grave conflitto con il Papato, e che culminò con una decisa affermazione del Popolo proprio negli anni 1236-1237. Sul lungo periodo la scelta, che i Martini perseguirono con tenacia e coerenza, di puntare sul Popolo si rivelò vincente. Essi furono infatti una delle famiglie più in vista dell’Anzianato che governò la città dal 1255 ai primi anni ’90.
Una strategia del tutto diversa perseguirono invece i Volpelli. Nei primi decenni del Duecento questa famiglia era strettamente legata al monastero di San Ponziano, tanto che uno dei suoi membri, Albertino di Graziano, agiva in veste di advocatus. I Volpelli erano ben inseriti negli ambienti ecclesiastici fin dall’inizio del secolo: nel 1219 Rolandino Volpelli, su sollecitazione del vescovo lucchese, donò al legato apostolico Ugolino da Ostia – che, come si è accennato, si trovata in città per intervenire nello scontro armato tra milites e pedites che durava, con poche interruzioni, ormai da due decenni – un terreno boscoso (silva) nella località di Gattaiola, sul quale sarebbe sorto il monastero femminile di Santa Maria. Sempre nella prima metà del secolo Guidone Volpelli si fece frate de ordine fratrum minorum.
La famiglia era inoltre vicina ai de Podio, un gruppo familiare aristocratico con basi signorili in Versilia e una posizione politica di primo piano nel Comune lucchese fin dagli ultimi decenni del XII secolo. Nel 1239 Gerarduccio Volpelli dispose che alla sua morte Labbro e gli altri suoi figli fossero affidati «in tutela cura et mundio» al fratello, al suocero Morettino de Fondora e a Tegrimo de Podio.

Dall’inizio del secolo i Volpelli erano legati alla famiglia del tintore Ricciardo; quest’ultimo fu il fondatore, insieme al fratello, di una delle compagnie commerciali più importanti d’Europa, che fornì i propri servizi finanziari al Papato, agli Angiò e al re d’Inghilterra (Edoardo I Plantageneto). Fin dalla sua costituzione, forse negli anni ’30, i Volpelli rappresentarono insieme ai Ricciardi, ai Rosciompelli e ai Guidiccioni l’asse portante della società. La prima attestazione della proiezione internazionale della compagnia riguarda la presenza di un suo agente a Roma nel 1241. Mi sembra probabile che i contatti dei Volpelli con le alte sfere ecclesiastiche abbiano avuto un ruolo nell’introdurre la societas Ricciardorum nella cerchia dei prelati che ruotava intorno alla corte pontificia.
Non sorprende quindi constatare che nei primi decenni del Duecento i Volpelli non si impegnarono attivamente nello schieramento popolare. Tale disinteresse si spiega probabilmente proprio con la posizione raggiunta all’interno delle reti di relazioni che facevano capo ai più influenti enti religiosi lucchesi e a una potente stirpe nobiliare, che fornivano alla famiglia una base più che solida per il miglioramento della propria posizione sociale.

Wien, Österreichischen Nationalbibliothek. Cod. Vindob. s.n. 2644 (1370-1400), Tacuinum Sanitatis, f. 104v. Bottega del tessitore di lana.

Come si è visto, dunque, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo molte famiglie lucchesi in ascesa sperimentarono una nuova strategia di affermazione, che si allontanava dai modelli tradizionali di azione sociale, incentrati sull’inserimento nelle reti clientelari dei potenti laici ed ecclesiastici. È necessario a questo punto chiedersi quali furono i fattori che favorirono, proprio in quel momento, l’apertura di un canale di mobilità sociale sostanzialmente nuovo.
Una delle possibili spiegazioni è semplicemente che le vecchie strategie funzionassero sempre meno. Il modello “clientelare” tradizionale, infatti, era finalizzato all’integrazione nella militia, il gruppo sociale che nel XII secolo e ancora nei primi decenni del XIII dominava la vita politica, economica e culturale della città. L’accesso a questo gruppo, tuttavia, diventava sempre più difficile. A partire più o meno dal 1170-1180, infatti, la militia acquistò una fisionomia sociale sempre più definita e selettiva, un’identità sociale sempre più connotata ed esclusiva, e cominciò a chiudersi agli apporti dall’esterno. Questo processo di irrigidimento del ceto eminente cittadino è stato messo in luce da vari studiosi, anche se le sue cause rimangono ancora in buona parte oscure. In questa sede, in ogni caso, interessano soprattutto i suoi effetti. Il ripiegamento elitario della militia rese sempre più incerto l’esito delle strategie tradizionali di affermazione sociale, e spinse molti “uomini nuovi” a cercare strade alternative.
Non bisognava tuttavia trascurare, per spiegare i fenomeni in atto tra XII e XIII secolo, l’importanza del fattore numerico. La scelta di puntare sul rafforzamento delle relazioni orizzontali acquista un senso soltanto se il numero delle persone impegnate in un percorso di ascesa sociale era talmente alto da rendere le nuove strutture organizzative davvero efficaci. L’unione, infatti, come si suol dire, la forza, ma deve essere l’unione di un congruo numero di individui. La creazione e la promozione delle società dei pedites, la conquista del consenso degli strati più deboli della cittadinanza, del resto, erano tutti impegni che richiedevano un forte investimento di risorse umane ed economiche. I costi dell’operazione diventano sostenibili soltanto se potevano essere ripartiti tra un alto numero di partecipanti.

