Gli ultimi anni di Dante a Ravenna

di NOBILI S., in «Corriere della Sera – La lettura» n° 379, p. 19.

 

Geografie/1 | Analisi sulle attribuzioni.

 

Jean-Léon Gérôme, Dante. Olio su tela, 1864.

Con il suo nuovo libro dantesco, Alberto Casadei sceglie di immergersi nel dibattito critico più recente per chiedersi cosa di Dante siamo riusciti a scoprire fino a oggi, e cosa oggi Dante stesso e la sua opera rappresentino. In Dante. Altri accertamenti e punti critici (Franco Angeli), Casadei parte dallo studio della biografia, di quella vita intorno alla quale abbiamo così pochi documenti e tanti interrogativi, chiarissima nei contorni perché lo scrittore ce ne parla nella Commedia, e altrettanto oscura nei particolari, nelle date, negli incontri, nel numero dei libri letti: come se Dante stesso, e persino gli eredi e amici, si fossero divertiti a nascondere le tracce, per trasformare la ricerca in un’indagine poliziesca che si snoda per accumulo di indizi.

Da qui il lavoro minuzioso di Casadei, che si muove tra due poli, quello dell’accertamento filologico e quello della militanza critica, dove la seconda scaturisce naturalmente dal primo: quali dei testi attribuiti a Dante si possono dichiarare autentici? È vera quella lettera indirizzata all’imperatore Arrigo VII recentemente attribuita allo scrittore, o la discussa Epistola a Cangrande della Scala, così contraddittoria alla luce della Commedia? E quale il titolo definitivo del capolavoro?

Quanto alla falsità della Quaestio de aqua et terra – la tesi universitaria che Dante avrebbe discusso a Verona, dichiarata inautentica in anni recenti perché contiene teorie scientifiche posteriori – Casadei ne trae una conseguenza importante per l’itinerario politico e biografico dell’ultimo Dante: se la Quaestio è un falso, allora Dante non si sposta da Ravenna, dove spende gli ultimi anni della sua vita, per tornare a Verona, e quindi trascorre nella città romagnola un tempo forse maggiore di quanto non si sia mai creduto. Dato certo, oltre alla Commedia e alle opere giovanili, restano le Egloghe, che il poeta scrive proprio a Ravenna sollecitato dall’amico professore di Bologna, Giovanni del Virgilio. Scrivendo a lui, Dante – che pure, a differenza di Petrarca, non svaluterà mai l’esperienza volgare a favore del latino – matura il progetto di diventare un «Virgilio moderno», ponendo così le basi dell’Umanesimo, di cui avrebbe potuto essere il padre se non fosse sopraggiunta la morte. L’ultima opera si salda così con il «teatro» del Paradiso, su cui Casadei si ferma con grande lucidità per mostrarci Dante illustratore di un «mondo possibile», in gara con i pittori del tempo nel descrivere l’aldilà, anzi superiore perché capace di inventare una lingua sempre all’altezza della materia trattata, in una tensione poetica mai sperimentata prima. Ideatore di una «mistica intellettuale» che si conclude con la visione della divinità – un Dio quasi «ologramma» –, Dante si conferma, come disse di lui Eugenio Montale, «non moderno» e tuttavia misteriosamente vicino: un contemporaneo perenne, pure nella sua lontananza.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.