Petrarca postmoderno

di BONAZZI M., in «Corriere della Sera – La Lettura», n° 379 (3 marzo 2019), pp. 18-19.

Maestri | Il grande poeta trecentesco è stato a suo modo un anticipatore della visione secondo cui non si può giungere a una conoscenza oggettiva della realtà. Si legga il resoconto dell’ascesa al Monte Ventoso: tutto diventa sfuggente, si scompone in un gioco di citazioni. Sullo sfondo c’è la forte rivalità con l’autore della «Divina Commedia».

Illustrazione di A. Silverini.

Quando sia iniziata l’epoca moderna esattamente non si sa. Nel 1492, con la scoperta delle Americhe, magari o nel 1517, con la crisi luterana che spacca in due il mondo della cristianità occidentale; o forse ancora nel 1543, quando Niccolò Copernico afferma che la Terra è a girare intorno al Sole e non il contrario? Difficile rispondere. Di certo sappiamo quando è iniziata l’epoca post-moderna: in un giorno ventoso del 1336, con una passeggiata. E pazienza se è cominciata prima ancora della modernità. Nel mondo del postmoderno non ci sono fatti, ma interpretazioni. Una battuta? In parte, ma la sostanza non cambia. In effetti tutto è iniziato qualche anno dopo, diciamo intorno al 1353, e la passeggiata forse non c’è neppure stata. Non fatti, appunto: interpretazioni.

Il grande progetto della modernità è quello del confronto fra il soggetto e la realtà; una realtà oggettivamente intesa, che il soggetto riesce finalmente a misurare e controllare, forte delle sue conoscenze. Un’illusione, avrebbero poi sostenuto Friedrich Nietzsche e tanti altri pensatori insieme a lui: la realtà che ci circonda è molteplice, enigmatica, oscura; una foresta di segni che rinviano ad altri segni ed entro cui il soggetto ormai frantumato si muove come in labirinto. Solo il gioco di riferimenti e citazioni può allora ridare senso a una realtà che altrimenti rischia di dissolversi. «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine», scriveva Thomas Stearns Eliot nel 1922. È una buona descrizione di quello che aveva detto Francesco Petrarca sei secoli prima.

Lo conosciamo come un poeta; se fosse vissuto ai nostri non avrebbe sfigurato neppure come filosofo, ovviamente postmoderno. Non si tratta soltanto delle invettive furibonde scagliate all’indirizzo di chi pretendeva di ridurre la filosofia a un arido esercizio di logica, come se un ragionamento formalmente corretto potesse mettere ordine nella complessità del mondo. “Barbari”, scriveva, “pronti a calare in Italia da Oxford; incapaci di scrivere, restii a ogni coinvolgimento pratico” – quando il compito della filosofia è coltivare l’arte della parola e l’impegno politico!

Non è questo soltanto. Decisiva è piuttosto la consapevolezza che la realtà da sola non dice nulla; che è solo quando la leggiamo attraverso il prisma di altri testi che essa può acquistare consistenza, in una serie di rimandi potenzialmente infiniti, e di modificazioni continue di significato. Come nel caso della famosa passeggiata sul Monte Ventoso in Provenza.

 

Altichiero, Ritratto di Francesco Petrarca e di Lombardo della Seta. Affresco, 1376 ca. Particolare di San Giorgio battezza re Servio di Cirene. Padova, Oratorio di S. Giorgio.

 

In apparenza è tutto molto semplice. C’era una montagna, bella, alta, famosa, e Petrarca aveva provato a scalarla, in compagnia del fratello Gherardo. Appena ridisceso, aveva scritto una lettera «in fretta e di getto» al frate agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro, raccontandogli tutti i dettagli della sua avventura. La conclusione, però, è sospetta: che Petrarca dopo due giorni di scalata, ancora sporco e stanco, potesse vergare una lettera così forbita è da escludere. E infatti, alcuni dettagli suggeriscono che fu composta molto più tardi, una quindicina d’anni dopo. I dubbi ormai invadono tutto. Petrarca questa montagna l’ha scalata o si è inventato tutto? Perché il suo racconto è un po’ troppo fantasioso. La domanda più urgente è però un’altra. Ammettiamo pure che sia salito: ma è arrivato in vetta o no? Che cos’è successo davvero su quella cima? Sono domande difficili, che trovano una risposta possibile in un’altra lettera, indirizzata da Petrarca a un altro grande della letteratura italiana, a proposito di un altro ancora più grande.

Il destinatario era Giovanni Boccaccio, e in discussione era Dante. “Perché non lo ami?”, gli chiedeva il giovane amico, incapace di spiegarsi le ragioni del silenzio di Petrarca, o forse dando prova di una perfidia meravigliosa. Perché Dante, per Petrarca, è quello che l’ispettore Clouseau è per Dreyfus, un incubo capace di togliergli il sonno. Era acclamato come il più grande del suo tempo, Petrarca, e lo sarebbe stato per secoli. Ma anche se non lo ammetteva, lui lo sapeva: sapeva che quel toscano volgare (non sapeva neanche scrivere in un buon latino!) era più grande ancora, il più grande di tutti. Ed era vissuto solo pochi anni prima! Ma si può essere più sfortunati? Ovviamente Petrarca nega, professando un’ammirazione incondizionata. Ma è come Dreyfus, appunto, e l’irritazione traspare in ogni frase, fino a che gli scappa un commento illuminante, e tutto si chiarisce.