Siamo di fronte a un punto cruciale. Quello che era in corso tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo non era un normale processo di mobilità sociale individuale, magari molto intensa. Si era invece formato un ingorgo senza precedenti di persone e di famiglie che premevano sulla barriera che le separava dai livelli più alti della società cittadina. Si trattava, cioè, di una forma collettiva di corrente ascendente di mobilità sociale. Le cause di questa spinta ascendente di gruppo sono forse da individuare in un’accelerazione dei normali ritmi di mobilità sociale, legata alla crescita demografica ed economica che interessava in quella fase le campagne e le città italiane. Ma la vera domanda a cui bisogna tentare di rispondere è perché questa mobilità non poté essere progressivamente assorbita attraverso i canali tradizionali senza provocare la formazione di un ampio gruppo di individui che spingevano per entrare nel ceto eminente cittadino, o addirittura per prendere il suo posto. Una spiegazione di quello che stava accadendo all’inizio del Duecento va cercata ancora una volta nella chiusura della militia. Questo fenomeno determinò infatti una vera e propria ostruzione dei normali canali di circolazione sociale che avevano funzionato per molto tempo, e impedì che la pressione si allentasse disperdendosi in correnti regolari e controllate, benché intense, di ascesa sociale.

Maestro delle Storie di Mosè. Consegna delle Tavole della Legge ad Aronne. Rilievo, marmo, 1150-75 ca. dalla Fontana lustrale. Lucca, Chiesa di San Frediano.

2.Una città in espansione: Lucca negli anni ’60 e ’70 del Duecento.

Una seconda ondata di mobilità sociale caratterizzò a Lucca gli anni compresi più o meno tra il 1255 e il 1275. In questa fase, come nel periodo a cavallo tra XII e XIII secolo, un grande numero di “uomini nuovi” riuscì a migliorare significativamente la propria posizione sociale e a raggiungere i livelli più alti della società urbana. Tra le famiglie che emersero in questo ventennio possiamo ricordare almeno i Fiadoni, i Melanesi, i Sandoni, i Moriconi, i Margatti, gli Asquini, gli Arnaldi.
La città, tuttavia, era profondamente cambiata rispetto all’inizio del secolo. Nei primi decenni del Duecento Lucca aveva vissuto la “sua” rivoluzione commerciale. Il decollo dell’industria serica e del commercio internazionale era stato frutto dell’iniziativa di molte di quelle stesse famiglie in ascesa che, come abbiamo visto, si erano divise tra l’“opzione verticale” e l’“opzione orizzontale”. Al boom economico si era accompagnata una rivoluzione politica. Il Popolo, dopo un primo effimero exploit negli anni ’30, si era definitivamente imposto al vertice delle istituzioni comunali alla fine degli anni ’50: Lucca era diventata un Comune di Popolo. Queste importanti trasformazioni non poterono che incidere
Se dovessimo cercare un principio unificante alla base delle pur diverse strategie di affermazione sociale dei Lucchesi alla fine del XII secolo e all’inizio del XIII potremmo individuarlo nella massima diversificazione, cioè nell’esplorazione simultanea di vari canali di mobilità sociale. Molte delle famiglie delle quali abbiamo parlato nelle pagine precedenti si impegnarono attivamente nell’avventura popolare, allo stesso tempo però non trascurarono di tentare un cursus honorum più tradizionale partendo dal servizio nelle curie giudiziarie cittadine, che a Lucca non richiedeva una specifica preparazione giuridica; si buttarono nel nuovo affare della seta, ma non abbandonarono le speculazioni sulle terre e sulle rendite; investirono risorse per avviare loro membri alle professioni di esperto di diritto e di notaio.
I tanti gruppi familiari che vediamo emergere tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’70 del Duecento, invece, accantonarono il principio della massima diversificazione. Essi non sembrano perseguire né l’inserimento nelle strutture clientelari di enti religiosi e casate aristocratiche né la creazione o il rafforzamento di nuove reti di solidarietà orizzontale. Appaiono poco interessanti alla vita politica, al di là del normale coinvolgimento nei consigli e nelle altre attività di aggregazione politica che il Comune di Popolo richiedeva a tutti coloro che godevano dei pieni diritti di cittadinanza. Non sembrano puntare con convinzione sull’istruzione dei loro rampolli – con la sola rilevante eccezione dell’apprendistato mercantile – avviandoli agli studi per la carriera di giudice o di notaio, non paiono neppure molto interessati a costruirsi un patrimonio fondiario nel contado. La maggior parte delle famiglie che emersero nel ventennio in questione investirono tutte le loro risorse umane ed economiche nel solo commercio internazionale.

