Gli eserciti della Francia meridionale

di D. NICOLLE, French Medieval Armies, Oxford 1991, in Edizioni del Prado, Madrid-Milano 2006 (trad. it. P. Molinari), pp. 3-10.

La storia del sud della Francia, o Midi, era diversa da quella del Nord del paese. Nel corso del X secolo i conti di Tolosa avevano acquisito potere e si era registrata una considerevole militarizzazione dell’area. Poi, nell’XI secolo, questi grandi nobili iniziarono a perdere il controllo, e molte delle loro funzioni legate al mantenimento della pace divennero responsabilità della Chiesa. Nel frattempo stava emergendo la nuova classe militare dei milites. Alla fine del X secolo erano ancora individui di rango inferiore, che prestavano servizio come guerrieri a tempo pieno od occasionalmente per i signori locali, i fideles. Verso la metà dell’XI secolo, tuttavia, i milites erano divenuti una potenza locale, anche se le loro relazioni con l’aristocrazia maggiore erano meno “feudali” rispetto a quanto avveniva nella Francia settentrionale.

London, British Library. Harley 2895 (fine XII sec.), Psalter de Charité-sur-Loire, f. 82v. Davide affronta Golia.

Fino al 1180 circa, i milites e i caballarius, di rango superiore, rimasero poco più che guerrieri di professioni, il cui status si fondava unicamente sulle virtù marziali. Eppure durante il XII secolo anche loro furono inseriti in quella vita di corte così vivacemente rispecchiata dalle canzoni dei trovatori meridionali. Se la Nord esistevano quattro tipologie di cavalieri, al Sud esistevano i ministeriales, che vivevano alla corte di un signore feudale. C’erano, naturalmente, grandi cavalieri o signori oltre che cavalieri vassalli che combattevano per lo più in adempimento ai loro doveri feudali, ma quello che distingueva il Sud era una proporzione assai più ampia di cavalieri mercenari assoldati sulla basi di contratti sia a breve, sia a lungo termine.
Le relazioni feudali erano più egualitarie rispetto a quelle del Nord, e c’erano meno cavalieri proprietari di terre o castelli che combattevano per signori feudali a loro gerarchicamente superiori sulla base di convenientiae, ovvero di “trattati di mutua assistenza” anziché come vassalli feudali. I castelli stessi erano posseduti sulla base di una gran varietà di rapporti legali, e molti erano libere proprietà. I commerci erano sempre stati più attivi al sud, e nel XII secolo queste attività ebbero un’ulteriore espansione, in gran parte incentrata su Tolosa. Non tutte le città trassero uguale beneficio, e alcune erano più aggressive di altre. Carcassonne, per esempio, era da secoli un grande centro militare. I cavalieri di base nelle città erano un’altra caratteristica, e spesso dominavano le città assieme a più ricchi mercanti in un’epoca nella quale queste città stavano acquisendo maggiore indipendenza.
A partire dalla metà del XII secolo, anche nel profondo Sud comparvero feudi privi di castelli, mentre i diritti feudali sui mercati o le gabelle potevano essere più importanti di quelli sulla terra, dal momento che portavano più denaro. Perfino nell’XI secolo era normale che la gente ricevesse terre in cambio del pagamento di un affitto anziché di servigi militari. Tali proprietà terriere erano spesso non ereditarie, e alla morte dell’occupante tornavano all’originario signore feudale. In effetti le corvèe feudali e i castelli non costituivano la base dell’ordine sociale del Sud, come al Nord, ma erano il risultato di un sistema amministrativo profondamente radicato nel passato romano. Un risultato del “metodo meridionale” fu che nel XIII secolo una larga parte della popolazione poteva reclamare lo status di “nobile” anche se possedeva poca terra o non ne possedeva affatto. Nel 1259 nella piccola regione attorno ad Agen, per esempio, c’erano 150 domicelli, i membri al livello più basso della classe cavalleresca, in aggiunta ai milites e ai barones di rango superiore.
Non solo i guerrieri del Sud erano organizzati in modo differente, ma c’era anche un diverso atteggiamento nei confronti della guerra e dello stile di vita militaresco. I cavalieri urbanizzati prendono parte con entusiasmo ai commerci – che producevano ricchezza – vivendo in abitazioni cittadine fortificate e godendo di diritti feudali (estager) all’interno delle mura. Può darsi che lo chevalier à coite avesse una riserva urbana meno militarizzata, o potrebbe trattarsi semplicemente di un’altra forma di servizio militare dovuto dai cavalieri urbanizzati. Un metodo di organizzazione più comune era la maisnade, che sembra fosse formata dai parenti di un signore feudale, anche se perfino le forze della maisnade erano spesso rinforzate da mercenari. Nella Francia meridionale si idealizza ben poco la “gloria” cavalleresca, dove si rimaneva diffidenti rispetto a quelle che erano viste come idee della barbara Francia settentrionale. Gli ideali cavallereschi del Nord si rispecchiavano raramente al Sud, né i tornei divennero mai popolari. Perfino il termine adober, ovvero “investire” un cavaliere, continuò ad avere il significato di “dotare dell’adeguato equipaggiamento militare” così come avveniva nell’XI secolo, anziché fare riferimento a qualche mistica cerimonia.Il Sud sviluppò invece i suoi più pacifici ideali di amor cortese che, fortemente influenzati dalla Spagna mussulmana e cristiana, si diffusero poi verso nord per “ammansire” i feroci guerrieri al di là della Loira. Frattanto, la più istruita classe cavalleresca del Sud, assieme agli altrettanto istruiti mercanti, era più aperta alle nuove idee. Sfortunatamente per la peculiare civiltà del Midi, queste idee includevano eresie religiose come quella dei catari, che si radicarono al Sud. Il movimento cataro o albigese fu sostenuto da nobili oltre che da cavalieri, e avrebbe portato a una successione di conflitti tra il 1209 e il 1218, e nel 1226.

New York, Morgan Library. B1 368 B Ms. M.805 (1313-1315), Lancelot du Lac, f. 41v. Un cavaliere (dettaglio).

L’equipaggiamento militare del Sud differiva solo nei dettagli da quello in uso nella Francia settentrionale, come dimostrato in una descrizione opera di Guilhelm de Marsan attorno al 1175:

«Procurati un buon cavallo e ti dirò io di che genere. Uno che sia veloce nella corsa e adatto alle armi. Prendilo subito e poi la tua armatura, la lancia, la spada e l’usbergo con la sua sopravveste. Fai che il cavallo sia ben sperimentato e non di cattiva qualità, e mettici sopra una buona sella e una briglia, e un peitral così che nulla sia inappropriato, e fai fare la gualdrappa dello stesso colore dipinto sullo scudo, e analogamente anche la banderuola della lancia. Procurati un cavallo da soma pronto a portare il tuo usbergo doppio e il tuo armamento ben alto in maniera che appaia più bello, e tieni sempre nei pressi degli scudieri».