È quando Petrarca affonda il colpo basso, buttandola sul personale. Finge di elogiarlo e lascia cadere un giudizio pesantissimo sulla persona e su come si è comportato. È un grande Dante, scrive, e io lo ammiro molto: il suo desiderio di conoscenza era tanto intenso che non si è fatto fermare o distrarre da nulla: «Non le ingiurie dei cittadini, non l’esilio, non la povertà, non l’amore della moglie e dei figli lo distolsero dal cammino intrapreso, dal suo desiderio di gloria». Due piccoli indizi fanno una prova. Il primo: il desiderio di conoscenza che lo spinge sempre oltre. Questo non è un elogio. È una citazione, ed è una critica: Petrarca identifica Dante con il suo personaggio più famoso, con l’Ulisse dell’Inferno. Non era stato Ulisse che per desiderio di conoscenza («fatti non foste a viver come bruti…») aveva abbandonato moglie e figli («non il debito amore…»)? Il secondo indizio è la staffilata finale. È l’allusione al desiderio di gloria, che chiude la citazione: perché poi qual era davvero il desiderio di Dante? Non la conoscenza, ma la gloria – è per la gloria che ha sacrificato tutto, condannando la famiglia a una vita di stenti. Bella persona Ulisse, e bella persona Dante! Ormai siamo a un passo dalla soluzione.

Basta pensare a quale sia il tema del Canto XXVI dell’Inferno: non si parla di viaggio (lo analizza ora, nel bel saggio I giorni di Dio, edito da Mimesis, Massimo Campanini)? Improvvisamente, i viaggi si moltiplicano, e quelli immaginari diventano più importanti di quello reale. Ci sono quelli di Petrarca e suo fratello Gherardo; poi Ulisse e Dante. Sembrava una bella scampagnata, quella di Petrarca. È l sua risposta alla Divina Commedia. Che abbia scalato il monte non lo sapremo mai e non importa. Ma capire che cosa è avvenuto in cima, adesso diventa decisivo.

Iniziamo a mettere insieme le tessere del mosaico, partendo dai due opposti, Ulisse e Gherardo. Quello di Ulisse è il viaggio di chi pretende di poter raggiungere la meta fidando solo nella propria intelligenza, convinto di poter fare a meno del favore di Dio, e per questo miseramente fallisce. Gherardo è l’esatto contrario. Il racconto della sua ascesa sul Monte Ventoso è un’allegoria della sua scelta di vita. Gherardo si è fatto monaco, si è dedicato interamente a Dio. Per questo la sua ascesa è coronata dal successo. In mezzo ci sono i due contendenti, Dante e Petrarca. Apparentemente Dante è come Gherardo e Petrarca come Ulisse. Dante sul monte davanti a cui Ulisse era naufragato (il Purgatorio) era riuscito a salire; mentre Petrarca è svogliato, vacilla, tergiversa, non si capisce bene se raggiunga la meta o no. Ma non importa, in fondo. Perché quello che conta sono proprio esitazioni e oscillazioni: lì è il suo trionfo.

È l’identificazione tra Ulisse e Dante che ritorna su un piano più profondo. La colpa di Ulisse era la convinzione di poter raggiungere Dio con le sue sole forze. Ma non è la stessa cosa che ha fatto Dante, quando ha preteso di aver compiuto un viaggio nell’aldilà, unico tra tutti gli uomini? Non è un «volo» molto più «folle» di quello di Ulisse? Dante non solo è stato un cattivo padre, ma anche – quel che è peggio – uno scrittore empio (lo ripeterà anche Jorge Luis Borges, un altro che di post-moderno s’intendeva, in uno dei suoi stupendi saggi danteschi: «Dante fu Ulisse»).

Ecco perché Petrarca lascia tutto nell’incertezza, quando arriva in prossimità della cima. Se in gioco è la conquista dell’Eden, chi è lui per dire che ce l’ha fatta? La costruzione del racconto è perfetta: Petrarca è lì, fiero (in vetta? Vicino alla vetta? Non si capisce, ma ormai non importa); guarda il mondo dall’alto, sopra le nuvole, come un novello Zeus; apre le Confessioni di Sant’Agostino (un altro libro!) e quello che legge lo gela: «E gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti, e trascurano se stessi». Ma chi sei tu? Chi ti credi di essere che non sai nulla e non sei nulla? È una domanda rivolta a se stesso – e ancora di più a Dante, che dal Purgatorio aveva addirittura preteso di volare in Paradiso. Petrarca invece inizia a scendere: silenzioso, racconta, meditando sulla debolezza della sua anima e di quella degli uomini. Trionfante.

Anonimo, Francesco Petrarca nello studium. Affresco murale, ultimo quarto del XIV sec. Padova, Sala dei Giganti nella Reggia carrarese.

È il trionfo dell’umiltà, ma è anche una situazione che rischia di andare fuori controllo. Come in un racconto postmoderno, la realtà si è ormai scomposta in un gioco di citazioni, e tutto si fa più sfuggente. Dio improvvisamente si fa più lontano, sparisce dalla vista. Dov’è? Il viaggio rischia di non giungere mai a destinazione. E se Dio non ci fosse, e la nostra vita fosse un errare senza destinazione? E se fossimo tutti come l’Ulisse dantesco, persi in un labirinto indecifrabile? «Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?». Così scriveva un altro filosofo scalatore, lui pure campione del postmoderno: il solito Nietzsche, in Engadina, asceso «a seimila piedi sopra il livello del mare, e ancora più in alto su tutte le cose umane».

Il cerchio si chiude intorno al povero lettore, che pensava di leggere la cronaca di una scalata e si trova sommerso dai soliti problemi esistenziali. Da dove veniamo, dove andiamo? Non riescono a stare tranquilli neppure in salita, i filosofi. Il viaggio continua.

 

Un pensiero su “Petrarca postmoderno

  1. troppo divertente leggerti, grazie. È esattamente quello a cui pensavo oggi ma tu riesci a esprimere le tue osservazioni senza mai diventare pedante e noioso.

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