Fu il commercio internazionale, a Lucca strettamente legato all’industria serica, l’unico canale di mobilità attraverso il quale passò l’ascesa di tanti “uomini nuovi” che si conquistarono un posto al sole tra il 1255 e il 1275, tra i quali possiamo annoverare Jacobo e Salliente Melanesi, Omodeo Fiadoni, i figli di Arrigo Moriconi, Margatto Margatti e i suoi figli, i figli di Arrigo Sandoni, Burnetto Asquini e tanti altri. La forte mobilità sociale di questi anni, infatti, fu innescata da un nuovo ciclo espansivo, da una vera e propria “seconda rivoluzione commerciale”, che fu legata a una serie di mutamenti degli equilibri politici ed economici internazionali sui quali non è questa la sede per soffermarsi.
In ambito economico, la diversificazione nasce dall’incertezza sull’esito degli investimenti, dal tentativo di minimizzare il rischio. La diversificazione che dominava gli investimenti di risorse umane ed economiche dei Lucchesi all’inizio del XIII secolo era una conseguenza dell’alto grado di incertezza che essi percepivano in un mondo soggetto a cambiamenti che apparivano ancora in gran parte imprevedibili. Molti “uomini nuovi” puntarono con decisione sul Popolo, ma, come si è detto, l’esito dell’avventura popolare appariva, nei primi decenni del Duecento, tutt’altro che scontato. Allo stesso modo, molti di essi intuirono la potenzialità di sviluppo dell’industria serica, ma la crescita del settore era appena all’inizio, e nessuno poteva sapere dove avrebbe portato. L’incertezza che dominava questa società in trasformazione è provata dal fatto che non tutte le famiglie in ascesa inserirono nel loro “portafoglio” di investimenti sociali entrambe le nuove possibilità che si delineavano all’orizzonte, l’ingresso nel fronte popolare e l’impegno nella manifattura serica. Numerose famiglie nuove preferirono continuare a perseguire l’inserimento nelle clientele dei potenti, invece che puntare sul rafforzamento delle reti orizzontali e di solidarietà vicinale, cioè sul Popolo. Molte di esse in questa fase mantennero un atteggiamento prudente nei confronti dell’esperienza del commercio internazionale.
L’abbandono della diversificazione da parte degli individui e delle famiglie che si affermarono tra il 1255 e il 1275 fu probabilmente legato al netto calo dell’incertezza. L’affare della seta appariva ormai un’opportunità del tutto sicura, il rischio sembrava sempre più basso, la crescita pareva durare per sempre. A più di mezzo secolo dalla prima rivoluzione commerciale, che aveva cambiato in profondità il volto della società cittadina, e in un momento di ulteriore forte espansione, il commercio era ormai in grado di sostenere da solo di desiderio di affermazione sociale degli uomini più dotati di ambizione e di capacità di iniziativa. Il commercio internazionale, legato strettamente all’industria serica, era diventato di gran lunga il più importante canale di mobilità sociale nella città di Lucca, cosa che non era stato affatto nella prima fase di cambiamento all’inizio del secolo.
Un altro elemento fondamentale da tenere presente è che quella in corso nei decenni centrali del Duecento rimase, a quanto sembra, un’intensa corrente di mobilità sociale individuale, non si trasformò ma in una corrente ascendente di gruppo come quella di inizio secolo. Numerosi individui provenienti da strati inferiori si integrarono nell’élite popolare, collocata ormai stabilmente ai vertici della politica e dell’economia lucchesi, senza dare vita a un raggruppamento separato lanciato nel tentativo di scalzarla dalle sue posizioni. La forte accelerazione della mobilità, insomma, non provocò, com’era accaduto nei primi anni del Duecento, l’esplosione di aspre tensioni sociali e di una sostanziale riconfigurazione della stratificazione sociale. Il mancato effetto destabilizzante delle trasformazioni degli anni ’60 e ’70 è probabilmente legato al buon funzionamento dei canali di ascesa sociale. Da una parte la forte crescita dell’industria e del commercio, che appariva ormai inarrestabile, apriva a tutti i Lucchesi abili e ambiziosi, anche a quelli dotati di scarse risorse economiche e relazionali, ampi spazi di affermazione economica e di successo sociale. Dall’altra, le istituzioni di Popolo, che governavano ormai il Comune, garantivano a tutti i nuovi arrivati un livello di partecipazione politica – per ora – soddisfacente.
In questa fase il canale di ascesa sociale rappresentato dall’ingresso di clientele delle principali istituzioni religiose cittadine rimaste del tutto inattivo. Come si è detto, il commercio internazionale pareva spalancare grandi opportunità per tutti i Lucchesi dotati di iniziativa, e nessuna famiglia in ascesa decideva di disperdere energie e risorse economiche nel perseguimento di una strategia della quale non si comprendevano più i vantaggi.

Maestro delle Storie di Mosè. Passaggio del Mar Rosso. Rilievo, marmo, 1150-75 ca. dalla Fontana lustrale. Lucca, Chiesa di San Frediano.

3.Una città in conflitto: Lucca a cavallo tra Due e Trecento.