Anche lo status degli scudieri del Sud era diverso. Nel XII secolo gli scudieri rimanevano servitori militari non nobili. Si prendevano cura dei cavalli, della sella e dell’armatura del loro padrone, conducevano il suo destriero (cavallo da guerra), recavano messaggi, facevano le commissioni e in campagna andavano in cerca di cibo. I cavalieri potevano anche sorvegliare il treno bagagli, mentre quelli di rango leggermente più elevato servivano a tavola. Il termine escudier (“scudiero”) poteva coincidere con quello di sirven e donzel. I sirvens erano numerosi nelle città fortificate ed è possibile che fossero paragonabili ai “sergenti” del Nord, mentre i donzels, sebbene spesso di nobili natali, fungevano anch’essi da attendenti o servitori per i cavaliers. I riferimenti duecenteschi ai donzels li descrivono impegnati a combattere in armatura cavalleresca completa o a servire a tavola, intenti ad aiutare il loro cavaliere a lavare e a indossare l’armatura anziché a prendersi cura dei suoi cavalli. Nondimeno non è chiaro se i donzels fossero aspiranti cavalieri come i juvenes del Nord, o provenissero da famiglie cavalleresche povere scivolate verso il basso nella scala sociale. Nel corso del XII secolo lo status degli scudieri stava mutando, e alla fine del XIII ci si attendeva che combattessero, pur rimanendo armati alla leggera. Continuavano ad avere scarse speranze di diventare cavalieri, ma veniva consigliato loro di essere “puliti e in ordine” anche se non si potevano permettere di vestire all’ultima moda. Vivendo in seno alla famiglia allargata del cavaliere, questi scudieri dipendevano da lui anche per la paga.

 

London, British Library. Royal 2 A XXII (XIII sec.), The Westminster Psalter, f. 220r. Un cavaliere in atto di omaggio.

Alla carenza di coesione da parte delle élites militari meridionali è stata spesso attribuita la causa della loro sconfitta nella Crociata contro gli Albigesi, e ciò ebbe un ruolo di primo piano nel crollo del sistema militare del Sud. Dall’altra parte, le forze del Sud combatterono spesso con successo, e continuarono a farlo anche dopo che la crociata portò il Midi sotto il controllo settentrionale. Intanto la Francia meridionale fu suddivisa tra le province governate, seppur a distanza, dalla Corona francese e quelle, come la Guascogna, che rimasero sotto il re inglese, teoricamente in qualità di vassallo dei francesi.

Nonostante l’importanza nella Francia meridionale dei soudadiers (“soldati con paga”), la distinzione tra mercenari e vassalli rimase sfumata. I mercenari meno prestigiosi comprendevano montanari a malapena civilizzati provenienti da ambedue i versanti dei Pirenei. I Guasconi, i Navarri e i Baschi rimasero molto richiesti come fanti dal XII al XIV secolo. Le loro armi più caratteristiche erano una coppia di giavellotti pesanti, o dards, che utilizzavano “alla maniera dei selvaggi Irlandesi”. Altri combattevano come arcieri, ma furono i dardiers a disturbare e a tendere imboscate con più successo contro le colonne delle truppe d’invasione della Francia settentrionale durante la Crociata contro gli Albigesi. Anche gli Aragonesi provenienti dal versante orientale dei Pirenei spagnoli si batterono come mercenari a partire dalla fine del XII secolo. Alcuni erano cavalieri o militari di cavalleria leggera, ma i più temuti erano gli almogavers (“incursori”) armati di lance o balestre.
[…]

«Nella dolcezza della primavera» (di Guglielmo d’Aquitania)

di C. DI GIROLAMO, I trovatori, Torino 1993, p. 39.

 

Questa canzone introduce un motivo importante della lirica trobadorica, la cosiddetta “metafora feudale”, cioè la trascrizione del rapporto amoroso nei termini del rapporto feudale: la subordinazione timorosa, il patto, l’anello, il mantello, il pane e il coltello, rimandano tutti a elementi del rituale di investitura del vassallo. Anche l’esordio primaverile e la rappresentazione del desiderio amoroso, sospeso tra gioia e pena, diventeranno dei tópoi della poesia trobadorica. Del tutto originale è lo spazio dato alla natura (si veda l’immagine del ramo di biancospino), osservata in funzione dei sentimenti umani, e rappresentata con autentica freschezza.

 

Heidelberg, Universitätsbibliothek. Pal. germ. 848, Codex Manesse (inizi XIV sec.), f. 249v. Konrad von Altstetten con la sua dama.

 

Ab la dolchor del temps novel

foillo li bosc, e li aucel

chanton, chascus en lor lati,

segon le vers del novel chan:

adonc esta ben c’om s’aisi

d’acho dont hom a plus talan.

 

De lai don plus m’es bon e bel

non vei mesager ni sagel,

per que mos cors non dorm ni ri

ni no m’aus traire adenan,

tro qu’eu sacha ben de la fi,

s’el’es aissi com eu deman.

 

La nostr’amor va enaissi

com la brancha de l’albespi,

qu’esta sobre l’arbr’en creman,

la nuoit, ab la ploi’ez al gel,

tro l’endeman, que·l sols s’espan

per la feuilla vert el ramel.

 

Enquer me menbra d’un mati

que nos fezem de guerra fi

e que·m donet un don tan gran:

sa drudari’e son anel.

Enquer me lais Dieus viure tan

qu’aia mas mans soz son mantel!

 

Qu’eu non ai soing d’estraing lati

que·m parta de mon Bon Vezi;

qu’eu sai de paraulas com van,

ab un breu sermon que s’espel:

que tal se van d’amor gaban,

nos n’avem la pessa e·l coutel.

 

***

 

Nella dolcezza della primavera

i boschi rinverdiscono, e gli uccelli

cantano, ciascheduno in sua favella,

giusta la melodia del nuovo canto.

È tempo, dunque, che ognuno si tragga

presso a quel che più brama.

 

Dall’essere che più mi giova e piace

messaggero non vedo, né sigillo:

perciò non ho riposo né allegrezza,

né ardisco farmi innanzi

finché non sappia di certo se l’esito

sarà quale domando.

 

Del nostro amore accade

come del ramo del biancospino,

che sta sulla pianta tremando

la notte alla pioggia e al gelo,

fino a domani, che il sole s’effonde

infra le foglie verdi sulle fronde.

 

Ancora mi rimembra d’un mattino

che facemmo la pace tra noi due,

e che mi diede un dono così grande:

il suo amore e il suo anello.

Dio mi conceda ancor tanto di vita

che il suo mantello copra le mie mani![1]

 

Io non ho cura degli altrui discorsi

che dal mio Buon-Vicino[2] mi distacchino;

delle chiacchere so come succede,

per picciol motto che si profferisce:

altrui van dandosi vanto d’amore,

noi disponiamo di pane e coltello[3].

 

(trad. it. A. Roncaglia)

 

Paris, Bibliothéque Nationale de France. Ms. 12473, Canzoniere trobadorico (XIII sec.). Guglielmo IX d’Aquitania.