L’ultimo periodo di intenso cambiamento che prenderemo in considerazione è quello dei due decenni a cavallo tra Due e Trecento. A partire dagli anni ’90 del Duecento si aprì per l’élite popolare una fase di profonda crisi. Tale crisi fu certo in qualche modo in relazione con la contrazione economica che la città sperimentò in questa fase, ma non può esserne considerata un effetto diretto. La crisi economica non caratterizzò l’interno ventennio in questione, e si manifestò anzi con particolare virulenza soltanto negli anni 1305-1308, quando l’implosione dell’élite popolare si era ormai consumata e aveva portato a conseguenze irreversibili. Una delle cause principali di questo fenomeno può probabilmente essere ricercata nell’imperfetta integrazione nel gruppo dirigente popolare delle tante famiglie alle quali pure, tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’70 del Duecento, il buon funzionamento dei canali di ascesa aveva consentito di raggiungere il livello più alto della società cittadina. Non mancano infatti segnali, a partire soprattutto dalla fine degli anni ’60, di un irrigidimento dei vertici politici del Comune di Popolo, che può avere ingenerato nel tempo una crescente insoddisfazione nelle famiglie di più recente affermazione. Tali famiglie si fecero interpreti e portavoce di una protesta che probabilmente aveva larga eco presso vasti strati del mondo popolare, e che premeva per un modo diverso di interpretare e di vivere la tradizione del Popolo lucchese.
Qualunque ne fossero le ragioni, all’interno del Popolo si delinearono due diversi schieramenti che andarono costruendo la propria identità tra la metà degli anni ’80 del Duecento e i primi anni del Trecento. Il primo schieramento, che solo all’inizio del XIV secolo acquisì il nome di “parte bianca” (o guelfi bianchi), era guidato dalle famiglie che si erano affermate tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, e che avevano dominato l’Anzianato, la massima magistratura popolare, fin dalla sua introduzione negli anni ’50 del Duecento: Martini, Onesti, Carincioni, Rapondi, Peri, Sartori. All’interno di questa parte politica un ruolo di vera e propria leadership era esercitato dai Mordecastelli, un gruppo familiare che aveva raggiunto un posto al sole soltanto negli anni ’50 del Duecento, ma che, grazie a legami particolarmente stretti con alcune casate aristocratiche, era riuscito in poco tempo a integrarsi ai vertici dell’élite politica popolare. A capo del secondo schieramento, che dall’inizio del Trecento prese il nome di “parte nera” (o guelfi neri), c’erano invece le famiglie che si erano affermate grazie alla seconda rivoluzione commerciale del ventennio 1255-1275: Fiadoni, Sandoni, Margatti, Dati, Melanesi, Moriconi, Araldi, Asquini, Gracci, Tegrimi. Ad esse si aggiungevano gruppi familiari, come i Rosciompelli, i Volpelli, i Guerci e gli Incalocchiati, che avevano raggiunto una posizione sociale di rilievo già nei primi anni del Duecento, ma erano rimasti sostanzialmente esclusi dal gruppo dirigente popolare perché a quel tempo avevano preferito l’“opzione verticale”, e avevano scelto di non investire nel movimento di Popolo.

Lucca, Chiesa di Sant’Alessandro. Capitello in stile corinzieggiante a fascia con rosette, marmo, IX sec.

Quella che era in corso negli anni a cavallo tra Due e Trecento, tuttavia, non era semplicemente la definizione di due fazioni politiche in conflitto. I due gruppi svilupparono identità non solo politiche, ma anche sociali fortemente contrapposte. Uno di essi – la parte bianca – accelerò la fusione con quanto rimaneva della militia, adottandone i modelli di comportamento e il sistema di valori. In questo schieramento erano infatti confluite alcune delle più potenti e prepotenti famiglie aristocratiche cittadine: gli Avvocati, gli Antelminelli, i de Podio, i del Bosco, i Berretani da Barga. L’altro raggruppamento – la parte nera – , al contrario, accentuò l’ideologia egalitaria e anti-nobiliare che aveva fatto parte del patrimonio culturale del Popolo, e tentò di elaborare un modello alternativo di eminenza sociale.
I leader di questo schieramento si fecero infatti promotori di un vero e proprio rilancio delle società delle armi, o società del Popolo, le associazioni eredi delle società dei pedites di inizio Duecento, che nella seconda metà del secolo avevano perso gran parte dell’originaria centralità ed erano state spinte ai margini della vita politica cittadina. All’inizio degli anni ’90 a capo di queste organizzazioni fu posto un nuovo organismo collegiale, i Priori delle società. Fin dal primo momento questa istituzione fu dominata dalle famiglie che si riconoscevano nella parte nera. I Priori entrarono subito in conflitto con l’Anzianato, che fino a quel momento aveva rappresentato il vertice delle istituzioni popolari lucchesi, e che era invece controllato dalle famiglie della parte bianca. I Priori combatterono la loro battaglia proprio sul piano della cultura politica popolare, affermando, attraverso una vasta e capillare azione di propaganda, l’idea che solo le società delle armi e i loro Priori erano depositari della più vera e genuina tradizione popolare, mentre gli Anziani avevano tradito il loro ambito sociale di riferimento compromettendosi con la nobiltà e abbandonandosi a una deriva oligarchica e autoreferenziale.

Gianni Giancillotti, Cavaliere italiano (XII sec.).