 

Salvo forse l’ultima stanza, la canzone esibisce una singolare trasparenza, con le sue immagini ora delicate, ora più intense pur nella loro dissolvenza; nella quarta stanza compare anche il personaggio femminile, inserito nell’evocazione di una scena d’amore, mentre il nos (fortissimo nell’ultimo verso: noi due, non gli altri) rimanda all’universo di una coppia […].

Il trovatore, traendo spunto dalla natura a primavera, afferma che è giusto rivolgersi verso ciò che si ama […].

Il poeta-amante si sente in uno stato d’incertezza: non riceve messaggi dall’amata, ma non osa farsi avanti. Nonostante ciò, spera che anche stavolta accada come in passato, quando una mattina fece pace con la sua donna, e lei gli donò il suo amore e il suo anello. Spera anche che la maldicenza degli invidiosi non lo separi dalla sua amata.

Al di là di questa brutale parafrasi, nella canzone compaiono diversi elementi caratteristici della poesia dei trovatori, riconducibili alla cosiddetta “metafora feudale”. In sostanza, l’amore viene qui visto nei termini di un rapporto feudale: il poeta si rivolge alla sua donna come un vassallo al suo signore, e ha nei suoi confronti un atteggiamento di sottomissione e di timore, al punto che non osa prendere l’iniziativa (v.10).

Il rapporto feudale ha diverse implicazioni: tra il vassallo e il feudatario c’è un vincolo giuridico, un patto, il patto a cui si allude ai vv.11 e 20. Anche feudale è il riferimento all’anello (v.22) che il signore donava al vassallo nel corso della cerimonia d’investitura. E non è solo (è anche, non è solo) un’immagine erotica quella del poeta che mette le mani sotto il mantello dell’amata (v.24): all’atto dell’investitura il signore copriva, in segno di protezione, il vassallo inginocchiato a mani giunte con il lembo del suo mantello.

 

Oxford, Bodleian Library. Ms. Bodley 264 (XIV sec.). Prise de Defour, f. 101v. Un cavaliere riceve l’investitura d’amore dalla sua dama.

 

Né si può spiegare soltanto con le chiavi di un’elementare simbologia sessuale a sua volta fondata su una metafora alimentare (il coltello e il pezzo di carne o di pane) l’ultimo verso: il coltello rientrava, infatti, in alcuni rituali dell’investitura, per «esprimere il possesso di un bene concreto», un bene che è dato appunto dalla pessa, «in un significato specifico che potrebbe essere proprio quello di “pezzo di terreno”», cioè il territorio concesso al vassallo. Il ricorso alla metafora feudale, che sarà poi sviluppata con dovizia di dettagli dai trovatori successivi, ha risvolti perfino grammaticali, oltre che terminologici. Al v.26, Bon Vezi è ovviamente un *senhal della donna amata, ma ci si può chiedere come mai questo, come tanti altri pseudonimi (Joglar, Bel Cavalier, Bel Senhor…), sia al maschile invece che al femminile. La ragione va cercata nell’espressione stessa che designava la dama, midons, una forma maschile che sta per “mio signore”, in stretta accezione feudale: midons giustifica quindi il *senhal al maschile. L’impiego di uno pseudonimo per nominare la dama, benché diffuso in tutta la poesia d’amore, da quella classica a quella contemporanea, ha nel caso dei trovatori precise giustificazioni: tra le principali virtù cortesi c’è, infatti, quella del celar, di “nascondere” rigorosamente l’identità dell’amata. Se il comportamento del perfetto amante si misura nei suoi rapporti con il mondo, il suo amore deve essere del tutto segreto. La ragione principale del vincolo della discrezione va anzitutto cercata nella condizione sociale della dama cantata dai trovatori, che è immancabilmente una dama d’alto rango. A tale ragione, che da sola basterebbe a giustificare il celar, un’antica e radicata tradizione critica, già testimoniata da Stendhal, ha aggiunto il carattere adultero, e quindi proibito, di questo amore. L’adulterio sarebbe anzi una delle condizioni essenziali dell’«amor cortese» secondo Gaston Paris, che viene considerato l’inventore, nel 1883, di questa fortunata benché ambigua formula. Alcuni studi recenti hanno messo radicalmente in discussione questo aspetto della fin’amor, soprattutto sulla base della narrativa in lingua francese (posteriore di circa mezzo secolo alla prima lirica dei trovatori), che non esclude amori con giovani donne non sposate e che in diversi casi presenta il matrimonio come il coronamento di una vicenda cortese.

 

***

Note:

[1] che il suo mantello copra le mie mani!: non è solo un’allusione erotica, ma rimanda al gesto simbolico della cerimonia di investitura, in cui il signore copriva con il mantello il vassallo in segno di protezione.

[2] Buon-Vicino: è un *senhal della donna amata.

[3] noi disponiamo di pane e coltello: ho quanto mi serve; ma anche qui “pezzo e coltello” sono una metafora ripresa dalla simbologia del rituale di investitura, che alludeva al possesso di un bene, della terra, concesso al vassallo.

La cultura cortese

di R. Luperini et alii, La scrittura e l’interpretazione. Storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea. Vol 1, Dalle origini al Manierismo, tom. I – La società feudale, il Medioevo latino e la nascita delle letterature europee, Firenze 2000.

Mappa della Provenza, suddivisa fra gli omonimi marchesato e contea e la Contea di Forcalquier (1125).

 

Fra le letterature romanze (o neolatine) quella francese comincia nel secolo XI, quella spagnola nel XII, quella italiana nel XIII. La supremazia del provenzale e del francese è anche dovuta alla maggiore ricchezza e vitalità della società feudale e cortese, che in Francia raggiunge già nell’XI e nel XII secolo il massimo del suo splendore.
È interessante tuttavia osservare che nei paesi di lingua non romanza i primi documenti linguistici e letterari dei volgari nazionali sono più precoci: intorno al 700 in Inghilterra, al 750 in Germania. Mentre, infatti, i volgari romanzi erano più vicini al latino e ciò rese possibile per molto tempo un terreno d’intesa formato da una sorta di latino imbastardito, la totale estraneità delle lingue germaniche al latino costringeva a imparare questa lingua come lingua straniera. Ne consegue che, da un lato, in Inghilterra e in Germania si scriveva e si parlava, da parte delle persone colte, un latino scolasticamente più corretto e più puro rispetto a quello in uso in Italia, Francia e Spagna; ma, dall’altro, la distanza dai volgari parlati di questa lingua scolastica era massima: ebbene, proprio questa radicale estraneità fra latino scritto e lingua parlata indusse a impiegare quest’ultima anche nello scritto e favorì così una nascita più precoce delle lingue e delle letterature nazionali.
Nella letteratura inglese e tedesca bisogna tuttavia distinguere due fasi diverse e successive: nella prima (dall’VIII secolo alla prima metà dell’XI) si sviluppano l’epica nazionale (il Beowulf anglosassone è del 750, l’Hildebrandslied, tedesco, all’incirca dello stesso periodo) e la poesia religiosa, con un netto anticipo rispetto all’epica e alle forme letterarie francesi e provenzali. Le letterature in lingua d’oc e in lingua d’oïl hanno dunque, a partire dalla seconda metà dell’XI secolo, una funzione egemone, contribuendo in modo decisivo allo sviluppo unitario della civiltà europea.

Paris, Bibliothéque Nationale de France. Ms. 854 (XIII sec.), f. 191v. Lettera incipitaria miniata con figura di cavaliere, dal
Canzoniere di Garin d’Apchier.

Dall’epicentro francese si diffuse la cultura cortese, detta così perché si sviluppò nelle corti dei signori feudali. La cultura cortese era dunque espressione dell’aristocrazia feudale. Aveva un carattere unitario e trans-nazionale. L’apporto italiano fu invece minore: non ci fu in Italia uno sviluppo economico e politico del sistema feudale come in Francia, in Germania, in Inghilterra o nella Spagna del nord, e anche per questo mancò nel nostro paese una grande letteratura cortese con caratteri originali. La nostra cultura si sviluppò dall’ambiente cittadino, per impulso non delle corti e dei castelli ma delle istituzioni comunali e dei nuovi ceti borghesi urbani che costituiscono, spesso fondendosi con i vecchi gruppi feudali, la nuova classe dominante.
Quanto alla nazione-guida, la Francia, essa non pare soffrire della divisione linguistica fra Nord e Centro-nord da un lato e Sud e Centro-sud dall’altro. Le due lingue dettero vita a due letterature parallele che convissero per due secoli, ciascuna nella propria autonomia, ma con fitte relazioni reciproche, intrecci e zone di interscambio. La letteratura francese in lingua d’oïl fu soprattutto epica e narrativa, quella provenzale in lingua d’oc soprattutto lirica.
In Provenza la società cortese e la letteratura in lingua d’oc, che ne esprimeva idealità e sensibilità, già fiorenti fra la fine dell’XI e l’inizio del XII, raggiunsero il massimo di splendore nel trentennio fra il 1175 e il 1205. Successivamente, la crociata del 1208-1209 contro gli Albigesi (o catari provenzali, una setta eretica che aveva il proprio centro nella città di Albi), promossa da papa Innocenzo III e guidata a Simone di Montfort, colpì a morte la civiltà provenzale. Ciò favorì l’espansione politica, culturale e linguistica del Nord. Subito dopo la crociata, l’annessione del Mezzogiorno da parte del Nord nel 1229 (trattato di Parigi) decretò il tramonto della letteratura provenzale.

Paris, Bibliothéque Nationale de France. Ms. 854 (XIII sec.), f. 108v. Lettera incipitaria miniata con figura di cavaliere, dal Canzioniere di Ser Blacatz.

La cultura cortese è eminentemente cavalleresca. I cavalieri, in origine, erano solo una corporazione di guerrieri professionali che combattevano a cavallo e dunque potevano permettersi di possederne uno. Essi esprimevano per lo più una nobiltà minore, priva di feudi e di grandi ricchezze. Talora si trattava di cadetti, figli non primogeniti esclusi dall’eredità del feudo, altre volte di ministeriales al servizio dei signori feudali (amministratori, membri del seguito e della guardia, scudieri, ecc.). Essi esaltavano le virtù guerresche, la forza, la fedeltà al signore, la lealtà, ma anche le virtù spirituali, come la gentilezza o la nobiltà d’animo, la difesa della fede cristiana, dei deboli, delle donne.
All’inizio i cavalieri sfruttavano le loro capacità di combattenti e per imporsi si servirono delle liti e delle guerre fra signori e fra Stati, vivendo di avventure e trasformandosi talora in una sorta di briganti di strada. Poi, grazie all’intervento della Chiesa – basti pensare al carattere religioso che venne ad assumere la cerimonia d’investitura –, i cavalieri vennero inseriti in un’organizzazione regolata da un codice preciso e da norme ispirate alla religiosità cristiana, anche se mai disgiunte dal culto della forza e dal valore guerresco.
Nell’immaginario dei primi due-tre secoli dopo il Mille, il cavaliere è animato dallo spirito d’avanture («avventura») e di queste («ricerca»). Avventura e ricerca sono anche un itinerario spirituale e mezzi per realizzare una formazione individuale finalizzata a un ideale di perfezione: si spiega così, per esempio, nei romanzi cavallereschi del ciclo di re Artù, il carattere simbolico della ricerca della sacra coppa del Graal nella quale era stato raccolto il sangue di Cristo. In realtà, molto spesso, il cavaliere vive a corte, contando sulla generosità del signore, che deve mantenere lui, il suo scudiero e il suo cavallo. In questa situazione d’inferiorità sociale egli può far valere solo il suo personale prestigio o “onore” di perfetto cavaliere. Per questo tende a valorizzare la nobiltà d’animo su quella della stirpe e a mettere in primo piano i valori della “gentilezza” e della “cortesia” rispetto a quelli della gerarchia fondata sul potere o sulla discendenza ereditaria. Proprio nel momento in cui la nascente borghesia delle città esalta il risparmio, il calcolo, la contrattazione economica, il cavaliere elogia la prodigalità o “liberalità”, disprezza chi si dedica al commercio e ai traffici, esalta la dignità di un decoro e di una distinzione sociale fondati sulla “cortesia”. I cavalieri forniscono così l’ideologia con cui l’intera aristocrazia feudale può affermare la propria superiorità sociale e culturale, fondandola sull’opposizione “cortesia-villania”. Nella vita di corte si crea una comunità aristocratica che tende, se non a dissolvere le differenze sociali fra grande nobiltà e piccola nobiltà, fra nobiltà d’animo e nobiltà di sangue, ad attenuarle in un codice di vita omogeneo e unitario estremamente formalizzato. Questa comunità è la protagonista della civiltà cortese, della sua cultura e della sua letteratura. Fra i riti che ne determinano l’unità e la compattezza, la letteratura ha una funzione ideologica di primo piano. La comparsa della figura del cavaliere-poeta è un fenomeno nuovo, anzi «così nuovo che si potrebbe considerare come una delle cesure più profonde della storia letteraria» (Hauser). Il poeta laico prende definitivamente il posto del chierico poetante. Nasce una poesia assai lontana dallo spirito ascetico della Chiesa e tutta centrata su una rivalutazione della donna e dell’amore.
In tutto l’Alto Medioevo la donna era considerata – ha scritto il grande storico francese Le Goff – «la peggiore incarnazione del male». La sessualità e il corpo venivano demonizzati. Nella società cortese, invece, la figura femminile viene riconsiderata positivamente. D’altronde, a causa delle Crociate e delle guerre, le donne dei signori feudali rimangono a lungo sole nelle corti e nei castelli e si trovano nella condizione non solo di pretendere il rispetto dei nobili minori e degli altri sottoposti ma di esercitare direttamente il potere. Esse difendono e promuovono l’arte, diventano ispiratrici di poesia e, talora, poetesse esse stesse. Aliénor d’Aquitaine e Marie de Champagne assolvono nella realtà la stessa funzione che, nell’immaginario, hanno Isotta o Ginevra, le due più famose protagoniste del romanzo cortese: «inventano l’amore moderno» (Hauser). Nell’amore cortese, il corteggiamento viene ritualizzato come fase necessaria dell’amore, il rispetto per la donna è valore supremo e alla donna si attribuiscono le virtù più nobili e preziose. L’amore stesso diventa un codice sociale, ma anche si affina, si fa esperienza spirituale, ricerca interiore.
L’innamorato ripete nei confronti dell’amata l’atto di vassallaggio feudale che ogni dipendente doveva esibire nei confronti del signore: chiede un beneficio che può essere uno sguardo o un saluto o addirittura la corresponsione piena dell’amore, ma più spesso è un atto simbolico di riconoscimento o di promozione sociale, e offre in cambio il proprio servizio (è il servitium amoris), e cioè le proprie lodi e la propria devozione. L’amore cortese è insomma omogeneo all’ideologia feudale: è in grado di darne un’interpretazione che soddisfa le esigenze della piccola nobiltà ma che può esprimere anche quelle del sistema feudale nel suo complesso.
C’è una contraddizione paradossale in tutto questo: da un lato l’amore cortese è anti-matrimoniale (la donna è in genere la moglie del signore) e quindi eversivo; dall’altro, rafforza invece i vincoli della comunità aristocratica. Nella realtà, infatti, la contraddizione era molto spesso rivolta con l’altissima formalizzazione, astrazione, ritualizzazione della richiesta d’amore e con la trasformazione simbolica dei suoi contenuti: la donna, invece, che concede il proprio corpo, concederà onore, rispetto, protezione e promozione sociale al cavaliere-poeta. Il principio feudale dello scambio delle prestazioni e della reciprocità dei servizi è sì mantenuto, ma il beneficio richiesto coincide ormai con una protezione sostanzialmente priva di implicazioni erotiche. Il servizio d’amore si è professionalizzato e ciò ne esclude gli aspetti più trasgressivi ed eversivi.

Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de L’Escorial. Ms J.b.2, Códice de los músicos (XIII sec.), Cantiga 60.

Possiamo distinguere quattro momenti diversi di elaborazione letteraria, di rapporto dell’autore con il pubblico, di codificazione dei generi. Per quanto alcuni di questi momenti possano essere anche contemporanei fra loro, essi esprimono in realtà un processo di svolgimento, una linea d’evoluzione. […]
In una prima fase, si ha il poemetto agiografico in volgare. In questo genere è ancora evidente l’influenza del modello latino delle vite dei santi. Si tratta di poemetti presentati al pubblico da chierici-giullari o da giullari che sono portavoce dei chierici. L’influenza della Chiesa è ancora decisiva. I manoscritti che contengono questi testi sono trascritti e conservati in monasteri.
Una seconda fase è costituita dal passaggio dall’agiografia alla narrazione epica. Quest’ultima si struttura sul modello stesso del poemetto agiografico, sia nella forma metrica, perché i versi sono anche qui decasillabi assonanzati, sia nel contenuto, perché si passa dall’esaltazione dei martiri a quella dei cavalieri attraverso una fase intermedia: il panegirico di un cavaliere martire per al fede. Il contributo dei chierici all’elaborazione di questo nuovo genere è ancora decisivo, ma il giullare ha già una maggiore autonomia. Probabilmente all’inizio egli è ancora al servizio della Chiesa, che usa la narrazione epica per intrattenere le folle durante i pellegrinaggi verso monasteri o luoghi sacri. L’epica non ha dunque un’origine popolare anche se deve fare i conti con il gusto del popolo. Il capolavoro del genere è la Chanson de Roland.

Scontri fra cavalieri ispirati alla Chanson de Roland. Rilievo, pietra locale, XII sec. c. dal fregio sulla facciata. Angoulême, Cattedrale di San Pietro.

Un terzo momento, in parte contemporaneo, in parte successivo al precedente, è quello del giullare di corte e del trovatore (o, in Francia del Nord, troviere). La trasmissione è ancora orale. Nella maggior parte dei casi il trovatore fornisce la musica e un testo scritto al giullare che lo impara a memoria e, recitandolo più volte in pubblico, lo fissa nella memoria collettiva. In questo caso il testo è più stabile rispetto all’epica, ma può subire ancora alcune variazioni. Ben presto i testi cominceranno a essere riuniti in canzonieri d’amore, la trascrizione dei quali è affidata a copisti laici. Il giullare di corte è fortemente professionalizzato in senso specialistico, gode di un certo prestigio culturale, intrattiene il pubblico con un repertorio molto selezionato.

Paris, Bibliothéque Nationale de France. Ms. 854 (XIII sec.), f. 26v. Lettera incipitaria miniata con figura di trovatore, dal Canzioniere di Bernard de Ventadorn.

Una quarta fase (da un punto di vista strettamente cronologico in buona misura coincidente con la precedente) è segnata dal prevalere della lettura. Sia la poesia agiografica, sia quella epica e lirica sono destinate alla recitazione e all’ascolto. Invece questa fase è caratterizzata dal romanzo cavalleresco in versi, composto per la lettura. Nasce un tipo di poeta già «molto vicino allo scrittore moderno: non compone più versi da declamare, ma scrive libri da leggere» (Hauser). La destinazione alla lettura favorisce la diffusione di tecniche di narrazione più complesse rispetto all’epica delle Chansons de geste. Insomma, ha inizio una forma di scrittura narrativa moderna. Con essa nasce un vero e proprio pubblico letterario, che legge “per diletto”. Al suo interno, un posto importante e forse preminente hanno le donne, che dispongono di maggior tempo libero rispetto agli uomini, impegnati nelle guerre e nelle lotte politiche. Questo pubblico non è più indifferenziato (popolare e nobiliare insieme) come quello delle canzoni di gesta: anzi, all’inizio, il pubblico del romanzo è esclusivamente quello cortese delle corti e dei castelli, e solo in un secondo tempo tende ad allargarsi anche agli strati mercantili e borghesi più elevati. Con il passare del tempo si modifica anche la condizione del poeta: quest’ultimo non è più cavaliere-poeta o giullare itinerante. Alla fine del Duecento il poeta è divenuto un menestrello, cioè un impiegato di corte retribuito dal signore: infatti, “menestrello” deriva dalla parola latina ministerialem, che indica un dipendente del signore feudale. Il menestrello non esegue testi altrui, è scrittore in proprio, dotato spesso di alto prestigio culturale, e la sua opera è destinata alla lettura. La figura del giullare non scompare ma retrocede nella scala sociale: il giullare torna a rivolgersi al pubblico nelle piazze e a occuparsi di argomenti borghesi e popolareschi.

Paris, Bibliothéque Nationale de France. Ms. 12473, Canzoniere trobadorico (XIII sec.), f. 27v. Perdigon suona il violino.