All’inizio del Trecento la parte bianca offre un esempio drammatico di mobilità sociale discendente collettiva: non solo essa perse la propria posizione al vertice della politica e della società cittadine, ma molti dei suoi affiliati furono addirittura costretti ad abbandonare fisicamente Lucca. Gli esuli, com’è noto, ripararono a Pisa. Rimasta sola a capo del Comune, la parte nera instaurò un regime di Popolo radicale, il cui culmine ideologico fu rappresentato dalla redazione degli Statuti del 1308, nei quali fu inserita una lista di casati magnatizi che, oltre ad essere esclusi da qualsiasi carica politica, erano soggetti a gravi discriminazioni giuridiche. Tra i magnati comparivano non soltanto tutti i maggiori lignaggi della militia cittadina, ma anche quelle famiglie, come gli Onesti, i Martini, i Peri, i Carincioni, i Sartori, i Fornari, i Mordecastelli, che in realtà avevano una fisionomia sociale e politica pienamente popolare, ma che, come si è visto, militavano nella parte sconfitta.
Dal nostro punto di vista, in ogni caso, l’aspetto più interessante è che il terremoto politico della fine del Duecento fu accompagnato dal prepotente ritorno delle istituzioni religiose come canali di circolazione sociale. In questa fase, inoltre, al centro delle strategie delle famiglie che avevano conquistato il potere non c’era tanto l’ingresso nelle clientele del capitolo della cattedrale, delle chiese più importanti e dei monasteri, quanto piuttosto l’occupazione diretta delle principali cariche ecclesiastiche. In questo senso, dunque, la nuova centralità degli enti religiosi segnava una forte rottura rispetto al passato, quando, come si è detto, era soprattutto attraverso le loro reti clientelari che tali enti riuscivano a indirizzare i percorsi di ascesa sociale, mantenendo però nel contempo una notevole autonomia e un sostanziale distacco rispetto ai processi di ricambio politico e di riconfigurazione delle élites.
Dopo l’espulsione della parte bianca, le famiglie che guidavano la parte nera lanciarono un vero e proprio assalto alle principali istituzioni ecclesiastiche, a partire da quella che, insieme al vescovo, rappresentava il vertice della Chiesa cittadina: il capitolo della cattedrale. Negli ultimi mesi del 1301 Bonifacio VIII, che aveva visto con molto favore gli eventi di Lucca, ordinò, probabilmente su sollecitazione dei leader dello schieramento vittorioso, che sei canonici della cattedrale fossero privati dei loro benefici. I canonici rimossi erano Guglielmo degli Antelminelli, Giovanni Ubaldi degli Antelminelli, Tommasino de Loppa, Ugolino del fu dominus Rocchigiano Ranieri, Michele Mangialmacchi e Bongiorno Fralmi, tutti membri di famiglie di primo piano della parte bianca. Le loro prebende furono poi assegnate dal papa a nuovi titolari: Enrico figlio di Adiuto Rosciompelli, Parentuccio di dominus Bonifacio da Porcari, Opezuccio figlio di dominus Bindo Simonetti, Rosso di Puccio Faitinelli, Lamberto di Ugolino Gracci, Tegrimo figlio del giudice Nicolao Tegrimi. Per quanto riguarda quest’ultimo, tuttavia, i canonici dichiararono di non poterlo accogliere perché con i cinque nuovi insediati si raggiungeva già il nucleo stabilito di sedici prebende.

Lucca, Cattedrale di San Martino (XI sec.). San Martino divide il suo mantello con un povero..

Parentuccio da Porcari e Opezuccio Simonetti appartenevano a casate aristocratiche che avevano appoggiato la parte nera. Enrico Rosciompelli, Lamberto Gracci e Tegrimo Tegrimi provenivano invece da alcune delle famiglie popolari più impegnate nello schieramento fin dal suo ingresso sulla scena politica lucchese.
Il capitolo della cattedrale era rimasto per tutto il Duecento una roccaforte aristocratica. A quanto sembra nessuna delle famiglie dell’élite dirigente popolare era riuscita, prima del 1301, a farsi ammettere in quello che era davvero un circolo esclusivo. Per i Rosciompelli, i Gracci e i Tegrimi, dunque, questo onore acquistava un significato particolare. Si trattava di famiglie di origine recente, che emergono nella documentazione lucchese nei decenni centrali del Duecento, prive quindi di una memoria familiare di un qualche spessore. L’accesso al capitolo era una straordinaria fonte di prestigio, capace di ribadire e di legittimare agli occhi dei concittadini la forte influenza esercitata da queste famiglie all’interno del nuovo gruppo di potere che si era definito tra gli anni ’90 del Duecento e i primi anni del Trecento.
Non sappiamo quando Enrico Rosciompelli e Tegrimo Tegrimi fossero stati avviati alla carriera ecclesiastica. L’unico per il quale disponiamo di qualche notizia è Lamberto Gracci, che compare come clericus in un atto del novembre del 1295 rogato nella chiesa di San Cristoforo. Possiamo forse ipotizzare che per queste famiglie la scelta di puntare anche sulle istituzioni ecclesiastiche per favorire il proprio radicamento ai vertici della società cittadina abbia coinciso con l’intensificazione della militanza politica negli anni ’90 del Duecento.
La strategia di controllo e di penetrazione nelle strutture di potere della Chiesa cittadina fu probabilmente più ampia di quanto le poche fonti a nostra disposizione ci consentano di vedere. Una pergamena priva di data, ma certamente posteriore al 1284 e forse anteriore alla fine del 1302, ci informa che Alamanno, già defunto al momento della stesura del documento, nipote ex frate del notaio Enrico Guerci, era stato canonico della chiesa collegiata di S. Reparata, un altro ente ecclesiastico di primaria importanza. Tra i chierici rimossi da Bonifacio VIII nel 1301 c’era anche Francesco Gonnella degli Antelminelli, canonico di Santa Reparata; è possibile che Alamanno Guerci avesse preso il suo posto. La famiglia del notaio Enrico, probabilmente imparentata con i Fiadoni, aveva svolto fin dagli anni ’90 un ruolo non secondario all’interno della parte nera.
Nel maggio del 1303, alla morte di Sarduccio da Fucecchio, rettore e amministratore dell’ospedale di Fucecchio, le monache del monastero di Santa Maria in Gattaiola, dal quale l’ospedale dipendeva, conferirono l’incarico a Guglielmo figlio di dominus Opizo del fu Guglielmo degli Opizi. Gli Opizi erano la famiglia aristocratica che più si era spesa a favore della parte nera. Le monache intendevano probabilmente in questo modo porsi sotto l’ala protettrice del nuovo regime.
L’aspetto più interessante è che fenomeni in tutto simili erano in atto anche negli altri grandi Comuni di Popolo toscani. Quasi impressionante, per esempio, è l’analogia degli avvenimenti lucchesi con quanto, proprio negli stessi anni, stava accadendo a Pisa. Dopo la caduta del regime di Ugolino della Gherardesca e Nino Visconti, nel 1288, la città marittima conobbe un rivolgimento politico non meno radicale di quello che poco prima avrebbe interessato Lucca. Le famiglie del gruppo dirigente del Primo Popolo, che aveva governato la città a partire dagli anni ’50 del Duecento, furono emarginate dal potere. Il profondo e assai rapido ricambio politico spinse al vertice delle istituzioni cittadine famiglie di origine piuttosto recente, con una fisionomia sociale per molti versi simile a quella dei Rosciompelli, dei Volpelli, dei Tegrimi, dei Fidoni, dei Gracci, dei Margatti, degli Arnaldi, degli Asquini e via dicendo: Bonconti, da Fauglia, Sampante, Fagioli, Cinquina, Gatti, Scacceri, Gambacorta, Alliata, Rau, dell’Agnello ed altre. Negli anni a cavallo tra Due e Trecento quattro di questi gruppi familiari – Bonconti, Sampante, da Fauglia e Fagioli – formarono quasi una élite nell’élite, concentrando poteri decisionali davvero notevoli.

Oxford, Bodleian Library. Ms. Holkham misc. 48 (Genova, terzo quarto del XIV sec.), Divina Commedia di Dante. Dante e Virgilio incontrano Nino Visconti (Pg. VIII, 52-54).