I poemi epici francesi sono chiamati “canzoni di gesta”. Il termine “canzone” indica che si tratta di testi interpretati da un cantore con accompagnamento musicale. Il termine “gesta” deriva dal participio passato del verbo latino gerere e significa «imprese realizzate»: esso continua nel francese geste, con il significato di «impresa» ma anche di «cronaca di imprese». Nel linguaggio feudale, la parola geste indicava la tradizione eroica di un’antica famiglia o di un lignaggio.
Le canzoni di gesta si sviluppano fra l’XI e il XIII secolo, quando vengono sostituite da rimaneggiamenti in prosa. Esse accolgono un’esigenza narrativa e epica molto diffusa a ogni livello della società, in un momento in cui il potere feudale sta passando da potere di fatto, basato sulla forza, a potere di diritto, basato sulle leggi e sul consenso. In questa nuova fase il potere feudale ha bisogno di essere legittimato socialmente: le canzoni di gesta e le altre forme epiche, che ora si diffondono anche nella pittura, danno una risposta a tale esigenza di un cemento ideologico. Inoltre una parte considerevole di tali narrazioni epiche riflette e accompagna uno dei momenti di maggior espansione della società feudale, quello anglo-normanno dei conquistatori dell’Inghilterra.
Le canzoni di gesta si organizzano in cicli. Quelli principali sono tre: il ciclo di Carlo Magno (il più antico), il ciclo di Guillaume d’Orange, il ciclo dei vassalli ribelli. Il primo narra le imprese di Carlo e dei suoi paladini contro i Saraceni; ne fa parte la Chanson de Roland che è il capolavoro del genere. Il secondo racconta le gesta del nobile cavaliere Guillaume, grande feudatario del sud della Francia, e la Chanson de Guillaume ne costituisce il centro. Il terzo rappresenta la rivolta di un feudatario contro un principe indegno: esso esprime già un momento di crisi di legittimazione del potere feudale, che appare contestato dal suo interno (i baroni sono in conflitto fra loro e con il sovrano); la canzone più significativa è Raoul de Cambrai.
Come già si è osservato, le canzoni di gesta non nascono da una tradizione orale e popolare, ma in un ambiente colto. Però sono trasmesse oralmente a un pubblico anche popolare, ma di cui si dà comunque per scontata la solidarietà con la vicenda. I testi, essendo orali e per lo più anonimi, non sono stabili, ma soggetti a interpolazioni e a variazioni. Sono composti di strofe di varia lunghezza, di versi decasillabi uniti fra loro da un’assonanza che collega tutti i versi della stessa strofa.
La Chanson de Roland consta di circa 4000 decasillabi. È stata composta nella seconda metà dell’XI secolo (intorno al 1080), ma il manoscritto più antico che la conserva, a Oxford, è della prima metà del secolo successivo. Alla fine del manoscritto viene registrato il nome di Turoldo, ma è difficile dire che se si tratti del nome dell’autore (come oggi si propende a pensare) o piuttosto di colui che ha copiato il poema.

Duello fra Guglielmo d’Orange e il gigante saraceno d’Isore. Affresco (ispirato alla chanson de geste Moniage Guillaume, fine XIII sec. da Tour Ferrandes. Pernes-les-Fontaines.

La composizione della Chanson de Roland risale a un periodo successivo di tre secoli rispetto alla vicenda che narra: una spedizione di Carlo Magno contro i Saraceni spagnoli nel 778. La morte di Orlando segna il momento di maggiore tensione emotiva e ideologica: egli è insieme un perfetto modello di guerriero e una figura di martire cristiano, ed è dunque capace di unire ideali guerreschi e religiosi, fedeltà all’imperatore terreno (Carlo Magno) e a quello ultraterreno (Dio).
La storia è volta in leggenda con chiara intenzione epico-religiosa. La narrazione è elementare, avanza per schemi e opposizioni (Cristiani contro Saraceni, l’eroe contro il traditore, ecc.), per blocchi narrativi e scene unitarie condensate una per ogni lassa (o strofa), secondo il procedimento della paratassi, puntando su effetti semplici ma potenti, che tendono alla ritualità della ripetizione. Come nella tradizione epica antica, ricorrono spesso le stesse formule e gli stessi moduli.

Heidelberg, Universitätsbibliothek. Cod. Pal. germ. 848, Codex Manesse (inizi XIV sec.), f. 252r. Scena di bacio fra Hug von Werbenwag e la sua dama.

 

L’aggettivo “cortese” deriva dalla “corte” del sovrano e dei signori feudali e indica una condizione di gentilezza o “cortesia”, di nobiltà, di raffinatezza nell’educazione e nei costumi, di predisposizione alla “liberalità” (o generosità): definisce, insieme, uno stato sociale rurale, quello dei frequentatori della “corte” feudale, e una condizione ideale che implica piuttosto un programma, una tensione verso un modello di perfezione spirituale e culturale. “Cortese” è opposto a “villano”, termine che indica non solo il popolo basso ma, almeno nel Nord della Francia, anche la borghesia: la “villania” è opposta infatti alla “cortesia” o gentilezza ed è sinonimo di grettezza, ignoranza, rozzezza di costumi, e di avarizia, in contrapposizione alla “liberalità” cortese. Come ha mostrato Auerbach, la parola “cortesia” (corteisie in lingua d’oïl) si afferma nei secoli XII-XIII: essa definisce una nuova fase della civiltà feudale e infatti soppianta il termine con cui prima si definiva l’ethos (cioè il mondo morale) feudale, vasselage («vassallaggio»), sottolineando così la nascita di un nuovo modello morale e culturale di vita.
Dal sostantivo “corte” e dall’aggettivo “cortese” derivano termini in uso ancora oggi, come “fare la corte” o “corteggiamento” che rinviano alla sfera dell’amore. Tale continuità non è certo casuale: nei secoli XII-XIII nasce una nuova concezione dell’amore che si prolunga sino a oggi.
L’amore cortese è al centro non solo del romanzo ma anche della lirica e dunque qualifica i due maggiori centri letterari della società cortese. Non è solo un motivo poetico, ma un argomento di trattazione scientifica, morale e filosofica. Fra romanzo e lirica contribuiscono anch’essi alla trattatistica d’amore, che ha un grande sviluppo nel periodo che va dalla fine dell’Alto Medioevo ai primi secoli del Basso.
Il trattato più noto e più importante è il De Amore di Andrea Cappellano, scritto in lingua d’oïl fra il 1174 e il 1204. Esso da un lato accoglie le teorie d’amore più diffuse e dall’altro le codifica in modo originale, dando vita a una tradizione che continuerà per tutto il Duecento e il Trecento e influenzerà profondamente la Scuola lirica siciliana, gli stilnovisti e Dante. Esso definisce i principali “comandamenti d’amore”.
Il De amore contiene i seguenti nuclei teorici: si propone una definizione dell’amore in cui confluiscono aspetti istintivi e passionali e aspetti legati all’immaginazione e alla riflessione (rifacendosi alla trattatistica corrente, ma anche alla lezione dell’Ars amandi di Ovidio): «L’amore – scrive Andrea Cappellano – è una passione istintiva che nasce dalla visione e dalla sovraeccitazione immaginativa per la bellezza dell’altro sesso»: di qui l’importanza della vista, la cui funzione diventa un topos della poesia d’amore, ma anche della fantasia e della capacità di immaginazione; il rapporto innamorato-donna riflette quello feudale fra vassallo e signore: al servitium («servizio d’amore») del primo deve corrispondere la concessione di un privilegium («privilegio») da parte della seconda, la quale non deve respingere l’omaggio dell’amante, se quest’ultimo è animato da un amore puro e da gentilezza di costumi; si prospetta una posizione inconciliabile fra amore libero e matrimonio e si teorizza che solo il primo è vero amore, ma si aggiunge anche che ciò non deve indurre al libertinaggio: vengono anzi teorizzate l’unicità del rapporto d’amore e la tendenza di quest’ultimo a giungere a un massimo di perfezione ideale; si afferma l’esistenza di uno stretto rapporto fra gentilezza e amore: la gentilezza, cioè la purezza e la nobiltà di costumi e di sentimenti, non dipende dalla nobiltà di sangue, ma dalla nobiltà d’animo e si associa di necessità al bisogno d’amore. Ne deriva inoltre che lo spazio dell’amore è anche quello dell’esperienza intellettuale ed esistenziale: è uno spazio ideale, meditativo, fantastico, in cui dominano l’immaginazione e la malinconia e che quindi è particolarmente disponibile all’esperienza poetica. Lo spazio dell’amore e quello della poesia tendono a coincidere. Troviamo qui, insomma, le premesse della poesia lirica moderna.

Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de L’Escorial. Ms J.b.2, Códice de los músicos (XIII sec.), Cantiga 170.

Nell’espressione “romanzo cortese” il sostantivo indica, come già sappiamo, il genere letterario più diffuso in lingua romanza. Si tratta di una narrazione, e per questo, poi, il termine “romanzo” passerà a indicare il moderno genere letterario narrativo, il romanzo appunto. Però, a differenza di quello moderno, il romanzo cortese è una narrazione in versi. Esso si sviluppa nella Francia settentrionale ed è perciò in lingua d’oïl.
Il genere del romanzo si fonda su due temi fondamentali: l’amore e l’avventura. Se il primo è condiviso anche dalla poesia lirica, il secondo riguarda invece l’epica e il romanzo. Bisogna notare però che il tema dell’avventura esprime nel romanzo una visione del mondo – più individualistica – assai diversa da quella dell’epica delle Chanson de geste.
Nel romanzo l’avventura è un elemento-chiave. La nozione di “avventura” era già presente nell’epica, ma viene ad assumere uno spazio assai maggiore nel romanzo, in cui acquista anche un diverso significato: non si tratta più di un «caso» o di un accidente che fa parte di un destino collettivo, ma di una prova del tutto individuale che conferma la singolarità dell’esperienza. Si passa da una dimensione corale a una soggettiva, in cui il senso della vita sta in una ricerca personale: soltanto grazie a tale ricerca, che esalta le qualità di un eroe spesso solitario e isolato, si può rivelare un senso universale.
L’amore e l’avventura sono strettamente collegati: per lo più, le imprese più audaci, più strane e meravigliose sono compiute per amore di una donna. Inoltre l’avanture spesso non è che un aspetto della queste, cioè della ricerca di un oggetto (che può essere anche il sacro Graal) o di una persona, nei quali si concretizza il senso universale della vita.
Dal punto di vista formale, il romanzo cortese è caratterizzato dall’uso di versi ottosillabici in rima baciata. Questa struttura metrica valeva anche per il lai, genere più breve in cui il racconto d’amore e di avventure è intriso di liricità. Solo in un secondo momento si diffonderanno i romanzi in prosa. Come abbiamo già visto, il romanzo in versi era destinato alla lettura e non alla recitazione e quindi escludeva l’accompagnamento musicale.
Da un punto di vista tematico, possiamo distinguere tre tipi di romanzo: quello che si ispira a episodi dell’antichità, come l’antica Troia, Tebe, la figura di Alessandro Magno; il romanzo che narra vicende d’amore della narrativa greca e bizantina (come Floire et Blanchefleur); il romanzo che racconta episodi tratti dalla cosiddetta “materia di Bretagna” e dunque dalla leggenda di re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda. Appartengono alla materia bretone le storie d’amore più famose, quella di Lancillotto, cavaliere della tavola rotonda, che ama Ginevra, moglie di re Artù, e quella di Tristano e Isotta. Quest’ultima ci è stata tramandata soprattutto dal poeta anglo-normanno Tumas de Britanie con il suo Tristan, composto nel 1170 circa. Si tratta spesso di storie imperniate sul conflitto fra amore e senso del dovere; ma nel Tristan la forza dell’amore si impone su tutti i limiti della società, sino alla morte finale dei due amanti.
Il maggiore autore di romanzi cortesi è Chrétien de Troyes, che può essere considerato il più grande poeta del Medioevo prima di Dante. Visse nella seconda metà del XII secolo alla corte di Marie de Champagne e di Philippe d’Alsace. Fra il 1165 e il 1185 scrisse varie opere non tutte a noi pervenute: oltre a due canzoni d’amore ci sono rimasti cinque romanzi: Erec et Enide, Cligès, Lancelot (o Le chevalier de la charrette) – rimasto incompiuto –, Yvain (o Le chevalier du lion), Perceval (o Le comte du Graal) – anch’esso incompiuto. Dei due romanzi incompiuti, il secondo rimase tale a causa della morte dell’autore, mentre il primo fu lasciato alla continuazione di un altro poeta, Geoffroy de Lagny. Fra le opere di Chrétien andate perdute (e che, per quanto se ne sappia, rivelavano le sue conoscenze della poesia latina e di Ovidio in particolare) c’era anche un poema dedicato a Tristano e Isotta.

Combattimento fra cavalieri. Affresco, XIII sec., frammento del Ciclo di Yvain. Castello di Rodengo.

Erec et Enide, Yvain e Cligès rappresentano il conflitto fra i doveri della cavalleria e l’amore per la donna, ma anche il raggiungimento del perfetto amore nel rapporto coniugale (tesi, questa, che contrasta con quanto teorizzato dalla maggior parte dei trattatisti d’amore). Nel Perceval la vocazione cavalleresca dell’avventura scopre progressivamente i contenuti spirituali e una tendenza all’elemento mistico-religioso nella ricerca della sacra coppa del Graal. Nel Lancelot ritorna invece il tema della totale servitù d’amore, anche se questo sarebbe vietato dal vincolo matrimoniale: Lancillotto, per amore della regina Ginevra, moglie di re Artù, a cui lui stesso, in quanto cavaliere, dovrebbe fedeltà, si sottopone sia alle imprese più rischiose sia alle prove più umilianti, come quella di prender posto su una carretta riservata ai colpevoli dei delitti più vergognosi: di qui la sua definizione di “cavaliere della carretta”. E poiché, prima di salirvi, ha avuto un attimo di esitazione lo dovrà poi espiare: esitando, ha rivelato, infatti, un dubbio nel seguire fino in fondo le regole del “servizio d’amore” che non potrà restare impunito. Il cavaliere vive assorto in un suo sogno d’amore che lo porta a dimenticare le circostanze esterne ma che gli conferiscono anche una forza sovrannaturale, come nell’episodio della notte d’amore con Ginevra quando giunge a forzare le sbarre che lo dividono dalla donna.