Anche a Pisa a partire dalla seconda metà degli anni ’90 del Duecento le principali posizioni all’interno della Chiesa cittadina divennero improvvisamente molto allettanti per le più influenti famiglie di Popolo giunte al potere dopo il 1288. Particolarmente interessante è, anche nel caso pisano, la corsa ai seggi del capitolo della cattedrale. Nel 1295 Gherardo Fagioli, uno dei popolari più potenti della città, ottenne da Bonifacio VIII l’assegnazione di una prebenda canonicale per il figlio Guido. Guido Fagioli fu il primo popolare a penetrare nell’esclusiva cerchia dei canonici della cattedrale: fino a quel momento i membri del capitolo di origine pisana provenivano senza eccezioni dalla nobiltà cittadina. Più clamoroso fu il caso di Ugolino, nipote ex frate di Banduccio Bonconti, in quel momento leader indiscusso del Popolo pisano. Ugolino fu avviato alla carriera ecclesiastica, portata avanti sotto la stretta supervisione del padre Francesco e dello zio, i quali ne ponderarono con attenzione ogni singolo passo. Nel 1305 infine Ugolino riuscì a entrare nel capitolo, attraverso una manovra non proprio trasparente. Il Bonconti ebbe la meglio su un altro pretendente che poteva vantare una provvisione di Bonifacio VIII. Nel luglio del 1305 Banduccio e Francesco promisero ai canonici 5000 fiorini d’oro se il loro rampollo avesse ottenuto la prebenda. Ugolino fu naturalmente accolto nel capitolo, nonostante l’opposizione dell’arciprete Jacopo Gualandi e di altri canonici. Anche Ranieri Sampante, un altro popolare particolarmente influente, nutrì l’ambizione di inserire il figlio Gualterotto tra i canonici della cattedrale, e infatti ottenne per lui una provvisione apostolica. Tuttavia nel 1303 alla sua candidatura fu preferita quella di Bondo di Ranieri di Alberto Rossi, membro comunque di una famiglia di artigiani e di mercanti.
Qualcosa di analogo dovette accadere anche a Siena dopo l’affermazione del regime popolare dei Nove nel 1287. William Bowsky ha notato che negli anni successivi si scatenò un vero e proprio accaparramento delle più importanti cariche ecclesiastiche, a partire ancora una volta dal capitolo della cattedrale, da parte sia delle più influenti famiglie che si esprimevano nell’istituzione dei Nove, sia, soprattutto, delle potenti casate magnatizie che appoggiavano il nuovo regime popolare.
A partire più o meno dagli ultimi decenni del Duecento in molte altre realtà, anche a sviluppo signorile, «i seggi più insigni e lucrosi della Chiesa cittadina – per usare le parole di Mauro Ronzani – vennero sempre più considerati alla stregua di strumenti vuoi di affermazione, vuoi di “resistenza”: un processo non del tutto nuovo, ma la cui brusca accelerazione era tale da pregiudicare seriamente il funzionamento delle istituzioni»; commentando proprio la situazione lucchese lo studioso osserva la «ormai comune equiparazione dei seggi e delle dignità ecclesiastiche alle cariche secolari».
Per quanto riguarda i Comuni di Popolo, si possono fare alcune ipotesi sulle ragioni di questo fenomeno. Per prima cosa, si può notare un evidente mutamento dello “stile di governo” e delle forme di gestione del potere dei gruppi dirigenti nei decenni a cavallo tra Due e Trecento rispetto alle fasi più precoci del dominio del Popolo, negli anni ’50, ’60, ’70 del XIII secolo. L’élite popolare estese rapidamente il proprio controllo non solo su tutte le istituzioni comunali, ma anche su ogni altra organizzazione e associazione fino a quel momento non sottoposta alla vigilanza della politica, su ogni singolo spazio di vita associata. Questa esigenza di sorveglianza e di disciplinamento nasceva soprattutto dalla necessità di governare la complessità e l’instabilità della società cittadina. Come si è detto, famiglie come i Rosciompelli, i Volpelli, i Fiandoni, i Margatti, i Tegrimi a Lucca o i Bonconti, i da Fauglia, i Sampante, i Cinquina, i Rau a Pisa avevano conquistato il potere in seguito a dure lotte politiche e feroci scontri fazionari, che certamente avevano lasciato focolai di dissenso e correnti di malcontento presso ampi settori della cittadinanza. A questo si aggiunga che i cittadini erano fortemente politicizzati. I Comuni di Popolo rappresentavano senza dubbio il livello più alto di “democrazia” raggiunto dalle compagini politiche medievali. Gran parte dei maschi adulti della città dotati di una minima base economica erano a vario titolo e a vari livelli coinvolti nella vita politica. Né i gruppi dirigenti popolari si potevano permettere limiti alla partecipazione. Come abbiamo visto nel caso di Lucca, le famiglie che presero il timone della città alla fine del Duecento avevano conquistato il consenso che aveva permesso loro di liberarsi dagli avversari attraverso una decisa radicalizzazione delle tematiche e del linguaggio politico del Popolo, che erano incentrati proprio sulla partecipazione e sulla lotta ai privilegi e alle violenze dei potenti.
L’incontro tra le frustrazioni di casate magnatizie e vecchie famiglie di Popolo escluse dal potere e i malumori di una popolazione cittadina dalla forte consapevolezza politica poteva dar luogo a una miscela esplosiva. Da qui la necessità di sottoporre a stretta sorveglianza politica ogni centro di incontro, ogni forma di espressione, ogni luogo di confronto, ogni spazio associativo che potesse prestarsi a dare forma organizzata al dissenso. È chiaro che in un certo contesto come questo il controllo delle principali istituzioni religiose, per l’influenza politica, economica e anche morale che erano in grado di esercitare a tutti i livelli della società cittadina, assumeva un’impotenza centrale.
Per tornare al caso lucchese, tuttavia, un’altra spiegazione – non alternativa, ma completamente alla precedente – alle vicende che segnarono la città tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, compresa la rinnovata centralità strategica delle istituzioni religiose, è da ricercare in un nuovo mutamento dei modelli di azione sociale. Un ruolo non secondario in questi sviluppi ebbe infatti il ritorno alle diversificazioni delle opportunità. Anche le famiglie più recenti, emerse a partire dagli anni ’50 del Duecento, che avevano utilizzato un solo canale di mobilità sociale, il commercio internazionale – Fiadoni, Melanesi, Moriconi, Sandoni, Margatti, Asquini, ecc. – , dagli anni ’80 elaborarono strategie di conservazione della posizione acquisita più complesse e articolate. Per cominciare, come si è detto, iniziarono a dimostrare un interesse nuovo per la politica ad alti livelli, e questo nuovo apprezzamento uno degli elementi che contribuiscono a spiegare glia avvenimenti politici di questi anni: molte di queste famiglie, come si è detto, videro nella disponibilità a raccogliere il malcontento di ampi segmenti del Popolo uno strumento per conquistare un ruolo politico di maggior peso. Più in generale, esse presero a impiegare una quantità crescente di risorse e di energie per la creazione e il rafforzamento di reti relazionali, tanto orizzontali quanto verticali, verso l’alto – cioè con alcune casate aristocratiche – e verso il basso. Fu di questi gruppi familiari, come si è detto, l’iniziativa di una vera e propria rifondazione delle società di Popolo. Anche i protagonisti della seconda rivoluzione commerciale cominciarono inoltre ad apprezzare i vantaggi di avviare i figli alle professioni giuridiche e notarili. Emerse infine in questa fase un nuovo canale di mobilità sociale, che era stato scarsamente praticato anche dalle famiglie in ascesa dell’inizio del Duecento: le carriere ecclesiastiche.
Le scelte a favore della diversificazione erano legate al ritorno dell’incertezza. Le difficoltà economiche che divennero sempre più evidenti a partire dall’inizio degli anni ’90 del Duecento, a causa di un contesto internazionale sfavorevole, colpirono pesantemente la sfiducia dei Lucchesi nelle possibilità di crescita del settore sul quale si fondava la loro fortuna, l’industria serica. I mercati davano segni di saturazione, l’ondata espansiva si andava evidentemente esaurendo, i fallimenti delle grandi compagnie, non solo lucchesi, coinvolgevano disastrosamente operatori di tutti i livelli. Il commercio internazionale non appariva più in grado da solo di sostenere una robusta mobilità sociale, ma soprattutto non appariva più sufficiente a garantire le famiglie che avevano già completato la loro scalata sociale contro i rischi della mobilità discendente. Più il gruppo familiare si espandeva più doveva trovare nuove fonti di benessere economico e di prestigio sociale, e il commercio internazionale sembrava sempre meno capace di assicurare l’uno e l’altro a famiglie in crescita numerica.
L’incertezza economica si coniugava poi a una fase di incertezza politica. Dalla metà del Duecento si era aperta una fase di pax popolare, che si era protratta per diversi decenni, e aveva consentito una totale ristrutturazione delle istituzioni comunali e degli strumenti di potere. Alla fine del secolo, tuttavia, questa lunga parentesi di stabilità si era bruscamente chiusa, e la città era piombata in uno stato di tensione politica e di fibrillazione anche peggiore di quello dell’inizio del Duecento. Le famiglie della parte nera avevano preso il potere grazie a questa rottura, e non potevano non essere consapevoli della fragilità e della precarietà della loro posizione. Con la parte bianca che tramava dalla nemica Pisa, esse sapevano che la loro situazione poteva cambiare da un momento all’altro. L’appartenenza all’élite politica, in altre parole, non era più, come era stata in precedenza, una garanzia di preminenza e un’assicurazione contro i rischi di un tracollo economico e sociale. Da qui la necessità, per le famiglie di più o meno recente affermazione, di ancorare la loro posizione a molteplici appigli, di piantare radici molto profonde in tutti i campi e i settori della vita cittadina, dalle società delle armi alla prestigiosa cerchia degli esperti di diritto, dalle Arti alle istituzioni ecclesiastiche cittadine. Queste ultime, anzi, anche grazie ai legami che consentivano di stringere al di fuori delle mura della città, fino alla corte papale, apparivano un sostegno particolarmente solido e in grado di portare consistenti vantaggi non soltanto politici, ma anche economici.

Lucca, Archivio di Stato – Biblioteca Manoscritti, Ms. 107 (XV sec.), Croniche delle cose di Lucca di Giovanni Sercambi. La città di Lucca.

4.Conclusioni.

Nelle pagine precedenti si è cercato di proporre qualche spunto di riflessione sull’evoluzione dei fenomeni di mobilità sociale nella Lucca del Duecento, partendo dall’analisi di uno specifico canale di circolazione sociale, le istituzioni religiose. Ne è emerso che una maggiore attenzione ai processi di mobilità sociale aiuta certamente a chiarire molte delle trasformazioni in atto nel XIII secolo, dalla crescita economica ai primi segnali di contrazione, dall’allargamento della partecipazione politica agli squilibri da esso generati, dall’ascesa di masse di “uomini nuovi” ai tentativi di chiusura oligarchica. Ma l’espetto più interessante è forse un altro. Lo studio della mobilità sociale non consente soltanto uno sguardo “oggettivo” sui mutamenti in atto della società lucchese, ma permette soprattutto di calarsi in una prospettiva “soggettiva”. Tale indagine offre cioè diversi squarci sulla percezione che di tali mutamenti avevano coloro che ne erano protagonisti, su come i Lucchesi vissuti in diversi momenti del Duecento pensavano il proprio tempo, su quali possibilità vi intravedevano, quali difficoltà vi intuivano, come si rappresentavano il proprio presente, il proprio futuro, le proprie opportunità.
Nel corso della trattazione, infatti, si è fatto più volte ricorso al concetto di “incertezza”, che rimanda all’ambito della percezione soggettiva, più che a quello della realtà oggettiva. Si è visto che dall’incertezza fiduciosa dell’inizio del Duecento, che portava le famiglie in ascesa a diversificare le proprie opportunità, sperimentando però anche nuove strade, innovando, cimentandosi in nuove avventure, si passò alla sicurezza ottimista dei decenni centrali, anni di boom economico, che convinse le nuove famiglie a concentrare tutte le proprie energie nel commercio internazionale, e infine all’incertezza pessimista di fine secolo, che determinò un ritorno alla diversificazione, venata però dal forte timore di perdere ciò che era stato conquistato e da un’inquietudine ansiosa che si riflette bene nella corsa all’accaparramento delle cariche ecclesiastiche. In conclusione, possiamo dire che indagini approfondite dei processi di mobilità sociale che caratterizzarono i diversi contesti geografici e politici nei secoli centrali del Medioevo potrebbero dare un contributo importante a quello studio della percezione e della rappresentazione del sociale che sembra oggi al centro dell’interesse della più avanzata storiografia internazionale.

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