Paris, Bibliothéque Nationale de France. Ms. 12473, Canzoniere trobadorico (XIII sec.). Guglielmo IX d’Aquitania.

La poesia lirica dei trovatori fiorì nella Francia meridionale e in Provenza tra la fine dell’XI e i primi due decenni del XIII secolo: dopo la crociata contro gli Albigesi e la pace di Parigi del 1229 (che praticamente decideva l’annessione della Provenza da parte della Francia del Nord) conobbe un rapido tramonto. A partire dalla seconda metà del XII secolo la lirica si diffuse anche nel Nord del paese, dove però il genere dominante rimase il romanzo. Invece, in Provenza la poesia lirica restò egemone, e i trovatori furono numerosissimi: conosciamo il nome di 460 poeti provenzali.
È difficile individuare le origini della poesia lirica provenzale. C’è chi la collega alla tradizione classica latina di poesia erotica e chi invece a quella araba, né manca chi la riconnette piuttosto alla poesia religiosa di esaltazione della Vergine. Ma nessuna di queste ipotesi può ritenersi definitiva.
Indubbiamente anche questo genere letterario è espressione della vita di corte e da essa inseparabile. Anche se i poeti possono essere grandi signori e feudatari, come Guilhèm IX de Peitieus, per lo più provengono dalle fila della piccola nobiltà (sono cavalieri poveri) oppure sono ministeriales, cioè dipendenti non nobili del signore. Essi, in cambio del loro canto di lode e di devozione, chiedono amore o almeno protezione alla moglie del signore. Si va da un massimo di ritualizzazione, astrazione, formalizzazione tipico del trobar clus («poetare “chiuso” o difficile») a un’apertura alla concretezza, all’amabilità e alla levità della vita, ben espressa dal trobar leu («poetare “lieve”»); dal più raffinato e idealizzato amor de lonhamore da lontano»), cantato da Jaufré Rudel, uno dei più noti poeti provenzali, alla descrizione anche sensuale della donna e degli incontri d’amore. Questo secondo tipo di poesia è reso possibile da un atteggiamento di minore chiusura della lirica provenzale nei confronti della realtà della vita quotidiana e borghese.
Va inoltre registrata la presenza di poetesse, come Azalais de Porcoiragues e la contessa Beatriz de Dia, ed è anche questa una prova del nuovo ruolo della donna nella società e della sua accresciuta autonomia. E proprio la contessa di Dia in una sua poesia canta: «Ben volria mon cavalier/tener un ser en mos brazt nut» (Vorrei stringere nudo una sera il mio cavaliere fra le mie braccia). Sono versi spregiudicati, eppure esprimono un gioco altamente ritualizzato, quello di una prova estrema d’amore che faceva parte di un codice ampiamente previsto: l’amante era ammesso nudo nel letto della donna, ma doveva mostrare la propria gentilezza non andando oltre baci e abbracci, e obbedendo in tutto alla volontà della donna.
La forma principale di poesia lirica è rappresentata dalla canzone di quattro, cinque o sei strofi, costruite secondo lo stesso schema, in versi ottosillabici in rima, e una chiusa formata da uno o più congedi (o tornate). La canzone d’amore è estremamente formalizzata, sia nella struttura metrica, sia in quella tematica: esordisce con un topos che descrive la natura (mostrando, per esempio, la corrispondenza tra amore e primavera), poi rappresenta la donna e ne canta le lodi, infine introduce la figura del rivale o dei maldicenti che possono danneggiare l’amante; la chiusura è affidata a un congedo che spesso contiene una decisione dell’innamorato in relazione alla sua vicenda d’amore.
Altri sottogeneri tipici della poesia provenzale sono il sirventese (d’argomento per lo più politico), il partiment («dibattito»), il plah («compianto»), l’alba (la separazione dei due amanti dopo una notte passata insieme), la pastorella (incontro d’amore tra un cavaliere e una villana).
[…] Le poesie liriche erano trasmesse per via orale e destinate alla recitazione con accompagnamento musicale. Poiché però il trovatore affidava al giullare un testo scritto che conteneva anche la melodia, ne è rimasta una relativamente ampia documentazione. Nel XIII secolo, i testi sono stati poi raccolti in canzonieri contenenti anche vidas («biografie» o «vite» dei trovatori) e razos («spiegazioni» delle loro poesie).
Il primo poeta provenzale fu Guilhèm IX de Peitieus, duca d’Aquitania e settimo conte di Poitiers, uno dei maggiori signori feudali del suo tempo, vissuto tra il 1071 e il 1126, organizzatore di due crociate, uomo molto potente e anche – pare – molto criticato per la sua vita amorosa troppo libera. Di lui ci sono rimaste dieci poesie (di un’undicesima è dubbia l’attribuzione), in cui s’incontrano temi realistici, sensuali e burleschi, ma anche un’ispirazione cortese volta a cantare la fin’amor. Rientra in questo secondo tipo la canzone Ab la dolchor del temps novel, che è una delle più belle poesie medievali e che costituisce un modello cui si rifarà tutta la poesia provenzale.
Fra i poeti successivi, la differenza che separa il trobar clus e il trobar leu è ben espressa dall’opposizione fra Raimbaut d’Aurenga, che segue la prima tendenza, e Bernart de Ventadorn, servo d’amore di Aliénor d’Aquitaine, il quale segue invece la seconda. Entrambi sono attivi fra il 1150 e il 1180. I due presentano tesi opposte anche sull’amore cortese: Raimbaut lo esalta nei suoi aspetti anti-matrimoniali giungendo a proporre l’inganno nei confronti del marito e a prendere come modello Tristano; Bernart lo respinge, arrivando a rifiutare la propria condizione di amante, giacché l’amore gli si presenta solo come sofferenza e negatività assoluta.
La generazione seguente è rappresentata soprattutto da Bertran de Born (poeta guerriero, che canta soprattutto di guerra), Guiraut de Bornhel e Arnaut Daniel, maestro del trobar clus. Tutti e tre, attivi negli ultimi decenni del XII secolo e all’inizio del XIII, sono molto apprezzati da Dante.

Approfondimenti bibliografici:

Beltrami P.G., Racconto mitico e linguaggio lirico: per l’interpretazione del “Chavalier de la Charrette”, «Studi neolatini e volgari» XXX, 1984.
Borsari A.V., Lancillotto liberato, Firenze 1983.
Citton G., L’eroe ingenuo. L’ironia nel “Chevalier de la Charrette”, «Medioevo romanzo» XIII, n.3, 1988.
Köhler E., Il sistema sociologico del romanzo francese, «Medioevo romanzo» III, n.3, 1976.
Köhler E., L’avventura cavalleresca. Ideali e realtà nei poemi della Tavola Rotonda, Bologna 1985.
Meneghetti L.M., Il romanzo, Bologna 1988.